[di Gian Carlo Marchesini]
Film di gran classe, La Classe, che ha vinto l’ultimo Festival di Cannes. Tanto da spingermi ad aggiungere ai tanti un mio argomentato elogio.
Dentro le mura di una terza media (Entre les murs è infatti il titolo originario del film) della banlieu parigina più meticcia e incasinata, veniamo chiamati ad assistere alla messa in scena di una bellissima sfida la cui natura a me viene da sintetizzare così: come trasmettere conoscenza e saperi a un gruppo di ragazze e ragazzi tra i tredici e i quindici anni che vivono in un quartiere periferico della Capitale francese, e ospita al suo interno rappresentanti dei Paesi una volta appartenuti all’Impero: dal Mali all’Algeria, dal Marocco alle Antille, con l’aggiunta di due ragazzi cinesi da poco immigrati? Sono adolescenti e quindi già di loro alle prese con trasformazioni, tempeste ormonali, ricerca di identità. E vivono in un mondo già di suo alle prese con il travaglio di una trasformazione vorticosa. Sono infatti portatori di abitudini, linguaggi, sensibilità e modelli culturali fortemente differenziati. E si ritrovano inseriti giorno dopo giorno per nove mesi in uno stanzone sommariamente arredato, dentro un edificio pomposamente chiamato scuola. Cosa li tiene insieme senza che prevalgano le spinte distruttive di un latente – ma neanche tanto - conflitto anarcoide, o si ritirino indifferenti nel loro guscio ad ascoltare musica aspettando con ansia il suono della campanella? Cosa li può far uscire da quel guscio, porre attenzione vera a ciò che li circonda, rendersi disponibili per tentare un percorso di crescita intellettuale e morale comune?
Senza indulgere a sentimentalismi dolciastri, senza infliggere esagerazioni ed esasperazioni melodrammatiche, spesso sfruttate in tanti film sulla scuola degli anni passati, senza nascondere difficoltà e ostacoli, a volte scoraggianti perché insormontabili (alcuni dei genitori dei ragazzi, invitati a colloquio a scuola, neppure conoscono la lingua del Paese che li ospita), una risposta il film la dà. E la risposta viene dall’impegno appassionato di un insegnante che cerca nel quotidiano di trasmettere concretamente il senso, il valore, l’importanza per chiunque – per dei ragazzi in un mondo siffatto specialmente - di una acquisizione progressiva del bagaglio necessario di conoscenza e sapere. Ma non in generale e in astratto, non in osservanza a un programma predisposto e predigerito,non in ossequio a un ordine esterno spesso incomprensibile e ostile, ma proprio a partire dalla realtà soggettiva dei ragazzi, dalla loro problematica esperienza, dal loro vissuto di dubbi, incertezze, aspirazioni, sogni.
Il film funziona proprio nel mostrare persuasivamente il farsi difficile e lento di questo straordinario e necessario percorso, non solo perché il regista, Laurent Cantet, è bravo – e con lui bravissimi ragazzi e ragazze della classe –, ma perché il racconto e la sceneggiatura sono tratti da un libro/testimonianza il cui autore è anche l’insegnante protagonista del film. Dalle vicende messe in scena risulta evidente come rispetto reciproco, e rispetto delle regole di una disciplina necessariamente rigorosa, non sono feticci astrusi, né scorciatoie retoriche e furbe alla Gelmini, ma cornice e imbastitura di un senso della scuola e di uno scopo che consistono proprio nel valorizzare e far acquisire dignità a tutti, purché partecipi di un lavoro condiviso nella ricerca di metodo, linguaggi, tecniche a tal fine indispensabili.
Alla fine dell’anno i ragazzi ricevono dal loro insegnante, a testimonianza del buon lavoro svolto, copia personalizzata dell’autoritratto che ciascuno ha descritto con episodi e illustrato con disegni e foto, contribuendo così a dare vita a una classe non formale e burocratica, ma fatta da individui che lavorando insieme si sono un pò alla volta conosciuti, misurati, stimati. Certo, non tutto riesce e ha successo. Uno dei ragazzi, Suleiman, pur essendo il più dotato, e malgrado i migliori sforzi e intenzioni del prof, non ce la fa a trovare un suo spazio costruttivo. Reagisce male al punto da venire espulso dalla classe e dalla scuola. E in questo anche il professore è costretto a fare i conti con i suoi limiti ed errori.
