venerdì 3 luglio 2009

In Piazza del Popolo la bulimia dei gazebo

[di Renato Nicolini, da la Repubblica, 30.6.2009]

Non sono andato a Piazza del Popolo per la festa ACEA, ma le foto che ho visto mi sembrano sufficienti per parlare almeno di cattivo gusto. Ignoravo vi fossero stati prima, nel solo mese di giugno, i “Mediaset days” del digitale terrestre e le selezioni del Grande Fratello. Non sarà il MinCulPop (ripudiato dall’assessore Croppi senza capire la provocazione di Pettarin che lo invitava “a fare qualcosa” anche se quel qualcosa fosse di destra), ma certo c’è un orientamento prevalente, che non si concilia con la caratteristica fondamentale dello spazio pubblico, non essere cosa privata. “La casa era nu poco tutta la città”, scriveva bene Eduardo De Filippo. La cosa peggiore è che questa resa non ha nemmeno bisogno dell’assessorato di piazza Campitelli per manifestarsi. E’ una tendenza che appare spontanea ed inarrestabile. Che i decibel tendano a superare i limiti previsti dalla legge, posso testimoniarlo da un’altra parte di Roma, quella in cui vivo. Nella zona di Porta Portese i disagi per i residenti vanno ben oltre il mercato domenicale.

Oltre ad un’intensa attività edilizia (almeno tre cantieri aperti in duecento metri), nelle antiche mura si aprono discoteche, e la “4:20” sulla via Portuense, dove un tempo c’era “La Fede”, mitica cantina teatrale di Giancarlo Nanni, sparava alta i suoi suoni nella notte del 20 giugno, per festeggiare oltre le due del mattino l’arrivo dell’estate . Questa si apre male, perché senza idee. Fa sicuramente tenerezza che da piazza Campitelli si guardi indietro fino allo sbarco sulla Luna di 40 anni fa, ma forse c’erano anche altri anniversari, più legati a Roma, che sono invece stati ignorati: i trent’anni del Festival dei Poeti di Castelporziano e di Parco Centrale. Ma Roma non ha bisogno di amarcord, quanto di interventi sul brutto momento che vive oggi. Molti guai su cui la cultura potrebbe agire con la sua forza simbolica. Il degrado del centro di Roma si arresterà solo intervenendo sulle cause dell’espulsione da questa parte della città degli artigiani e delle attività qualificate, qualcosa che giorno per giorno lo sta trasformando in una zona senza qualità, un gigantesco shopping mall durante il giorno, un immenso ristorante bar a cielo aperto la notte. Perché non proporre qualcosa che aiuti a promuoverne la conoscenza stratigrafica, saperla leggere dalle tante prospettive storiche che ha incorporato? Sigmund Freud a Roma si emozionava davanti ai tanti tempi storici che leggeva contemporaneamente nei suoi luoghi. Magari partendo dal Teatro di Pompeo, dal luogo cioè in cui oggi sembra nascere il degrado dell’uso della città, Campo de’ Fiori. I Sindaci Argan e Petroselli avevano inserito l’estate romana – che faceva crescere il senso di appartenenza comune alla stessa città - in una politica di riequilibrio delle differenze tra centro e periferia. Si potrebbe ragionare sui luoghi degli eventi estivi partendo dal cambiamento che in trent’anni si è prodotto, non replicando stancamente vecchi schemi. Il Quarticciolo, il Pigneto, parco Alessandrino, il Lungomare di Ostia e tante altre “parti di città”, possono anch’essi – oggi – manifestarsi come luoghi di Roma, non solo “periferia”? Infine, Roma è una città che appartiene al mondo intero. Quale progetto guarda in quella direzione?

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martedì 30 giugno 2009

Mi arrivano segnali

[di Francesco Pettarin, fondatore di Massenzio Cinema]

Mi arrivano segnali.
Per le strade di Roma i manifesti annunciano che il 21 giugno torna l’Estate Romana.
Un sms mi annuncia che Alex Voglino, direttore del dipartimento delle politiche culturali del comune di Roma, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’ Estate Romana, lamenta la mancanza di Massenzio.
Andrea Garibaldi sul Corriere della Sera in un articolo in cui, dopo aver riconosciuto la ricchezza delle proposte della nuova edizione dell’Estate Romana, solleva un timido “tuttavia” rispetto alla mancanza di originalità della proposta.
Sempre nello stesso articolo Andrea Garibaldi mi cita, o meglio cita quello che il Secolo D’Italia di circa un anno fa ha riportato di quanto detto da me che, alla richiesta dell’ Assessore alle politiche culturali del comune di Roma Umberto Croppi rivolta ad intellettuali e operatori del settore di contribuire con suggerimenti al rinnovamento dell’intervento del Comune nella cultura, rispondevo, in tono provocatorio, che mi sarebbe piaciuto confrontarmi con una proposta di segno forte che indirizzasse in qualche modo la riflessione, il che nella semplificazione giornalistica è diventato un “fai qualcosa di destra”.

