giovedì 26 giugno 2008

Una faccenda che mi sta a cuore

Ricevo e molto più che volentieri posto sul nostro blog la Lettera aperta che Massimo Canevacci ha inviato alla Facoltà di Scienze della Comunicazione.
La faccenda mi sta a cuore: per la profonda amicizia nei confronti di Massimo Canevacci, che è anche autore assai stimato della casa editrice, e per la mia passione verso l’antropologia culturale.
La Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma ha da tempo abbracciato un profilo assai discutibile, rinchiudendo troppo spesso le riflessioni di maggior spessore e complessità sull’universo della comunicazione dentro le maglie dell’infotainment e di una visione dell’industria culturale schiacciata sulla tivvù. Ciò ha anche comportato la, più o meno diretta, marginalizzazione, espulsione o autoespulsione di tanti docenti, ricercatori, studiosi che nutrono la vita accademica con la loro passione per la ricerca e la didattica e lo fanno a partire dalle relazioni tra loro e con gli studenti. Che si giungesse alla eliminazione di insegnamenti che in parte hanno costituito la storia di quella facoltà e che ne hanno certamente segnato tra le punte più alte, non solo per l’oceanica partecipazione degli studenti ai corsi, è, se mai ne avessimo avuto bisogno, un altro segno dei tempi. Cupissimi tempi, in cui l’università pare essere destinata a divenire l’esecutrice testamentaria di se stessa e in cui la domanda sempre più bruciante riguarda la garanzia della circolazione delle idee nel nostro Paese. Una faccenda di libertà, più che di diritto all’insegnamento.
Luisa Capelli


Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma

di Max Canevacci

Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente.
In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali.
Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali.
La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche.
Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti.
I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il “doppio vincolo”, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità.
Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.

maxx.canevacci@gmail.com


La lettera è pubblicata qui sul sito della Facoltà di Scienze della Comunicazione di dell'Università La Sapienza di Roma.

150 commenti:

Anonimo

Salve prof,
sono a dir poco indignata dalla scelta fatta dalla facoltà di debellare l'antropologia dal panorama base di studi della comunicazione.
Fortunatamente non mi troverò a subire questa mancanza perchè ho già sostenuto l'esame l'anno scorso.
Per me lo studio dell'antropologia culturale è stato veramentre fondamentale e mi ha aperto gli occhi su tante cose ho imparato a prendere a dare ecapire.

Credo proprio che sarebbe un grave errore togliere una materia dal mio punto di vista fondamentale oggi più che mai! Prendendo questa facoltà non pensavo di chiudermi in un mondo fatto unicamente di giornalisti, amo comunicare e spero che un giorno riuscirò a farlo nel modo più libero possibile e questo l'ho appreso grazie all'antropologia. Pensavo che l'università fosse ancora uno spazio libero dove scegliere il proprio percorso, non l'ennesima gabbia mentale e sociale.
Grazie all'antropologia ho imparato ad avere quello che è il giusto approccio nei confronti "dell'altro", cosa che penso così andrebbe a perdersi. Mi dispiace davvero tanto per tutti quelli che verranno e che non potranno studiare questa materia. Ma perchè invece di Antropologia non è stata eliminata un pò di sociologia????Sarebbe stato più equo.

