giovedì 26 giugno 2008

Una faccenda che mi sta a cuore

Ricevo e molto più che volentieri posto sul nostro blog la Lettera aperta che Massimo Canevacci ha inviato alla Facoltà di Scienze della Comunicazione.
La faccenda mi sta a cuore: per la profonda amicizia nei confronti di Massimo Canevacci, che è anche autore assai stimato della casa editrice, e per la mia passione verso l’antropologia culturale.
La Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma ha da tempo abbracciato un profilo assai discutibile, rinchiudendo troppo spesso le riflessioni di maggior spessore e complessità sull’universo della comunicazione dentro le maglie dell’infotainment e di una visione dell’industria culturale schiacciata sulla tivvù. Ciò ha anche comportato la, più o meno diretta, marginalizzazione, espulsione o autoespulsione di tanti docenti, ricercatori, studiosi che nutrono la vita accademica con la loro passione per la ricerca e la didattica e lo fanno a partire dalle relazioni tra loro e con gli studenti. Che si giungesse alla eliminazione di insegnamenti che in parte hanno costituito la storia di quella facoltà e che ne hanno certamente segnato tra le punte più alte, non solo per l’oceanica partecipazione degli studenti ai corsi, è, se mai ne avessimo avuto bisogno, un altro segno dei tempi. Cupissimi tempi, in cui l’università pare essere destinata a divenire l’esecutrice testamentaria di se stessa e in cui la domanda sempre più bruciante riguarda la garanzia della circolazione delle idee nel nostro Paese. Una faccenda di libertà, più che di diritto all’insegnamento.
Luisa Capelli


Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma

di Max Canevacci

Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente.
In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali.
Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali.
La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche.
Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti.
I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il “doppio vincolo”, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità.
Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.

maxx.canevacci@gmail.com


La lettera è pubblicata qui sul sito della Facoltà di Scienze della Comunicazione di dell'Università La Sapienza di Roma.

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giovedì 5 giugno 2008

Ho partecipato

Da vicentino che vive a Roma, insieme alla rappresentanza del Comitato No Dal Molin di Vicenza, ho partecipato alla manifestazione di Chiaiano e dei comuni limitrofi (Marano, Mugnano) mobilitati contro la riapertura della discarica dei rifiuti di Cava (“Io speriamo che me la Cava”, recitava speranzoso e serafico uno dei cartelli sulle spalle di un ragazzino del corteo).

Tra i vicentini No Dal Molin, specie tra i più giovani, c’è chi non era mai stato prima a Napoli. Nel passaggio in pulman dalla stazione ferroviaria di Napoli a Chiaiano, stanno incollati ai finestrini a commentare con esclamazioni di sconforto le immagini delle montagne di rifiuti e quelle del termitaio delle Vele di Scampia, già conosciuto qualche sera prima al cinema in Gomorra. E poi tutti si precipitano a fotografare l’improvviso apparire del moncone della superstrada interrotta davanti a un imprevisto e inamovibile edificio. Uno dei risultati della partecipazione alle battaglie di questa rete solidale di comitati a difesa dei valori della salute, della pace, della democrazia dal basso, della tutela dei beni comuni e dell’integrità del territorio, è l'occasione di conoscenza diretta di realtà significative del Paese.

Sì, alla manifestazione c’erano pure Luca Casarin e Oreste Scalzone e i giovanotti dei Centri sociali, e la rappresentanza dei piemontesi No Tav (io avrei apprezzato anche quella dei No Ponte - che unirà le due “cosche”, come beffardamente afferma Nichi Vendola -, e dei No Scaiola Nuke, e dei No Suv: ma dalla vita non si può avere sempre tutto). Sì, c’erano lo striscione di Legambiente e del WWF, e quello dei Cub e dei Cobas, e perfino un drappello minuscolo e battagliero sotto lo striscione Amici di Beppe Grillo. C’era il deparlamentarizzato Rizzo ad assistere alla sfilata dal marciapiede come una cocotte che si vuole ancora politicamente seduttiva – e c’era Tano D’Amico, grande fotografo imperituro, e il giornalista Ruoppolo a succhiare golosamente immagini e interviste per Anno Zero. Ma quel che conta, al di là di ogni attesa e aspettativa, era la presenza di tutta la popolazione protagonista in corteo a gridare slogan al cianuro equamente divisi tra Berlusconi e Bassolino, a spellarsi le mani sulle porte delle case e sui balconi, a ridere e a cantare da riempire i timpani e allargare il cuore.