L’ Assessore alle politiche culturali del comune di Roma, Umberto Croppi, rispondendo ad Andrea Garibaldi, afferma di non essere un esperto di topografia e di avere problemi a dislocare le azioni nell’asse destra-sinistra.
Nella stessa risposta l’Assessore Croppi fa due affermazioni, la prima che quello che sta tentando di fare è riportare Roma nei circuiti internazionali della cultura e dell’arte; la seconda che la richiesta di Garibaldi di originalità corrisponde alla richiesta di “linea politica” di guareschiana memoria.
La prima tentazione è di accarezzare uno dei miei numerosi gatti e di liquidare il tutto come l’ennesimo esempio dell’ egocentrismo e della prepotenza che caratterizza politici e amministratori nell’epoca della televisione, per cui tutto ciò che esiste in qualche modo appartiene loro (tanto non esiste memoria) ed ogni, non dico critica, ma semplice dubbio diventa una faziosa e pregiudiziale volontà di disturbare chi lavora per il bene della città, della regione, del paese.
Magari avrei anche potuto con gli amici condire tale disincantato giudizio di un paio di battute liquidatorie sulla ovvietà delle affermazioni sul calendario da parte dei nostri amministratori o sulla necessità di avvertire i vigili urbani ogni volta che il nostro Assessore si mette al volante. Del resto non ho interessi da difendere e credo di essermi guadagnato fama di onestà intellettuale in più di trenta anni di “carriera” nell’organizzazione di eventi culturali in questa città.
Ma nutro nei confronti dell’Assessore Croppi una stima pregiudiziale, motivata dal suo intervento, quasi due anni fa quando non era ancora impegnato in cariche istituzionali, alla trasmissione di “La storia siamo noi” in occasione della riedizione al Colosseo del Napoleon di Abel Gance che organizzammo per i trenta anni dell’Estate Romana. Ho quindi pensato che le sue parole meritassero un approfondimento anche perché in qualche modo riprendevano cose dette in quell’intervista e che già allora mi avevano fatto venire voglia di interloquire con lui.
Mi perdoni l’Assessore Croppi, ma lo immaginai allora, giovane di destra, girare per gli eventi dell’ Estate Romana e chiedersi perché mai dovessero portare consenso alla sinistra dal momento che trattavano contenuti che anche a lui erano cari in un modo che anche lui condivideva; a mio giudizio commise allora un errore di prospettiva e lo commette di nuovo oggi: non solo Nicolini era di sinistra (e noi tutti che lavorando intorno a lui contribuimmo a dare sostanza ad un’intuizione) ma la sua “invenzione” si inscriveva perfettamente nel dibattito che in quegli anni attraversava la cultura di sinistra che usciva dal marasma del sessantotto e che vedeva contrapposte la visione marcusian-pessimistica su modernità e capitalismo (Idra dalle cento teste, impossibile da colpire a morte e verso cui opporsi era un atto splendido ma inutile) a quella lukaccian-pedagogistica per cui la funzione della cultura era quella di far prendere coscienza al popolo e farlo schierare per la rivoluzione (nel caso specifico fargli votare Partito Comunista).
Un gruppo di giovani, direi giovanissimi intellettuali (Alberto Abruzzese era allora poco più che trentenne), cercava di coniugare l’amore per la modernità, che considerava componente essenziale del marxismo, e la critica di un sistema basato sulla discriminazione e lo sfruttamento, Walter Benjamin sembrava lo strumento adatto ad una critica del capitalismo che non gettasse il bambino (lo sviluppo tecnologico e le nuove opportunità di democrazia) insieme all’acqua sporca di un sistema fatto di privilegi e sfruttamento.
Fu del tutto naturale se non inevitabile che tale posizione si incontrasse con il lavoro che l’assessore Nicolini andava facendo a Roma per portare in superficie le molte esperienze di cultura underground presenti in città rendendole accessibili ad un pubblico di massa.
Questo non poteva che creare un forte rigetto da parte sia della sinistra tradizionale che vedeva centrale il ruolo del partito e la sua vocazione educativa nei confronti delle masse, sia in quella movimentista che considerava un tradimento ogni forma di ricerca di nuovi equilibri che non fossero il risultato di un’azione rivoluzionaria, fummo attaccati da tutti. Cederna dalle colonne del Corriere della Sera ci imputava un uso criminale dei monumenti, all’interno del partito comunista fummo accusati di non batterci per una cultura popolare che vedeva nel decentramento il suo punto di forza, Massenzio fu tacciata di mettere sullo stesso piano il grande cinema con la spazzatura proveniente da oltre oceano, Frigidaire la rivista cui facevano capo i nostri amici più legati al “movimento” organizzò addirittura una sorta di anti Estate Romana dall’eloquente titolo “Miseria”, tutto questo è però la conferma di quanto tale dibattito fosse assolutamente interno alla sinistra e di tale area politica assumesse i presupposti, le modalità, i contenuti. Gli attacchi della destra non erano nel merito, che non veniva assolutamente riconosciuto, ma sul piano della correttezza amministrativa o su quello della moralità e del disturbo della vita cittadina.
Effimero e riscoperta del centro storico i mezzi, svecchiamento delle pratiche cittadine e rilancio dei consumi culturali gli obiettivi. Ma sopra tutto una cornice inequivocabilmente di sinistra: il diritto per tutti di godere di spazi ed azioni fino ad allora riservate ad élite.
Con il tempo le punte più aspre della polemica si andarono assottigliando, la sinistra comprese l’enorme potenziale di creazione di consenso che le manifestazioni estive rappresentavano, tanto da inventare una ragione compatibile con il proprio apparato: gli anni di piombo avevano chiuso in casa la gente che con l’Estate nicoliniana ritrovava luoghi di aggregazione (quanto sempre odiosa ci è stata questa etichetta buttataci addosso!), anche la destra smorzò le polemiche soprattutto là dove il consenso era così alto da rappresentare un sicuro lasciapassare per il cuore dei politici.
Non a caso un attento critico vicino alle nostre posizioni Guglielmo Pepe scrisse nel 1982 un articolo dal titolo “Le rughe dell’Estate Romana” in cui coglieva nell’eccesso di pubblica accettazione uno dei sintomi di una politica culturale che cominciava a mostrare segni di stanchezza. In effetti l’Estate Romana aveva finito di essere di sinistra era diventata patrimonio cittadino, era di tutti, a farla gruppi eterogenei per provenienza politica e culturale, vincoli di ogni tipo rendevano la scelta dei luoghi quasi obbligata, restava la grande funzione di servizio alla città.
Mi scuso per la lunga parentesi di ricordi ma credo che per capire il senso di quanto dirò non fosse evitabile.
Da troppo tempo la nostra città non vive una stagione di rinnovamento culturale, i grandi concerti gratuiti della giunta Veltroni e la stessa Notte Bianca hanno segnato un’epoca più rivolta al passato che a cogliere gli umori delle generazioni che stanno crescendo,
La correttezza amministrativa e il consenso generalizzato hanno preso il posto della volontà di rinnovamento di quel salutare fare scandalo che dovrebbe sempre caratterizzare le proposte culturali innovatrici, la mia impressione che l’amministrazione di sinistra avesse eccessivamente identificato se stessa, i propri umori, le proprie priorità con quelle dell’intera città perdendo di vista il conflitto, la contrapposizione anche forte che sono la linfa vitale della democrazia, soprattutto culturale, insomma la spiacevole sensazione che la politica avesse fatto un passo indietro e che a fare l’Estate Romana fossero gli uffici, che da mezzo di operatività diventavano operatori essi stessi, l’odioso smeccanismo per far funzionare tutto ciò il bando per le attività culturali, finto strumento di democrazia che serve solo a rendere praticabile la logica burocratica.
In realtà se vogliamo la mancanza di coraggio è stata non usare a fondo il grande elemento di innovazione culturale che il sindaco Veltroni e l’assessore Borgna si erano dati le “case”, del jazz, dei teatri, del cinema, l’auditorium come casa della musica, l’uscita cioè dall’effimero con un sistema di rete in cui ogni nodo diventa anche motore propulsore per gli altri e per quelle realtà che per fortuna dal sistema vogliono e debbono restare fuori.
La sconfitta del centro sinistra e il cambio della giunta non sono state sicuramente dettate da questo, ma altrettanto sicuramente ci trovavamo di fronte ad un nodo che andava interpretato.
In una buona democrazia l’alternanza è salutare, il nemico non viene più demonizzato, non si pensa più che non faranno prigionieri.
Dal cambiamento anche se ci penalizza possono in ogni caso venire elementi positivi.
Un portato positivo che credevo sarebbe seguito alla nostra sconfitta era che il nuovo assessore non avrebbe esitato ed eliminare la Festa del Cinema, contro cui la destra tanto si era scagliata in campagna elettorale, e finalmente l’Estate Romana.
Non solo, speravo che l’assessore Croppi desse un segno forte, non di tipo contenutistico ma di sistema alla nuova politica culturale, rispetto al quale noi, operatori culturali di sinistra, ci saremmo in qualche modo confrontati per renderla non più la proposta dell’assessore Croppi ma un patrimonio di tutta la città. Questo non è avvenuto. Non solo mi trovo di fronte ad un cartellone dell’Estate Romana che trasuda, credo e spero non volute, logica spartitoria e normalità burocratica da tutti i pori, ma l’Assessore per difenderlo invoca efficienza e spirito ecumenico.
Non credo sia sostenibile, come l’Assessore lascia intendere, che Roma fosse fuori dai grandi circuiti internazionali dell’Arte e della Cultura, anzi direi che la debolezza di questa Estate Romana, perfettamente riproposta nella nuova edizione sia l’essere tutta interna alle logiche di circuito per cui la città finisce per essere semplice tappa del giro di artisti e mostre e festival, nati altrove e qui riportati senza alcun valore aggiunto.
Eliminiamo questa Estate Romana che da simbolo di coraggiosa volontà rinnovatrice si è trasformata in meccanismo di normalizzazione burocratica e di logica spartitoria.
D’altra parte il luogo dell’Estate Romana nella sua stagione d’oro è stato il territorio cittadino ed il suo strumento l’effimero architettonico, oggi la cultura vive sempre più di rete e spazi virtuali.