Anonimo

Gentile Prof. Canevacci,

sono una studentessa prossima a laurearsi nel corso di laurea specialistica in Comunicazione d'Impresa e, durante il corso di studi triennale, ho avuto l'opportunità e la fortuna di frequentare il Suo corso di Antropologia Culturale e sostenerne il relativo esame.
Ho letto oggi la news sulla Sua webcattedra e, sebbene io sia riuscita a scampare a quest'insulsa decisione, ne sono rimasta veramente dispiaciuta.
Mi dispiace veramente tanto che questa facoltà, ma vorrei sottolineare "chi dirige" questa facoltà, attui con una tale superficialità e leggerezza certe scelte.
E' giusto infatti distinguere i pochi "al vertice" da tutti gli studenti come me che nutrono una profonda stima verso di Lei, che in questi anni ha sempre svolto il Suo lavoro con entusiasmo e passione, riuscendo a trasmettere non solo il lato più prettamente didattico, ma anche quello più umano, riuscendo a calamitare l'attenzione e l'interesse in modo lodevole.
La ringrazio perchè seguire il suo corso e studiare il Suo esame non solo mi ha portato una maggiore apertura mentale, mostrandomi tante sfaccettature che prima ignoravo, ma soprattutto mi ha arricchita culturalmente e interiormente.
E' triste pensare che tanti altri studenti non potranno godere della stessa opportunità in cambio di un'analisi dei dati o statistica piuttosto che la nuova teoria giornalistica del momento o semplicemente uno dei circa 6 esami fotocopia sulle teorie della comunicazione.
Sono solo una voce di un coro molto ampio, quello dei suoi studenti che la amano e apprezzano per tutto ciò che è e che dà, spero che questa possa esser per Lei la soddisfazione più grande.

Unknown

Caro prof,
sono una studentessa che ha seguito le sue lezione e che terrà a breve il suo esame.Le dico sinceramente lei è l'unica persona che attraverso le sue parole e riuscita a trasportarmi in quei posti a me sconosciuti.Vorrei sapere se noi alunni unendoci possiamo fare qualcosa?La ringrazio per tutto....Elisabetta

Anonimo

Egregio prof. Canevacci mi associo anch'io hai messaggi di stima e di solidarietà nei suoi confronti per la scelta fatta dalla facoltà di cancellare l'antropologia culturale dagli studi sulla comunicazione.

Anonimo

FINALMENTE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Il mio timore è però che questo sia la fine e non l'inizio di un processo che possa scardinare l'università per renderla altro da sé. Perché l'impressione è che l'idea di relazioni liquide fra istituzioni e "controcultura" (il termine è sbagliato, semplifico) sia stato un morbido cuscino su cui ci siamo rincoglioniti per diversi anni, quelli che casualmente hanno costruito il disastro di oggi. Ci sono credo, due direzioni diverse che per ora sono intrecciate, tutte e due brutte: una è la privatizzazione tramite fondazioni (in alcuni paesi turbocapitalisti, l'Italia già opera così nel campo proprio dell'istruzione!) l'altra è la demolizione pura e dura del sistema della conoscenza che è ormai solo specchio di se stesso (per questo non può difendersi dal Papa o da Morcellini). La privatizzazione, caro prof, Bateson e la sperimentazione li accetterebbe di buon grado. Dovremmo avere il coraggio di parlare al futuro, che significa avere progettualità e capacità di prenderne di Santa Ragione, ben più di ora che già sembra tanto.
Pensa, pare che chiuderanno l'Isiao, che è stato un concentrato della cultura coloniale del passato e che non è riuscito a riaggiornarsi nemmeno su questo versante (squallido). Non sono riusciti a crearsi una rete di sostegno "culturale" e la scelta anche per loro sarà presto (credo) assorbimento da parte di un ministero o fondazione (privati).
Il coraggio (Confucio usa questa parola per definire l'"intellettuale" - il junzi - del suo tempo) starebbe in una posizione inattuale, e l'inattuale significa come prima cosa mettersi al vaglio e non autoperdonarsi con fare cristiano.
La lettera mi piace, una boccata d'aria. Ma di striscio ho visto o letto in quest'anno e mezzo che le cose non vanno non solo in chi amministra la facoltà, anche in chi ne è amministrato. I funzionari dell'industria culturale (non parlo di te, ci mancherebbe!) non mi è sembrato che sic et simpliciter venissero meno grazie a programmi innovativi e sperimentali. Anzi, ne fanno tesoro e li rivendono con pratiche italiche quali menzogna, plagio, pose più o meno erotiche per autorità dello sguardo.
Comunque, con qualche scarto della conoscenza ci metteremo presto di nuovo in moto fuori dalle paludi delle istituzioni e fuori dal liquido del progressismo. Io personalmente la prenderò da molto vicino la questione del sapere, buddhismo chan + benjamin.
Zona e da ultimo quella brutta esperienza con l'editore e la sua contrattista mi hanno insegnato tanto, ho capito che bisogna rinforzarsi le spalle e prepararselo il futuro e i progetti, le sirene non cantano più (senza contratto anche loro, ora battono tra l'eur e ostia. Povero ulisse!).
Diego Gullotta