E’ stata una grande festa di popolo: il sole picchiava, la bocca era arsa per le grida e la testa un poco girava, ma la gioia e la soddisfazione erano così forti tra le migliaia di persone in corteo e quelle che assistevano ai lati, che sicuramente l’eco sarà arrivata anche ai pazienti dei cinque ospedali che operano nel raggio di un paio di km dalla Cava. (A proposito: sapete a chi appartiene il territorio su cui si apre il sito prescelto da Bertolaso/Berlusconi come discarica? Alla Curia napoletana del cardinale Sepe! Che dall’affitto ricaverà un bel fiume di denaro… . Quando si dice le curiose coincidenze!)

Quindi è andata bene al di là di ogni rosea previsione, e senza le temute esasperazioni, violenze e tensioni. Molti i giovani presenti, le donne, le famiglie con bambini, i motorini che si infilano e saettano dappertutto come rombanti libellule. Lo slogan più gridato e ripetuto lungo l’intero corteo? “La monnezza non va bruciata. Sì alla raccolta differenziata.” E poi altri di fantasia un po’ più aggressiva che qui non è il caso di riportare. Berlusconi non si direbbe amato, ma Bassolino e la Iervolino sono bersaglio vituperato. Quello che la gente a Berlusconi non perdona è l’improvvisa e inaspettata dichiarazione di procedere nell’attivare la discarica di Cava anche con la forza militare, quando ancora Bertolaso non ha ultimato il compito di accertarne l’idoneità. Il che è stato come lanciare un secchio di benzina su un tappeto di tizzoni ardenti.. Ha voluto essere una provocazione frutto di spontanea arroganza, o è voce scaturita da una congenita insipienza?

L’appello con cui il Comitato degli organizzatori ha convocato la manifestazione è di ben altro spessore. “Le lotte ambientali che hanno infiammato tante realtà della Campania non nascono, come racconta la disinformazione mainstream, dagli “egoismi del popolo del no”. Queste insorgenze sono la risposta a un esproprio di democrazia ultradecennale che, come avvenne per la lunga stagione affaristica del Commissariamento post-terremoto, ha consegnato i nostri territori alla speculazione economica e finanziaria, alle ecomafie e agli interessi più indecenti delle burocrazie politiche. Le strategie della shock-economy campana hanno fatto della categoria dell’emergenza un dispositivo di comando e di profitto con cui ricattare continuamente le libertà collettive, censurare il dissenso e le alternative possibili verso una indispensabile strategia Rifiuti Zero che protegga l’ambiente e la salute collettiva, aprendo anche nuove opportunità lavorative.”
E ancora: “Le istituzioni e quell’ampio ceto politico che oggi strumentalizzano retoricamente il bene collettivo, hanno lavorato per 14 anni alla frantumazione di questo concetto e alla contrapposizione tra le comunità, oscurando l’esistenza di alternative concrete incentrate sul porta a porta, il riciclo, la riduzione degli imballaggi, il compostaggio e gli impianti a freddo.”
E infine: “Il decreto-rifiuti del governo Berlusconi è la consacrazione di questo processo e impone l’apertura di dieci discariche e quattro inceneritori che devasterebbero ampie aree della Regione. Questo è un modello di profitto sempre più aggressivo verso gli uomini e la natura, che ritiene di sopravvivere alla crisi distruggendo il territorio. Le lotte contro le mega discariche e l’incenerimento hanno invece costituito luoghi di condivisione, spesso autentici “consigli dell’autogoverno”, magari anche confusi e transitori, ma capaci di fare rete tra le popolazioni e ritessere dal basso nuovi modelli di bene comune.”