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giovedì 25 giugno 2009

La condanna dell'Estate Romana. Corsera vs Croppi

[di Massimo Iacobelli]

Annunciati dagli “strilli” dei giornali, tornano anche quest’anno gli eventi dell’Estate Romana, un palinsesto di attività culturali, alcune delle quali diventate appuntamenti fissi per turisti e autoctoni.
Nata 32 anni or sono, l’Estate Romana portò la Capitale ai livelli delle altre città europee per quanto riguarda la ricchezza della proposta culturale e d’intrattenimento.
Cosa c’è di nuovo in questa edizione?
Prendendo in esame le graduatorie dei vincitori del bando di finanziamento comunale per gli spettacoli e i festival, sembrerebbe nulla.
Programmazioni differenti per i contenitori di sempre: dalla proiezione di dvd sulla terrazza del Belvedere all’Isola del cinema, dal Cineporto al Gay Village, e poi i comici in piazza, il teatro sotto la quercia del Tasso, etc.
A rivedere il calendario di qualche anno fa, ai tempi di Veltroni o di Rutelli, troveremmo poche sparute differenze.
A conti fatti, l’Estate Romana, contro la quale si è scagliato il centrodestra nel pieno dell’ultima corsa elettorale per la guida del Campidoglio, non è stravolta né rinnovata dalla nuova amministrazione guidata da Alemanno, e resta per molti una condanna dalla quale sembra difficile liberarsi.

Sui dorsi romani del Corriere della Sera Andrea Garibaldi, mettendo in rilievo la ricchezza della proposta di quest’anno, pone comunque il problema della mancanza di un segno, di un evento che metta in luce “un’interpretazione del mondo” che distingua il nuovo corso capitolino. E l’assessore Umberto Croppi risponde, cauto sulle definizioni e a quanto pare offeso.
A seguire l’articolo di Andrea Garibaldi del 19 giugno 2009 e la risposta di Umberto Croppi pubblicata il giorno seguente sempre sul Corriere della Sera.

L'evento «di destra»
Estate romana in cerca di un segno

di Andrea Garibaldi
Corriere della Sera - Cronaca di Roma - 19 giugno 2009

Centocinquantaquattro manifestazioni, 650 eventi singoli, per una spesa complessiva record di 4 milioni e 700 mila euro. Ogni romano, ogni giorno o sera ha venti possibili scelte fra concerti, cinema, teatro, arte, letteratura. Anche quest' anno l' Estate Romana c' è, come avviene - con alti e bassi - da 32 anni. Sono state salvaguardate undici manifestazioni «storiche», dal jazz a Villa Celimontana ai comici al Colosseo, e poi concerti di Bruce Springsteen e Marco Carta e tante iniziative legate alla Luna, 40 anni dopo lo sbarco. Spettacoli raffinati e popolari, di massa e d' elite, secondo una tradizione copiata in tutto il mondo. Tuttavia... Resta il sapore di una mancanza. La mancanza di un graffio, di un segno, di una zampata della nuova maggioranza di destra che governa Roma da tredici mesi. Un evento simbolo, una rassegna, un percorso che svelino come dal Campidoglio si produca anche cultura e non solo intrattenimento, si tenti un' interpretazione del mondo, si sperimenti il nuovo. «Ci manca Massenzio», ha detto uno dei dirigenti dell' assessorato alla Cultura durante la presentazione dell' Estate Romana. E in effetti le maratone di cinema nella maestosa basilica furono il sigillo delle Estati di Nicolini, così come i concerti gratuiti a Villa Borghese o ai Fori furono l' impronta di Veltroni, che convocava in città i suoi miti generazionali, Paul Simon o Paul McCartney. C' erano delle visioni: l' uso popolare dei monumenti, l' epica del cinema, la musica per tutti, le periferie verso il centro... Il nuovo assessore Croppi, all' inizio di quest' anno, lanciò un appello ai romani e al mondo della cultura e dello spettacolo per chiedere idee proprio sull' Estate Romana. Giunsero stimoli vari. Renzo Arbore - per dire - parlò di riscoprire la romanità con Sordi o Manfredi, chiese un ritorno a via Veneto. Pietrangelo Buttafuoco lanciò la rivalutazione di artisti «esclusi dai salotti ufficiali». Invece, Francesco Pettarin, fondatore di Massenzio, provocò: «Croppi abbia il coraggio di proporre un evento "da destra" con caratteristiche di internazionalità e di qualità». Aspettiamo la prossima Estate?

L'intervento
Il MinCulPop non abita qui

di Umberto Croppi, Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma
Corriere della Sera - Cronaca di Roma - 20 giugno 2009

Non sono un esperto di topografia e la comprensione della dislocazione delle azioni sull' asse destra-sinistra mi risulta spesso difficile. Così capisco poco il senso dell' articolo di Andrea Garibaldi sul Corriere di oggi, nel quale dice che si sarebbe aspettato un «segno», un «evento di destra» nel programma dell' estate romana. Per spiegare fa l' esempio del Massenzio di Nicolini, la rassegna cinematografica nata trentadue anni orsono e autoestintasi ormai da un po' . Fu un' importante innovazione ma non si capisce quale segno abbia rappresentato, certamente non un segno di sinistra. Di sinistra era la collocazione politica del suo ideatore, non le sue forme e contenuti: i due eventi più importanti furono l' imponente trasposizione cinematografica operata da Syberberg del wagneriano Parsifal e il mastodontico Napoleon di Abel Gance. Garibaldi sembra riproporre un ritornello lanciato a pochi mesi dall' insediamento della Giunta: non si vede il progetto. Come se l' affastellarsi di eventi e creature culturali del decennio precedente facessero intravedere - sia pure a posteriori - una qualsiasi architettura. Ora, ai suoi antipodi, Stefano Crippa, sul Manifesto di due giorni fa, paventa un' «estate tradizional popolare» in cui «romanità» e «tradizione» la fanno da padrone. A chi dare ragione? A nessuno dei due. Quello che stiamo tentando di fare, con qualche successo, è rimettere ordine, migliorare l' offerta ma, soprattutto, far crescere il livello e le possibilità di partecipazione degli operatori e dei cittadini, nonché riportare la Città nei circuiti internazionali della cultura e dell' arte. Cioè stiamo facendo ciò che è richiesto a chi ha responsabilità di governo. Se il segno che Garibaldi si aspetta è quello della linea politica di guareschiana memoria, se crede che a piazza Campitelli si sia insediato il MinCulPop, quel segnale da me lo aspetterà invano.