Anonimo

Cara Luisa,
ho letto la lettera aperta di Canevacci, che condivido nei temi e nello spirito, tesi a difendere (ahimè, sì, il nostro è un tempo più di difesa, che di progettazione del nuovo) una maggiore libertà e profondità della cultura di uomini e donne e un corrispondente ruolo dell'università oggi.
Nel merito, siccome mi è toccato in questi mesi il ruolo di responsabile della trasformazione dell'offerta didattica in un settore come proprio quello di scienze della comunicazione nel mio ateneo, io credo però che vada detto qualche altra cosa anche sulle difficoltà avverse che molti responsabili (come me) del cambiamento dell'offerta didattica universitaria hanno dovuto subire, a causa di vincoli e imposizioni che, in quasi totale parte, sono stati conseguenti a volontà politiche e a burocrazia amministrativa.
Ciò implica però distinguere ulteriormente fra scelte che sono state imposte e quelle che invece, nello schema di una maggiore razionalizzazione dell'offerta didattica, in realtà possono contenere decisioni politiche positive e strategiche ovvero negative o strumentali. Un compito, questo, non facile, perché significa accertare responsabilità e strategie lì dove non è facile vederle e riconoscerle; un compito difficile soprattutto perché non bisogna prendere la strada della rivendicazione strumentale ma imporre la necessità di una riflessione che segua una linea culturale, con la quale sconfiggere ogni progetto di riduzione della valenza multidisciplinare che sempre più occorre alla formazione universitaria. Penso che, in tal senso, al di là della sua denuncia, la lettera di Canevacci può servire dunque a cominciare.
Gino Frezza

Anonimo

Caro Maxx

concordo con te sull'importanza dell'Antropologia Culturale negli studi mediologici, soprattutto se considerata nella tua personale declinazione.

Personale ma, come tu stesso ricordi, decisamente orientata verso una transdisciplinarietà essenziale all'osservazione dei processi attuali di interazione tra media, tecnologie, arti, e perciò in eccellente compagnia metodologica con quegli indirizzi scientifici sensibili ai flussi del globale e del locale che anch'io incontro nei miei studi.

E' stato del resto proprio per questo tuo orientamento transdisciplinare che mi è stato possibile partecipare al progetto culturale di "Avatar", la rivista da te diretta, non a caso dedita all'esplorazione dei flussi della metropoli comunicazionale; è stato sempre per questo tuo orientamento che ho accettato di partecipare al tuo fianco, organizzando a mia volta eventi culturali transdisciplinari, alla breve ma intensa stagione dell'apertura serale della Facoltà agli studenti. E' per questo tuo orientamento che condividiamo letture, genealogie culturali, curiosità intellettuali, pur nelle reciproche differenze.