Insomma, la popolazione di Chiaiano e dei Comuni limitrofi sa di avere ragione e di combattere una battaglia non egoista o meramente localista. La Cava di Chiaiano è bosco ecratere – già in passato ricettacolo di rifiuti a valanga – intorno al quale sorgono quartieri popolari e ben cinque tra gli ospedali più importanti del napoletano e dell’intera regione. Consentire il ripristino della funzione di discarica significa accettare, per le generazioni di quel territorio, un futuro di sicuro pericolo. Questo non può essere deciso dall’alto, in questo modo arrogante e contraddittorio, schiacciando il dissenso con la forza militare. Se in Italia passa un’operazione siffatta, nei prossimi anni può passare, in dispetto e a prescindere dai principi di democrazia, autoritariamente di tutto. E infatti, nel manifesto politico del Comitato di Chiaiano e delle Reti campane contro la devastazione ambientale, si afferma:
“ Siamo in presenza della sperimentazione, con un consenso praticamente bipartisan, di un modello di relazioni sociali sempre più militarizzato, un autentico salto di qualità nei modelli di governance del territorio: c’è una produzione di norme penali “just in time” per colpire figure sociali del dissenso, che affianca anche simbolicamente la decisione del governo e respinge chi si oppone all’area della criminalità e dei “comportamenti antinazionali”. Lo “stato d’eccezione” diviene quindi categoria fondamentale per sostenere la qualità della decisione, rivelando in controluce la sua stessa debolezza, la sua delegittimazione sociale. La generalizzazione del collaudato meccanismo della “fabbrica della paura” con cui si ghettizzano interi gruppi sociali, come i migranti e i rom, si sta allargando a intimidire ogni forma di conflitto sociale.”

C’è anche chi – giudiziosamente, assennatamente – osserva che l’autorità dello Stato non può fermarsi sulle soglie del singolo giardino di chi si sente nell’occasione minacciato. Ma c’è oggi qualcuno disposto a ospitare nel suo giardino il percolato o le scorie nucleari, il ponte megagalattico o il raddoppio di una base militare straniera, o i trafori dell’alta velocità nel territorio di un Piemonte già sufficientemente devastato, gestiti dall’asse Berlusconi-Bassolino?

A chi fa spallucce, e commenta: questo è il dato di realtà, prendere o lasciare, viene da rispondere con Giorgio Ruffolo che su La Repubblica di qualche giorno fa afferma: “oggi domina un modello di produzione irresponsabile, uno stile di consumo semplicemente immorale”. Allora: accettazione fatalistica, o paziente e radicale messa in discussione del “disordine esistente”?

Bassolino, in particolare, più che per accettazione fatalistica dell’esistente si segnala per gli encomi nei confronti della politica muscolare inaugurata dal governo Berlusconi: quale miglior conferma che il “rinascimento napoletano” si è oggi trasformato in sistema di potere industrial-malavitoso? Si intende così, intruppandosi in un ruolo di subalternità, oscurare una stagione di compromesso e inettitudine?

Intanto, a controcanto inquietante, arriva la notizia che la camorra dei casalesi ha ammazzato l’imprenditore che aveva deciso di collaborare con la magistratura nell’indagine sull’industria dello smaltimento illegale in Campania dei rifiuti tossici della industrie del nord. Lo Stato starà pure celermente militarizzando la governance del territorio, o celebrando ai Fori Imperiali, con parate patriottarde, il 2 giugno: ma dove è quando si tratta si proteggere chi si pente e collabora alla caccia dei malavitosi?

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Meltemi Editore 2009