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mercoledì 18 febbraio 2009

Eluana Englaro, un libro e una legge

La notizia sprofonda nelle pagine interne dei quotidiani e sparisce dalla tv, mentre il silenzio che avrebbe dovuto accompagnare la tragedia di una donna e della sua famiglia cala proprio quando sarebbe auspicabile una comune riflessione sulla proposta di legge in discussione in Parlamento.
Spento il clamore scatenato irresponsabilmente intorno agli ultimi giorni di Eluana Englaro, dissolto il "caso" sul quale per settimane si sono accaniti commentatori e politici non sempre animati dalle migliori intenzioni (non sono tutti uguali: nei toni strillati, nei termini oltraggiosi, nelle analogie improprie e intenzionalmente ingannevoli, dovremo tenere memoria dello scempio di parole che è stato ancora una volta consumato sul corpo di una donna), ora possiamo provare a rileggere la storia di Eluana per comprendere cosa può insegnarci.

Lo abbiamo tenuto nel cassetto per settimane, questo libro. Il pudore e il dubbio ci hanno impegnato a tacere finché la nostra iniziativa potesse apparire solo per quello che vorrebbe essere: un contributo al ragionamento sulla fine della vita, su come essa sia irreversibilmente mutata con le accresciute opportunità offerte dalle tecnologie biomediche, su come tali opportunità possano rivolgersi nell'opposto "apparato di cattura" in assenza di un quadro di regole e comportamenti condivisi che rispettino in primo luogo la libertà di scelta della persona.
Insieme all'autore del volume, noi della Meltemi ci auguriamo che questa pubblicazione possa sollecitare un dibattito che conduca a ripensare il testo della legge sul testamento biologico oggi in discussione al Senato, raccogliendo e interpretando le parole insuperate della nostra Costituzione dove recita che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".

Alcuni interventi e commenti utili a farsi un'idea:

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lunedì 24 novembre 2008

La Classe. Una analisi per avvicinamenti progressivi.



Film di gran classe, La Classe, che ha vinto l’ultimo Festival di Cannes. Tanto da spingermi ad aggiungere ai tanti un mio argomentato elogio.

Dentro le mura di una terza media (Entre les murs è infatti il titolo originario del film) della banlieu parigina più meticcia e incasinata, veniamo chiamati ad assistere alla messa in scena di una bellissima sfida la cui natura a me viene da sintetizzare così: come trasmettere conoscenza e saperi a un gruppo di ragazze e ragazzi tra i tredici e i quindici anni che vivono in un quartiere periferico della Capitale francese, e ospita al suo interno rappresentanti dei Paesi una volta appartenuti all’Impero: dal Mali all’Algeria, dal Marocco alle Antille, con l’aggiunta di due ragazzi cinesi da poco immigrati? Sono adolescenti e quindi già di loro alle prese con trasformazioni, tempeste ormonali, ricerca di identità. E vivono in un mondo già di suo alle prese con il travaglio di una trasformazione vorticosa. Sono infatti portatori di abitudini, linguaggi, sensibilità e modelli culturali fortemente differenziati. E si ritrovano inseriti giorno dopo giorno per nove mesi in uno stanzone sommariamente arredato, dentro un edificio pomposamente chiamato scuola. Cosa li tiene insieme senza che prevalgano le spinte distruttive di un latente – ma neanche tanto - conflitto anarcoide, o si ritirino indifferenti nel loro guscio ad ascoltare musica aspettando con ansia il suono della campanella? Cosa li può far uscire da quel guscio, porre attenzione vera a ciò che li circonda, rendersi disponibili per tentare un percorso di crescita intellettuale e morale comune?

Senza indulgere a sentimentalismi dolciastri, senza infliggere esagerazioni ed esasperazioni melodrammatiche, spesso sfruttate in tanti film sulla scuola degli anni passati, senza nascondere difficoltà e ostacoli, a volte scoraggianti perché insormontabili (alcuni dei genitori dei ragazzi, invitati a colloquio a scuola, neppure conoscono la lingua del Paese che li ospita), una risposta il film la dà. E la risposta viene dall’impegno appassionato di un insegnante che cerca nel quotidiano di trasmettere concretamente il senso, il valore, l’importanza per chiunque – per dei ragazzi in un mondo siffatto specialmente - di una acquisizione progressiva del bagaglio necessario di conoscenza e sapere. Ma non in generale e in astratto, non in osservanza a un programma predisposto e predigerito,non in ossequio a un ordine esterno spesso incomprensibile e ostile, ma proprio a partire dalla realtà soggettiva dei ragazzi, dalla loro problematica esperienza, dal loro vissuto di dubbi, incertezze, aspirazioni, sogni.

Il film funziona proprio nel mostrare persuasivamente il farsi difficile e lento di questo straordinario e necessario percorso, non solo perché il regista, Laurent Cantet, è bravo – e con lui bravissimi ragazzi e ragazze della classe –, ma perché il racconto e la sceneggiatura sono tratti da un libro/testimonianza il cui autore è anche l’insegnante protagonista del film. Dalle vicende messe in scena risulta evidente come rispetto reciproco, e rispetto delle regole di una disciplina necessariamente rigorosa, non sono feticci astrusi, né scorciatoie retoriche e furbe alla Gelmini, ma cornice e imbastitura di un senso della scuola e di uno scopo che consistono proprio nel valorizzare e far acquisire dignità a tutti, purché partecipi di un lavoro condiviso nella ricerca di metodo, linguaggi, tecniche a tal fine indispensabili.

Alla fine dell’anno i ragazzi ricevono dal loro insegnante, a testimonianza del buon lavoro svolto, copia personalizzata dell’autoritratto che ciascuno ha descritto con episodi e illustrato con disegni e foto, contribuendo così a dare vita a una classe non formale e burocratica, ma fatta da individui che lavorando insieme si sono un pò alla volta conosciuti, misurati, stimati. Certo, non tutto riesce e ha successo. Uno dei ragazzi, Suleiman, pur essendo il più dotato, e malgrado i migliori sforzi e intenzioni del prof, non ce la fa a trovare un suo spazio costruttivo. Reagisce male al punto da venire espulso dalla classe e dalla scuola. E in questo anche il professore è costretto a fare i conti con i suoi limiti ed errori.