All'interno di un tale panorama, più che il ridimensionamento della disciplina mi risulta dolorosa la notizia del tuo imminente pensionamento, che significa perdita di un incalcolabile contributo formativo per gli studenti. Sono infatti convinta non che una disciplina in sé sia più importante di un'altra, ma che il metodo con cui la disciplina è affrontata sia talvolta insostituibile. E' per tale convinzione che a mia volta, pur insegnando una disciplina marginale nel corso degli studi, continuo ogni anno a presentare domanda di incarico come docente a contratto, nella forse presuntuosa ma radicata convinzione che non la materia in sé ma il modo in cui la interpreto (in cui Speroni ed io la interpretiamo) sia estremamente formativo per gli studenti di Scienze della Comunicazione. Chi infatti, più di uno studente di Scienze della Comunicazione, può avvantaggiarsi di uno studio (sociologico, antropologico ... meglio ancora: mediologico) che tiene insieme Arti (al plurale: e dunque visive, performative, installative, visuali, processuali, comunicative, networking, biotech, ecc. ) e Moda (meglio ancora sarebbe "Mode"), attraversando per così dire costituzionalmente più campi d'indagine, e necessitante di trasversalità che competenze poco sensibili ai flussi neppure sarebbero in grado di vedere?

E' dunque il tuo approccio, più che la tua materia, che mancherà agli studenti e a quanti di noi con te hanno interagito. L'accavallamento tra pensionamento e ristrutturazione del corso di studi fa pendere la bilancia più verso il primo che verso la seconda, anzi, in qualche modo ne smorza la portata. Qualsiasi insegnamento sia affidato ad altri piuttosto che a Massimo Canevacci perde di significato formativo, così come qualsiasi denominazione sostituisca l'insegnamento di Alberto Abruzzese è destinata ad apparire lillipuziana. Perdere certi maestri significa perdita di un approccio problematizzante, ricco, destrutturante, attento all'habitat del presente, creativo oltre che scientifico, e perciò insostituibile. La tua prossima uscita di scena sembra così colorare di ironia qualsiasi eventuale progetto contrastivo nei tuoi confronti. E si aggiunge alle altre gravissime, incalcolabili perdite di questa Facoltà.

Un abbraccio affettuoso

lv

ps. Rendo pubblica questa mia risposta sulla NIM, dove è pubblicata la tua lettera e dove chiunque voglia potrà intervenire.

Luisa Valeriani

Anonimo

Caro Professore,
Le ho già espresso via mail i miei commenti su ciò che lei e la sua materia rappresentate per noi studenti...
Non aggiungo altro, ma volevo esserci anc'io a testimoniare la mia presenza anche in questa "sede".
Annarita

Anonimo

proviamo a discuterne

Condivido la reazione di Luisa Valeriani, soprattutto per il suo equilibrio. L'esilio di Massimo è cosa che riguarda assai più il fatto che è - come me, ancora prima di me - sulla via della pensione. E magari riguarda il diverso trattamento tra associati e ordinari, così come tra università e università, a questo proposito. Ma non riguarda una rappresaglia - o almeno attendo conforto in tal senso - ma è emblematica della situazione attuale in cui l'organizzazione didattica di tutte le facoltà umanistiche versa da tempo. Una situazione che ha mortificato le personalità individuali dei docenti in nome di una qualità di sistema che si fatica a intravedere. E' accaduto e sta accadendo quasi dovunque. E' il problema di cui dovremmo parlare ogni giorno tra colleghi che amino davvero confrontarsi. Perchè non lo facciamo? Perchè a impedircelo sono proprio le strutture, i tempi e i modelli organizzativi dell'istituzione e con essa della comunità univeristaria? Io credo di si: chi comanda e chi subisce è vittima di un unico e comune destino.
Sono stato tra quelli che hanno ritenuto che il primo e più grande torto nei confronti di una personalità di studioso interessante e innovativa come Canevacci sia stato compiuto dalla comunità degli antropologi. In questo senso la comunità dei sociologi della comunicazione si è mostrata assai più matura nel riconoscere che - al di là del condividere il suo lavoro e le sue procedure (personalmente sono stato sempre "in discussione" con Massimo e il suo modo di leggere la modernità e post-modernità)- fosse un dovere professionale e istituzionale non abbandonarlo per una intera vita accademica al ruolo di ricercatore come era nell'intenzione di antropologi spesso per me assai meno significativi di lui.
Aggiungo infine, che trovo giusto quanto Canevacci suggerisce sul ruolo di una disciplina considerata in modo critico e non astratto, e quanto questo possa riguardare la centralità di approcci antropolgici e non funzionalisti, ma penso anche che l'equilibrio tra corsi e annualità e contenuti sia materia di sempre difficile soluzione. Sono sicuro che chi prende una decisione piuttosto che un'altra possa sempre motivarla e discuterla con chi non la condivida o se ne senta escluso. La bella lettera aperta di Canevacci può servire ad aprire una discussione. Potrebbe essere una occasione da non pordere. Magari spiegando a Massimo quanto sia difficile governare.
Alberto Abruzzese