Pur in presenza di tanti ostacoli, difficoltà e resistenze, che mai come oggi caratterizzano il funzionamento della scuola e il percorso formativo pubblico, La Classe riesce a trasmettere efficacemente il messaggio che proprio per questo mai come oggi ragazze e ragazzi abbisognano di aiuto e guida, reclamano credibilità e passione, competenza e disponibilità reale negli insegnanti che incontrano. E quando con le loro infallibili antenne e fameliche attese percepiscono l’impegno vero, la passione gratuita, i più, ciascuno a modo proprio, prima o dopo corrispondono. Il clima che ne consegue, per gli ostacoli che affronta può definirsi eroico, ma per le scintille e vibrazioni che sprigiona viene da definirlo entusiasmante e perfino erotico. Ma quale passaggio vero di conoscenza e sapere tra adulti e ragazzi può esserci mai, se non in presenza di una accensione di emozioni e sentimenti che ha a che fare con l’energia e la forza dell’innamoramento? E senza l’energia che solo una forma di relazione che ha a che fare con la seduzione e l’innamoramento è capace di suscitare, come ci può essere vero insegnamento/apprendimento? Alla fine dell’anno, anche la più sgradevole e apparentemente refrattaria delle ragazze confida inaspettatamente di avere letto a casa, sottraendolo alla sorella più grande, La Repubblica di Platone. E si abbandona a un resoconto toccante di quello che ne ha tratto, specialmente dell’essere rimasta affascinata dal continuo far domande, da parte di Socrate, a chiunque incontrasse per strada: sulla sua vita, l’amore, i sogni, i progetti, la religione, la morte. Allora: La Classe e la Scuola, oggi? Socrate, appunto.
La Classe 2
Vorrei aggiungere alla scheda precedente una integrazione. Partendo da una domanda: cosa si può rimproverare al pur bel film di Laurent Cantet? Forse due cose. La prima: i 25 ragazzi e ragazze che compongono la classe, esclusi un paio, sono semplicemente incantevoli. Belli, teneri, espressivi, seduttivi. Proprio bravi. Cantet non ha scelto una classe normale, ha evidentemente riunito in una sola classe i tipi migliori presenti nell’intera scuola, o nell’insieme di più scuole. Questa, ammettiamolo, suona un po’ una furbata. Ognuno/a dei ragazzi/e rappresenta al meglio l’etnia di cui è espressione, e qualche fastidioso sospetto di una operazione alla United Colors of Benetton in effetti viene. Troppa esteticamente adorabile perfezione in una classe sola.
Il secondo appunto riguarda il gruppo di insegnanti. A parte il protagonista, straordinario nella sua appassionata professionalità, anche gli altri prof non scherzano. Il Preside, pacato ed equilibrato pater familias, si mostra perennemente preoccupato che della legge sia salvo oltre alla lettera anche lo spirito, mentre tutti gli insegnanti esprimono nel loro lavoro il meglio che di più non si può. Se, a mia esperienza, nelle scuole normali è l’insegnante bravo a costituire eccezione, qui a costituirla è quello un po’ meno bravo, quello un po’ nervosetto e non del tutto disponibile. Sarà realmente questa la realtà delle scuole francesi, tutti ragazzi così adorabili, e i professori così coscienziosi e generosi? Mi viene in mente un altro recente film inglese (Diario di uno scandalo, di Richard Eyre) la cui storia è parimenti ambientata in una scuola, là dove al centro della stessa c’è una giovane e graziosa insegnante che cede alla voglia di godersi senza remore un intraprendente e focoso quindicenne brufoloso. In agguato c’è però l’insegnante anziana, lesbica e acida, che, accortasi della disdicevole tresca e concupendo l’insegnante più giovane, non si fa scrupolo di ricattarla pur di averla tutta per sé. Una storiaccia trasgressiva e sgradevole, ma resa in modo psicologico acuto e verosimile. Quale è la realtà vera della scuola oggi, quella tutto sommato eroico/idealistica messa in scena da Cantet, o quella cinica e torbida del regista inglese? Forse, ciascuna per la sua parte, tutte e due. D’altra parte, che c’è di meglio di una gioventù vitale, bellissima e un po’ sbandata da redimere? E cosa di più stuzzicante e pruriginoso – ma anche di coraggioso – di un disvelamento di quanto nelle ordinate e sonnolente scuole inglesi ribolle dalla cinta in giù? (Un dubbio finale: e se nella scuola dei nostri tempi, a poter insegnare cose necessarie e importanti fossero più i ragazzi ai professori, che viceversa? Obama ha vinto le elezioni negli USA grazie alla Rete, agli sms, ai blog e a Face Book – cioè ai giovani, al loro entusiasmo, alla loro familiarità con le nuove potentissimi tecnologie della comunicazione. Nel frattempo, e ancora, la gran parte dei nostri insegnanti continua a pretendere ascolto mentre solennemente scandisce: “Tityre tu patulae recubans…”)