Pur in presenza di tanti ostacoli, difficoltà e resistenze, che mai come oggi caratterizzano il funzionamento della scuola e il percorso formativo pubblico, La Classe riesce a trasmettere efficacemente il messaggio che proprio per questo mai come oggi ragazze e ragazzi abbisognano di aiuto e guida, reclamano credibilità e passione, competenza e disponibilità reale negli insegnanti che incontrano. E quando con le loro infallibili antenne e fameliche attese percepiscono l’impegno vero, la passione gratuita, i più, ciascuno a modo proprio, prima o dopo corrispondono. Il clima che ne consegue, per gli ostacoli che affronta può definirsi eroico, ma per le scintille e vibrazioni che sprigiona viene da definirlo entusiasmante e perfino erotico. Ma quale passaggio vero di conoscenza e sapere tra adulti e ragazzi può esserci mai, se non in presenza di una accensione di emozioni e sentimenti che ha a che fare con l’energia e la forza dell’innamoramento? E senza l’energia che solo una forma di relazione che ha a che fare con la seduzione e l’innamoramento è capace di suscitare, come ci può essere vero insegnamento/apprendimento? Alla fine dell’anno, anche la più sgradevole e apparentemente refrattaria delle ragazze confida inaspettatamente di avere letto a casa, sottraendolo alla sorella più grande, La Repubblica di Platone. E si abbandona a un resoconto toccante di quello che ne ha tratto, specialmente dell’essere rimasta affascinata dal continuo far domande, da parte di Socrate, a chiunque incontrasse per strada: sulla sua vita, l’amore, i sogni, i progetti, la religione, la morte. Allora: La Classe e la Scuola, oggi? Socrate, appunto.

La Classe 2
Vorrei aggiungere alla scheda precedente una integrazione. Partendo da una domanda: cosa si può rimproverare al pur bel film di Laurent Cantet? Forse due cose. La prima: i 25 ragazzi e ragazze che compongono la classe, esclusi un paio, sono semplicemente incantevoli. Belli, teneri, espressivi, seduttivi. Proprio bravi. Cantet non ha scelto una classe normale, ha evidentemente riunito in una sola classe i tipi migliori presenti nell’intera scuola, o nell’insieme di più scuole. Questa, ammettiamolo, suona un po’ una furbata. Ognuno/a dei ragazzi/e rappresenta al meglio l’etnia di cui è espressione, e qualche fastidioso sospetto di una operazione alla United Colors of Benetton in effetti viene. Troppa esteticamente adorabile perfezione in una classe sola.

Il secondo appunto riguarda il gruppo di insegnanti. A parte il protagonista, straordinario nella sua appassionata professionalità, anche gli altri prof non scherzano. Il Preside, pacato ed equilibrato pater familias, si mostra perennemente preoccupato che della legge sia salvo oltre alla lettera anche lo spirito, mentre tutti gli insegnanti esprimono nel loro lavoro il meglio che di più non si può. Se, a mia esperienza, nelle scuole normali è l’insegnante bravo a costituire eccezione, qui a costituirla è quello un po’ meno bravo, quello un po’ nervosetto e non del tutto disponibile. Sarà realmente questa la realtà delle scuole francesi, tutti ragazzi così adorabili, e i professori così coscienziosi e generosi? Mi viene in mente un altro recente film inglese (Diario di uno scandalo, di Richard Eyre) la cui storia è parimenti ambientata in una scuola, là dove al centro della stessa c’è una giovane e graziosa insegnante che cede alla voglia di godersi senza remore un intraprendente e focoso quindicenne brufoloso. In agguato c’è però l’insegnante anziana, lesbica e acida, che, accortasi della disdicevole tresca e concupendo l’insegnante più giovane, non si fa scrupolo di ricattarla pur di averla tutta per sé. Una storiaccia trasgressiva e sgradevole, ma resa in modo psicologico acuto e verosimile. Quale è la realtà vera della scuola oggi, quella tutto sommato eroico/idealistica messa in scena da Cantet, o quella cinica e torbida del regista inglese? Forse, ciascuna per la sua parte, tutte e due. D’altra parte, che c’è di meglio di una gioventù vitale, bellissima e un po’ sbandata da redimere? E cosa di più stuzzicante e pruriginoso – ma anche di coraggioso – di un disvelamento di quanto nelle ordinate e sonnolente scuole inglesi ribolle dalla cinta in giù? (Un dubbio finale: e se nella scuola dei nostri tempi, a poter insegnare cose necessarie e importanti fossero più i ragazzi ai professori, che viceversa? Obama ha vinto le elezioni negli USA grazie alla Rete, agli sms, ai blog e a Face Book – cioè ai giovani, al loro entusiasmo, alla loro familiarità con le nuove potentissimi tecnologie della comunicazione. Nel frattempo, e ancora, la gran parte dei nostri insegnanti continua a pretendere ascolto mentre solennemente scandisce: “Tityre tu patulae recubans…”)

La Classe 3
C’è ancora qualche osservazione che vorrei aggiungere su La Classe di Laurent Cantet – e anche questo prolungato germinare di riflessioni va a conferma del valore del film. Dicevo della temperie eroica ed erotica che è la dimensione vera di una relazione di insegnamento/apprendimento tra docenti e discenti. Dicevo anche che il professore protagonista nel film è professore nella realtà, e ciò che nel film si racconta è frutto della testimonianza della sua esperienza raccolta in un libro da cui il film è tratto. Bene, nel film appare evidente uno sbilanciamento di attenzione emotiva del prof nei confronti dei ragazzi, e invece un suo soffermarsi quasi sospeso nello scambio con le ragazze. Appare poi evidente nel professore - nelle modalità espressive, nelle posture e nello stesso modo di atteggiarsi e camminare - una qualche valenza femminile, il che non significa femminea o effeminata, ma qualcosa che ha a che fare con la sensibilità, con l’apprensione protettiva propria del femminile materno. Non è infatti un caso che Suleiman, il più forte, diretto e franco tra i ragazzi, a un certo punto del film sollevi la questione delle dicerie che ha raccolto in giro, e cioè che al prof piacerebbero gli uomini. Così come forse non è un caso che il film si chiuda con l’inaspettato ingresso in scena di Socrate, evidentemente proposto come modello pedagogico. Ma ciò che della realtà del modello rimane nel film parte rimossa, è che Socrate con Alcibiade andava a letto, in una pratica di relazione pedagogica che non espungeva da sé il sesso, ma lo considerava anzi come parte coadiuvante necessaria.

Il problema può anche essere affrontato da un altro lato. C’è un passaggio del film in cui Suleiman, in uno scambio di dissenso conflittuale con il prof, gli si rivolge dandogli del tu. Ovviamente non si tratta di un tu di intesa e complicità, ma di paritaria e orgogliosa sfida. Questo è dal prof considerato intollerabile, ritenuto anzi motivo di segnalazione disciplinare al preside. Di fronte alla provocazione esplicita del ragazzo (guarda che io posso anche decidere di non rispettare regole di un gioco in cui non mi riconosco), il professore non prende in considerazione che quello è passaggio delicato e critico perché investe il fondamento della relazione tra due individui, e che quindi la sfida doveva essere accettata, e magari ricollocata, per meglio chiarirla, in un tempo successivo e in un ambito più appartato. Preferisce invece rifugiarsi dietro l’ autorità dell’ istituzione appellandosi alla sacralità delle sue regole. Di fronte al tu paritario e sfidante del ragazzo, il vero timore non sembra essere quello di una verifica necessaria delle ragioni sulle quali una relazione pedagogica autentica deve fondarsi, ma piuttosto quello della caduta della distanza, là dove il fattore distanza è chiaramente ritenuto presupposto irrinunciabile dell’autorevolezza. Ma Socrate, nel mostrarsi ai suoi discepoli in mutande - e anche senza -, perdeva per questo la sua autorevolezza? Cosa si vuole salvaguardare nascondendosi dietro una insuperabile distanza: il rispetto della competenza? O forse si teme che la troppa vicinanza sveli che dell’altisonante ruolo istituzionale è rimasto ben poco, e forse solo il vuoto simulacro?