Meltemi

Gli interventi di Luisa Valeriani e Alberto Abruzzese qui riportati sono stati pubblicati su NIM - Newsletter Italiana di Mediologia: http://www.nimmagazine.it .

Grazie a NIM per la diffusione.

Anonimo

Carissimo maxx,
condivido pienamente quello che hai scritto e guardo con preoccupazione questo ulteriore impoverimento della facoltà che è solo l'indice di una situazione che si sta facendo più grave (e più povera) al livello generale, nel campo della formazione e non solo. Invidio un po' la via d'uscita "amministrativa" che il "pensionamento" ti consente, anche perché sono sicuro che, per te, sarà solo un'uscita "amministrativa" appunto e non di fatto dalla tua attività di ricerca alla quale ho attinto e dalla quale mi attendo ancora molto. Tuttavia la mancanza, almeno qui in italia, di luoghi "concreti" - nonostante la comune sensibilità per la fluidità e gli sconfinamenti - dove possano stare per costruire ipotesi differenti tutti coloro che invece si vedono costretti a prendere la via d'uscita, è una sconfitta politico culturale alla quale non ci si dovrebbe rassegnare . E questo è sicuramente l'aspetto più doloroso della tua vicenda che dovrebbe sollecitare la ricerca di soluzioni forti.

Un abbraccio,
franco

lifeonmars

Scrivo in qualità di grande estimatore di Meltemi Editore e tutto ciò che gli ruota attorno, pur operando un in settore completamente diverso.

Qualche sera fa, con una cara amica ci si chiedeva quale potesse essere la parola che, parafrasando Montale, "squadri questa Italia informe".

Abbiamo concluso che la parola fosse "volgare", nell'accezione più estesa. Si vede e si "annusa" volgarità in tante settori (lunga sarebbe elencarli), che vive in questa atmosfera di regime omologante il pensiero.

In bocca al lupo-crepi a questa nostra minoranza che resiste, e che non coincide sempre con l'opposizione che siede al parlamento italiano.