La Classe 3
C’è ancora qualche osservazione che vorrei aggiungere su La Classe di Laurent Cantet – e anche questo prolungato germinare di riflessioni va a conferma del valore del film. Dicevo della temperie eroica ed erotica che è la dimensione vera di una relazione di insegnamento/apprendimento tra docenti e discenti. Dicevo anche che il professore protagonista nel film è professore nella realtà, e ciò che nel film si racconta è frutto della testimonianza della sua esperienza raccolta in un libro da cui il film è tratto. Bene, nel film appare evidente uno sbilanciamento di attenzione emotiva del prof nei confronti dei ragazzi, e invece un suo soffermarsi quasi sospeso nello scambio con le ragazze. Appare poi evidente nel professore - nelle modalità espressive, nelle posture e nello stesso modo di atteggiarsi e camminare - una qualche valenza femminile, il che non significa femminea o effeminata, ma qualcosa che ha a che fare con la sensibilità, con l’apprensione protettiva propria del femminile materno. Non è infatti un caso che Suleiman, il più forte, diretto e franco tra i ragazzi, a un certo punto del film sollevi la questione delle dicerie che ha raccolto in giro, e cioè che al prof piacerebbero gli uomini. Così come forse non è un caso che il film si chiuda con l’inaspettato ingresso in scena di Socrate, evidentemente proposto come modello pedagogico. Ma ciò che della realtà del modello rimane nel film parte rimossa, è che Socrate con Alcibiade andava a letto, in una pratica di relazione pedagogica che non espungeva da sé il sesso, ma lo considerava anzi come parte coadiuvante necessaria.
Il problema può anche essere affrontato da un altro lato. C’è un passaggio del film in cui Suleiman, in uno scambio di dissenso conflittuale con il prof, gli si rivolge dandogli del tu. Ovviamente non si tratta di un tu di intesa e complicità, ma di paritaria e orgogliosa sfida. Questo è dal prof considerato intollerabile, ritenuto anzi motivo di segnalazione disciplinare al preside. Di fronte alla provocazione esplicita del ragazzo (guarda che io posso anche decidere di non rispettare regole di un gioco in cui non mi riconosco), il professore non prende in considerazione che quello è passaggio delicato e critico perché investe il fondamento della relazione tra due individui, e che quindi la sfida doveva essere accettata, e magari ricollocata, per meglio chiarirla, in un tempo successivo e in un ambito più appartato. Preferisce invece rifugiarsi dietro l’ autorità dell’ istituzione appellandosi alla sacralità delle sue regole. Di fronte al tu paritario e sfidante del ragazzo, il vero timore non sembra essere quello di una verifica necessaria delle ragioni sulle quali una relazione pedagogica autentica deve fondarsi, ma piuttosto quello della caduta della distanza, là dove il fattore distanza è chiaramente ritenuto presupposto irrinunciabile dell’autorevolezza. Ma Socrate, nel mostrarsi ai suoi discepoli in mutande - e anche senza -, perdeva per questo la sua autorevolezza? Cosa si vuole salvaguardare nascondendosi dietro una insuperabile distanza: il rispetto della competenza? O forse si teme che la troppa vicinanza sveli che dell’altisonante ruolo istituzionale è rimasto ben poco, e forse solo il vuoto simulacro?
Per associazione mi viene da ricordare quanto in un suo racconto osserva Silvano Agosti, là dove afferma che la nostra società, avendo separato tenerezza da sessualità, sessualità da amore, le ha trasformate in ipocrisia, misticismo e pornografia. Forse perché ciò che si dichiara di volere separare e confiscare a scopo di tutela dei più deboli si è invece trasformato in autodifesa di un proprio adulto potere di status e ruolo, in un depotenziamento e inaridimento della vita di relazione e interazione pedagogica alla sua fonte? Quanto si nasconde in termini di travisamento della verità dietro i paludamenti delle costruzioni e delle narrazioni ideologicamente di parte?