Per associazione mi viene da ricordare quanto in un suo racconto osserva Silvano Agosti, là dove afferma che la nostra società, avendo separato tenerezza da sessualità, sessualità da amore, le ha trasformate in ipocrisia, misticismo e pornografia. Forse perché ciò che si dichiara di volere separare e confiscare a scopo di tutela dei più deboli si è invece trasformato in autodifesa di un proprio adulto potere di status e ruolo, in un depotenziamento e inaridimento della vita di relazione e interazione pedagogica alla sua fonte? Quanto si nasconde in termini di travisamento della verità dietro i paludamenti delle costruzioni e delle narrazioni ideologicamente di parte?

Insomma, come spero di essere riuscito fin qui a evidenziare, dentro le mura di una classe scolastica sono messi quotidianamente in gioco modelli e principi, questioni e temi che riguardano non solo il come mantenere la disciplina, o come esercitare decentemente il proprio ruolo di insegnante oggi, in una scuola della periferia metropolitana: ma chi realmente siamo noi, come dislochiamo i poteri e quanto (dis) onestamente pratichiamo i rapporti di forza, che senso vogliamo dare alla vita, cosa intendiamo lasciare in eredità alle nuove generazioni, e come. E si lascia timidamente intravedere che anche il maestro ha un sesso, ed evidenzia quale senso e peso condizionanti, in positivo e in negativo, continuino ad avere seduzione ed eros in un rapporto pedagogico, anche – specialmente? - quando essi siano tenuti ai margini, negati e rimossi. E quanto il non detto o il malamente dissimulato sia a volte la miglior chiave di lettura per la comprensione di una realtà.

La Classe 4
Proviamo a procedere con un ultimo sforzo nella riflessione, un po’ come fa il subacqueo che scende sempre più in basso a caccia di tesori sommersi. E proviamo quindi a mescolare, seguendo una logica di pura verosimiglianza, la trama dei due film, La Classe oggetto di indagine, e quello sulla scuola inglese sopra citato e sessualmente più esplicito. Forse così si riesce ad acciuffare una verità non necessariamente effettuale, che riguarda cioè la vita privata del professore, ma quella sostanziale del racconto proposto. Che Suleiman sollevi in classe l’ipotesi, sia pure riferita da “altri”, sulla omosessualità del professore; e che, sempre Suleiman, affronti il prof con linguaggio sfidante e dandogli pubblicamente del tu; e che il prof lo porti di corsa dal preside per farlo punire, facendolo così precipitare verso l’espulsione dalla scuola, si reggerebbero meglio in piedi se poggiati a un più equilibrato centro. Che esisterebbe se le cose fossero ad esempio andate così. Il prof, gay o non gay che sia (tra l’altro nel film, mentre di altre professoresse si danno festicciole alla notizia che sono incinte, dello stato civile del nostro - sposato o fidanzato o meno - non si dice nulla), verosimilmente prova una umanissima attrazione “socratica” nei confronti di Suleiman. Quest’ultimo, con le antenne sensibilissime di cui i ragazzi a quell’età sono forniti, l’ha percepito. Chissà, magari il prof stesso glielo ha fatto capire in maniera più o meno esplicita. (Dopotutto, la professoressa nel film inglese, in una situazione analoga, procede al dunque come una travolgente locomotiva). E la sfida del ragazzo che gli dà in pubblico un paritario tu, dopo avere tentato la carta delle dicerie sulla presunta omosessualità del prof, ha il significato di chi reclama una dichiarazione/confessione. E’ come gli chiedesse: insomma, chi sei veramente tu? Sei sicuramente un insegnante bravo ed esigente: ma non sei anche altro di più umano e a me molto vicino?

E’ verosimilmente questo ad allarmare il professore, e non la vivacità un po’ arrogante del quindicenne di periferia che bulleggia, ciò che lo spinge a favorire l’espulsione di Suleiman dalla scuola. Tra l’altro, una compagna di Suleiman gli riferisce allarmata che Suleiman, se espulso, verrebbe punito ben più pesantemente dal padre che lo rispedirebbe dritto in Mali. E per Suleiman questo sarebbe un disastro esistenziale. Ma il professore non recede dalla sua decisione. E Suleiman diventa così colui che deve essere sacrificato. Ma perché ha dato del tu al professore e definito stronzi i suoi compagni che lo rimproveravano, e se ne è andato dalla classe sbattendo la porta e spingendo casualmente una ragazza che cercava di trattenerlo ferendola in viso, o per qualcosa di più perturbante e pericoloso? Ecco, se le cose fossero state presentate così, il film avrebbe avuto una sua verità drammatica e piena. Ma in questo caso la figura del professore avrebbe avuto un profilo meno irreprensibile – sarebbe stato cioè disegnato non come un laico ed edificante santino, ma in modo più carnalmente umano. E al comportamento di Suleiman sarebbe stato conferito maggior spessore, mentre così lo si propone come uno spacconcello insensato e gratuito. Peccato perché Cantet, nel suo Verso Sud, ha saputo entrare nei meandri dell’attrazione e del desiderio tra mature e benestanti donne bianche occidentali e giovani aitanti e poveri haitiani. Ma qui ha sicuramente dovuto attenersi al racconto del professore, rispettare l’ambito e i confini della sua narrazione. Forse il regista più adatto per questo tipo di esplorazioni è Gus Van Sant, che già ci è andato vicino con il suo Scoprendo Forrester, dove il duetto protagonista è composto da un sedicenne nero sexy e talentuoso nella pallacanestro e nella scrittura, e un sessantenne professore magnificamente interpretato da Sean Connery.

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lunedì 10 novembre 2008

Libera competizione

Chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza degli attuali meccanismi di reclutamento nell'università italiana non si lasci sfuggire questo post dal blog di Piero Vereni:
http://pierovereni.blogspot.com/2008/11/mercato-delle-vacche.html
Una seconda puntata qui:
http://pierovereni.blogspot.com/2008/11/come-scegliere-i-commissari.html
Grazie a Piero per la consueta, ancorché amara, chiarezza.

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domenica 9 novembre 2008

Onde Tamare



Mi è in questi giorni capitato di seguire un pezzo di Uno Mattina, trasmissione della prima rete televisiva Rai. Intervistata dai due conduttori la scrittrice Susanna Tamaro; il tema, la scuola e il movimento dell’Onda contro la Gelmini e la sua riforma. Sono rimasto ad ascoltare sconcertato anche dal fatto che la Tamaro esponesse le sue argomentazioni del tutto priva di contraddittorio, assecondata anzi dai due compari ossequiosi e cinguettanti. Il suo intervento, durato complessivamente una buona mezz’ora, è così riassumibile.
1. Gli studenti protestano perché poco informati e manipolati da adulti in mala fede.
2. Il decreto va nella direzione giusta. Nella scuola ci sono troppi sprechi, i tagli sono assolutamente necessari.

3. Grembiuli, voti in condotta e maestro unico nella scuola primaria sono provvedimenti sacrosanti, perché portano uniformità, disciplina, ordine e risparmio.
A sostegno, nel suo solitario sproloquio televisivo Susanna Tamaro portava argomenti di questo tipo: “Un mio amico bidello mi racconta che i ragazzini, entrando a scuola la mattina, lo insultano ripetutamente. Ma se lui osa rispondere per le rime, quelli minacciano di denunciarlo”. Oppure, sul ritorno del maestro unico: “i tre maestri per classe (in realtà due su tre classi, ma pazienza), sono stati imposti dai sindacati per accrescere il numero di insegnanti occupati, ed erano in qualche modo giustificati dal baby boom degli anni Sessanta/Settanta. Oggi non ce n’è più bisogno. Io ho avuto alle elementari una sola maestra e mi sono trovata benissimo. Troppe figure in aula ingenerano nei bambini solo confusione”. E ancora, contro gli sprechi: “Se in una famiglia la madre passa il tempo a giocare a poker, non è giusto che si intervenga per vietarglielo?” E infine, sulla necessità di modificare i contenuti dei programmi: ”In seconda elementare già sanno tutto sulle piogge acide, ma non conoscono la differenza tra decilitri e centilitri..! Così riempiamo la testa dei bambini con problemi che non li riguardano, a scapito della conoscenza di cose ben più importanti”. Questi gli argomenti e gli esempi esposti dalla Tamaro, conditi da altri simili all’insegna di un buon senso regressivo e di una semplificazione reazionaria accasciante. Il messaggio trasmesso era questo: le cose, una volta (prima della globalizzazione? prima del ’68? durante il fascismo?) nella loro lineare semplicità andavano molto meglio. E’ lì che bisogna tornare.
Ora, che la scuola sia rimasta un corpo progressivamente separato dalle trasformazioni sociali avvenute negli ultimi (tre) decenni, non vi è dubbio. Che sia finita in una sorta di zona d’ombra e di vicolo cieco, comprensibilmente generando in chi vi lavora valanghe di rabbia e frustrazione, idem. Che quella pubblica in particolare sia stata lasciata – dai governi di destra, ma non solo – andare alla deriva, anche lì non vi è dubbio alcuno. E la riforma Tremonti/Gelmini, a base di tagli reali e di ritocchi simbolico-demagogici, di quelle scelte è rilancio virulento. Ma dovrebbe essere ben chiaro che chi a tali politiche oggi si oppone non lo fa perché difensore e alfiere della condizione e del funzionamento della scuola attuale. Ed è il caso di non farsi intrappolare nella parte di coloro che quel miserabile stato di cose, malgrado tutto, continuano a sostenerlo e a rivendicarlo. La vera novità importante e positiva di queste settimane è che, grazie anche alla arroganza e alla miseria dei provvedimenti governativi, gli studenti hanno reagito occupando e, meglio ancora, uscendo in massa per le strade e le piazze. E’ il movimento in atto, la sua passione ed energia, la sua rabbia critica, il suo rifiuto dello stato delle attuali cose scolastiche – e sociali e politiche – la vera uscita da un mefitico tunnel. E’ questa la vera condizione e base di una riforma della scuola concreta ed efficace oggi. Di una sinistra istituzionale che o è stata passiva e corriva,o ha fatto danni (io non rimpiango neanche Luigi Berlinguer, figuriamoci Fioroni!) io non mi fido. Io non credo a una riforma della scuola bellina, pulitina, perfettina, che pretenda di correggere e modificare rigorosamente all’interno del suo perimetro alcune delle storture evidenti, lasciando filosofia e impianto centrale tali e quali. Qui, per dove questo Paese è arrivato, si ha speranza di cambiare quel che serve, e arrivare dove si deve, soltanto agendo per il tempo necessario anche fuori delle aule, all’aria aperta, in pubblico, nel sociale e nel politico. Mettendo in discussione le cose nel loro marciume generale. Per essere chiari: se non si riesce a cacciare e sostituire buona parte dell’attuale classe politica dirigente che nessuno ha scelto perché auto nominatasi – mica solo quella di destra, il berlusconismo è uno spirito dei tempi ben più gramscianamente trasversale - non si va da nessuna parte, scuola compresa. Non è andando di nuovo per un soffio al governo, e con il Fioroni di turno, che le cose in generale, quelle scolastiche in particolare, cambieranno.
Ecco, di fronte al mite e petulante buonsenso reazionario delle Susanne Tamaro, si può e si deve reagire affermando: qui urgono rivolgimenti rivoluzionari. E poi tifare perché l’Onda duri, e si trasformi in pacifico ma radicale e generale tsunami.

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lunedì 27 ottobre 2008

Notizie e link dall'Onda

Qui di seguito trovate una selezione di alcuni dei siti o blog che stanno informando sulle iniziative nelle scuole e nelle università per evitare l'approvazione della legge 133/2008: molti di essi contengono liste aggiornate degli spazi on-line dedicati alla protesta. L'ultimo link rinvia al testo integrale della legge.


http://www.uniriot.org

http://mir.it/servizi/ilmanifesto/scuola2/

http://netmonitor.blogautore.repubblica.it/2008/10/21/petizioni-blog-e-forum-contro-la-legge-133/

http://maestrounico.blogspot.com/

http://precaridellaricerca.wordpress.com/

http://universitadasalvare.blogspot.com/

facebook

il testo della legge 133/08

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domenica 26 ottobre 2008

Insieme a quelli che dicono: "non reprimete il nostro futuro"

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito?
Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali.
C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. E allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private.

Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio.
Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere.
Attenzione, questa è la ricetta.
Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico
Piero Calamandrei
III° Congresso in difesa della Scuola nazionale, Roma, 11 febbraio 1950

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martedì 14 ottobre 2008

Post memoria

[di Massimo Ilardi]

Questo rinnovato conflitto esploso dentro le istituzioni tra fascismo e antifascismo non é entusiasmante. Anzi, deprime come ogni forma di conformismo. E’ una battaglia di retroguardia che si muove nel folto dei tempi lontani incapace di rispondere alle dure repliche del presente. La crisi culturale e politica della nostra classe dirigente trova qui, nell’asservimento a un tempo lineare e continuo, la manifestazione più eclatante della sua gravità e della sua visibilità. Lo stesso pensiero critico di sinistra che in altre occasioni ha dato prove di lucidità e creatività, messo di fronte a una questione sepolta ormai da quasi settant’anni, non può fare di meglio che perdersi in una pletora di luoghi comuni e dentro posizioni lontane da qualsiasi riscontro con una realtà sociale a dir poco ‘marziana’ rispetto a quei luoghi storici che si vogliono disseppellire. D’altra parte, quando torna a imperversare lo Spirito della storia come presenza eterna che vuole racchiudere in sé passato e avvenire incombe sempre minaccioso il rischio dell’accumulo di eventi ritenuti sacri, in quanto incarnano quello Spirito stesso, ma che di fatto non hanno più alcun significato per la vita di uomini e donne.