Insomma, come spero di essere riuscito fin qui a evidenziare, dentro le mura di una classe scolastica sono messi quotidianamente in gioco modelli e principi, questioni e temi che riguardano non solo il come mantenere la disciplina, o come esercitare decentemente il proprio ruolo di insegnante oggi, in una scuola della periferia metropolitana: ma chi realmente siamo noi, come dislochiamo i poteri e quanto (dis) onestamente pratichiamo i rapporti di forza, che senso vogliamo dare alla vita, cosa intendiamo lasciare in eredità alle nuove generazioni, e come. E si lascia timidamente intravedere che anche il maestro ha un sesso, ed evidenzia quale senso e peso condizionanti, in positivo e in negativo, continuino ad avere seduzione ed eros in un rapporto pedagogico, anche – specialmente? - quando essi siano tenuti ai margini, negati e rimossi. E quanto il non detto o il malamente dissimulato sia a volte la miglior chiave di lettura per la comprensione di una realtà.
La Classe 4
Proviamo a procedere con un ultimo sforzo nella riflessione, un po’ come fa il subacqueo che scende sempre più in basso a caccia di tesori sommersi. E proviamo quindi a mescolare, seguendo una logica di pura verosimiglianza, la trama dei due film, La Classe oggetto di indagine, e quello sulla scuola inglese sopra citato e sessualmente più esplicito. Forse così si riesce ad acciuffare una verità non necessariamente effettuale, che riguarda cioè la vita privata del professore, ma quella sostanziale del racconto proposto. Che Suleiman sollevi in classe l’ipotesi, sia pure riferita da “altri”, sulla omosessualità del professore; e che, sempre Suleiman, affronti il prof con linguaggio sfidante e dandogli pubblicamente del tu; e che il prof lo porti di corsa dal preside per farlo punire, facendolo così precipitare verso l’espulsione dalla scuola, si reggerebbero meglio in piedi se poggiati a un più equilibrato centro. Che esisterebbe se le cose fossero ad esempio andate così. Il prof, gay o non gay che sia (tra l’altro nel film, mentre di altre professoresse si danno festicciole alla notizia che sono incinte, dello stato civile del nostro - sposato o fidanzato o meno - non si dice nulla), verosimilmente prova una umanissima attrazione “socratica” nei confronti di Suleiman. Quest’ultimo, con le antenne sensibilissime di cui i ragazzi a quell’età sono forniti, l’ha percepito. Chissà, magari il prof stesso glielo ha fatto capire in maniera più o meno esplicita. (Dopotutto, la professoressa nel film inglese, in una situazione analoga, procede al dunque come una travolgente locomotiva). E la sfida del ragazzo che gli dà in pubblico un paritario tu, dopo avere tentato la carta delle dicerie sulla presunta omosessualità del prof, ha il significato di chi reclama una dichiarazione/confessione. E’ come gli chiedesse: insomma, chi sei veramente tu? Sei sicuramente un insegnante bravo ed esigente: ma non sei anche altro di più umano e a me molto vicino?
E’ verosimilmente questo ad allarmare il professore, e non la vivacità un po’ arrogante del quindicenne di periferia che bulleggia, ciò che lo spinge a favorire l’espulsione di Suleiman dalla scuola. Tra l’altro, una compagna di Suleiman gli riferisce allarmata che Suleiman, se espulso, verrebbe punito ben più pesantemente dal padre che lo rispedirebbe dritto in Mali. E per Suleiman questo sarebbe un disastro esistenziale. Ma il professore non recede dalla sua decisione. E Suleiman diventa così colui che deve essere sacrificato. Ma perché ha dato del tu al professore e definito stronzi i suoi compagni che lo rimproveravano, e se ne è andato dalla classe sbattendo la porta e spingendo casualmente una ragazza che cercava di trattenerlo ferendola in viso, o per qualcosa di più perturbante e pericoloso? Ecco, se le cose fossero state presentate così, il film avrebbe avuto una sua verità drammatica e piena. Ma in questo caso la figura del professore avrebbe avuto un profilo meno irreprensibile – sarebbe stato cioè disegnato non come un laico ed edificante santino, ma in modo più carnalmente umano. E al comportamento di Suleiman sarebbe stato conferito maggior spessore, mentre così lo si propone come uno spacconcello insensato e gratuito. Peccato perché Cantet, nel suo Verso Sud, ha saputo entrare nei meandri dell’attrazione e del desiderio tra mature e benestanti donne bianche occidentali e giovani aitanti e poveri haitiani. Ma qui ha sicuramente dovuto attenersi al racconto del professore, rispettare l’ambito e i confini della sua narrazione. Forse il regista più adatto per questo tipo di esplorazioni è Gus Van Sant, che già ci è andato vicino con il suo Scoprendo Forrester, dove il duetto protagonista è composto da un sedicenne nero sexy e talentuoso nella pallacanestro e nella scrittura, e un sessantenne professore magnificamente interpretato da Sean Connery.
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