Un buon punto di partenza può essere invece questo: il fascismo, come fenomeno politico, culturale e sociale, é morto nel 1945 e con esso e nello stesso anno é morto di conseguenza l’antifascismo. Punto. Ora, non c’è dubbio che rientra in un processo naturale il fatto che la generazione che ha vissuto e sofferto queste esperienze le abbia conservate nella sua memoria e tenda a trasmetterle. Non é giusto però che pretenda di perpetuarle come eredità. Perchè se ciò che é stato, afferma Walter Benjamin, “viene celebrato come una ‘eredità’ é più disastroso di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa.” E’ invece proprio come ‘eredità’ che si tenta di celebrare, da parte di istituzioni e gruppi sociali consolidati dalla tradizione, il rito di una ‘memoria collettiva’. E, d’altra parte, come sarebbe possibile, mentre viviamo nella dimensione dell’iperconsumo, dell’uso effimero e della distruzione incessante di ogni cosa e valore, mentre accettiamo che la vita di un uomo sia strettamente ridotta alla sua esistenza individuale e che le generazioni passate e future non abbiano più alcuna importanza ai suoi occhi, formare una memoria collettiva al di fuori di un’eredità artificiale? Come sarebbe possibile, di fronte all’eccesso di percezioni, al moltiplicarsi di visioni che i media distribuiscono, immaginare il passato in maniera diversa da una vasta collezione di immagini, da un immenso simulacro fotografico, in cui la storia degli stili estetici ha preso il posto della storia reale?
Se é così, allora l’eredità che si vuole trasmettere alle generazioni successive assume i colori di una identità preconfezionata, di un prontuario di regole già stabilite, di un patrimonio di sentimenti e di tonalità emotive che, non avendo più alcun radicamento nella società, si vogliono perpetuare immutabili come fattore di coesione e di ordine pur essendo scomparso il gruppo di riferimento che li teneva in vita. E’ veramente un paese di vecchi quello che usa la loro supposta e arrogante saggezza per pretendere di possedere la verità! Salvo poi farli ritrovare come il protagonista del film di Lawrence Kasdan dentro un Grand Canyon sociale, sconosciuto e nemico.
Di altra natura, infatti, sono oggi i rischi che attentano alla nostra libertà materiale e su altri universi poggiano le culture giovanili che non ricercano alcuna memoria o simbolo per fondare le loro appartenenze. Esse si muovono leggere non attraverso il tempo ma lo spazio e proprio per questo rifiutano di rinchiudersi nei recinti di cemento costruiti dalle identità, soprattutto se sprofondate nel passato. Perchè non proviamo a chiedere loro se ricordano una data o, magari, solo il nome di qualcuno che ha partecipato a quella guerra civile di settant’anni fa? Ci accorgeremmo presto che quella guerra non é dimenticata, semplicemente non é mai esistita. A questo punto nessuno scandalo, nessun ditino accusatore o noiosa cantilena ‘buonista’ potrà nascondere la verità vera, e cioè che non possediamo più gli strumenti per conoscere quello che sta accadendo nel Grand Canyon sociale. La nostra cultura viaggia ancora al di sopra dei territori, legata alle ideologie che appartengono alla coscienza del lavoro intellettuale, delle sue avanguardie, dei suoi chierici, dei suoi specialismi. E’ sul territorio invece che si dispiega la catena delle conoscenze, delle mentalità, della mobilità, dei lavori, dei desideri che si sprigionano con violenza dalle culture metropolitane. Ed é sul territorio e solo sul territorio che le figure sociali si riconoscono come ‘parte’, organizzano le differenze, individuano il nemico.
Ben altro discorso sarebbe invece quello che si interroga sul perchè i segni visibili di queste culture si rivolgono sempre a destra e non più a sinistra come invece accadeva fino a qualche decennio fa. Perchè di segni si tratta e non di simboli: segni che guardano al presente e non simboli che scavano nel limo primordiale della Storia. Sono puri segni senza uno spessore temporale e una filosofia della storia che li sostenga e che hanno il solo scopo di provocare e di innescare il conflitto. Non provengono da una cultura e da una tradizione che fondano identità ma da una visione conflittuale assoluta che assegna appartenenze, tanto lucida e consapevole da portare a ogni costo allo scontro.
Ma perchè questi segni guardano a destra? Elenco semplicemente alcuni motivi che meriterebbero però ben altro approfondimento:
-il primo trova spiegazione nel contrasto tra democrazia e libertà. La crisi della mediazione politica e l’avvento di una società del consumo hanno trasformato il territorio non in un bene comune, come predica inutilmente la sinistra, ma in una misura e in una forma che si rendono spazialmente visibili attraverso la separazione tra differenze e l’esclusione delle diversità. E’ un territorio attraversato da barriere e da un tessuto di poteri centrifughi che si riproducono contro le istituzioni e che si struttura esclusivamente in connessione ai diversi rapporti di forza che di volta in volta vi si esercitano. E’ su questo territorio che il consumo proietta direttamente i desideri degli individui ed é sempre su questo territorio che il mercato cerca di esercitare la sua azione di controllo. Cercare di contrastare questi processi proponendo utopie (“un altro mondo é possibile”, la cittadinanza) o pratiche (il “fare società”, l’anticonsumismo, il riproporre gli antichi spazi pubblici della ‘città di pietra’) che si muovono non solo in una direzione diversa, che sarebbe legittima se tenesse comunque conto delle mutazioni antropologiche avvenute, ma secondo una linea completamente opposta che ripropone la democrazia come modello sociale e culturale fondato su un inarrestabile processo ugualitario e partecipativo, diventa pura follia politica. Perchè lascia alla destra la possibilità di gestire il dissidio tra la democrazia come forma di società e la libertà come pratica dell’individuo. Una libertà che non vuole impedimenti, non chiede partecipazione, scatena conflitti, delimita luoghi, crea differenze, non cerca consensi, non produce immaginari simbolici se non concretizzandoli immediatamente e che frantuma quella supposta massa democratica in gruppi, minoranze, individui in lotta tra loro e che agiscono sul territorio;
-il secondo riguarda il ‘vizio’ storico della sinistra di considerare diabolico tutto ciò che fuoriesce dalle istituzioni stabilite. Eppure la cultura di sinistra, almeno fino alla fine degli anni Settanta, é riuscita ad avere un ruolo essenziale nella politicizzazione della società italiana, e questo mentre le strade delle città venivano attraversate da conflitti sociali violenti che traducevano immediatamente in agire politico la loro intensità e l’innovazione culturale giocava un ruolo essenziale per legittimare la radicalità delle scelte di campo. Quando però la ‘ragion di Stato’ che é nel codice genetico dei partiti della sinistra ha di nuovo prevalso fino a criminalizzare una intera generazione, il distacco tra culture sociali antagoniste e politica statalista e legalitaria della sinistra istituzionale non poteva che consumarsi;
-il terzo, infine, si riferisce alla cultura di destra che, non riconoscendosi nell’arco democratico e costituzionale che ha fondato la Repubblica, é stata dal dopoguerra in poi una cultura antistituzionale, fortemente eversiva e destabilizzante rispetto al sistema dei partiti e alle sue regole. Questa carica che si é mantenuta nel tempo, nonostante svolte e svoltine, si ritrova oggi più adatta a rappresentare una microconflittualità che più di ieri é irrorata da una rabbia sociale e antistituzionale.

[da Carta, 22.10.2008]

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Meltemi Editore 2009