Anonimo

Il vento fa il suo giro. E noi non siamo più come prima.
Chiunque si trovi ad affrontare, per propria volontà o per un concorso di circostanze, i problemi di una comunità moralmente stanca e alla deriva, economicamente in difficoltà e demograficamente non più attiva, ponendone in evidenza guasti e contraddizioni e suggerendo con il suo esempio le possibili soluzioni, si trova a fare i conti con quelli della comunità – i tiepidi e i neghittosi – che hanno da tempo rinunciato; o con gli invidiosi che, avendoci in passato e senza successo provato, non tollerano che qualcun altro riesca là dove loro hanno fallito. E quindi, al portatore di una visione, di una passione, di un progetto nuovo, molti mettono – apertamente o nascostamente – i pali tra le ruote.
Ma l’arrivo nella comunità di chi è vitalmente diverso, ateo e magari seguace di Wilhelm Reich perché convinto che il male sociale abbia origine nella repressione sessuale (“chi è sessualmente frustrato, prima ho poi la fa pagare al mondo intero…”), riattiva incubi antichi, rimette in moto desideri e sogni sopiti. Il vento torna così a fare il suo giro, rinfocolando il dolore di vecchie ferite, accendendo la speranza di un cambiamento ancora possibile.
“Il vento fa il suo giro” è uno splendido film (di Giorgio Diritti, alla sua opera prima; benissimo recitato, a parte un paio di attori professionisti, dagli stessi abitanti del luogo in cui è girato; rifiutato dai distributori nostrani e pluripremiato all’estero) per nulla consolatorio o dall’ammiccante lieto fine. Lo straniero pastore di capre ed ex insegnante arrivato dal versante francese dei Pirenei all’occitana alta Val d’Aosta (Chersogne) ha lasciato l’insegnamento perché “dove domina la burocrazia non si può insegnare ai ragazzi nulla di buono”; si è trasformato in pastore d’alpeggio per produrre il miglior formaggio caprino; ha abbandonato il villaggio sui Pirenei per fuggire dalla costruzione di una centrale nucleare. All’inizio accolto dalla comunità con benevola curiosità, di fronte all'ostilità crescente (proprio perché i suoi progetti hanno successo!), alla fine decide di gettare la spugna e ripartire. Anche il più fragile e sognatore tra gli abitanti del luogo decide, tragicamente, di mollare. Ma in qualcuno del piccolo gruppo di giovani valligiani, prima cronicamente demoralizzati, dopo l’esperienza di rapporto con la vitalità dello straniero, è rinata la voglia di restare al paese e di rimboccarsi le maniche.
Il vento ha fatto il suo giro, e anche nello sperduto e semi abbandonato borgo di Chersogne niente più è come prima. Se non altro per la capacità collettiva dimostrata nel realizzare un film che nella essenzialità di mezzi, nella sobrietà di linguaggio e stile, nel mettere efficacemente in scena lo scontro tra vecchio e nuovo, tra abbandono al gorgo della depressione e irrompere di nuova vita, è un piccolo capolavoro. In questo credo che il film partecipi e contribuisca (con mezzi e linguaggio diversi, cercando di dare un senso ai futuri possibili) a un lavoro oggi più che mai necessario di antropologia culturale.
Queste mie osservazioni ovviamente non sono, e non intendono essere, risposta alla bella e importante Lettera di Massimo Canevacci. Altri sicuramente sapranno e potranno nel merito meglio interloquire. Credo però che in qualche modo con quella lettera esse abbiano a che fare.

Anonimo

Caro Massimo, ho seguito con molta attenzione il dibattito che si è sviluppato a partire dalla tua lettera. Oltre la personale, intensa partecipazione e il coinvolgimento che sento rispetto a questa vicenda, vorrei inserirmi nella discussione apportando alcuni spunti che spero possano alimentare ulteriormente il confronto. Prima di tutto non credo che la decisione di Massimo Canevacci di andare in pensione (nonostante sono convinta che sia una perdita inestimabile per l’università e per la ricerca) sia più grave della scomparsa di Antropologia Culturale dal piano di studi di Scienze della Comunicazione. Sostenerlo sarebbe un modo per evitare di affrontare la questione più bruciante, che riguarda indubitabilmente e in maniera più estesa le scelte di politica culturale di questa facoltà e la profonda difficoltà di ricostruire una linea culturale in un momento di ridefinizione dell’università e della sua offerta formativa. Decidere di eliminare uno degli approcci fondanti della facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma è una scelta davvero difficile da sostenere, anche perché, tra le altre cose, si trova di fronte l’evidenza e l’urgenza di una situazione politica, sociale, culturale complessa e per certi versi allarmante.
Quello che spero è che a partire dalla lettera aperta del Prof. Canevacci, e dalla discussione innescata non solo in questo blog, si apra una produttiva piattaforma di confronto dialogico a partire dalla quale sia possibile trovare una soluzione che non sia penalizzante prima di tutto nei confronti degli studenti (ci tengo particolarmente a sottolinearlo) che verrebbero privati di un’occasione di formazione fondamentale e caratterizzante. Le mail di risposta alla lettera aperta che sono arrivate dagli studenti, alcune delle quali sono pubblicate in questo blog, sono decisamente eloquenti a questo riguardo.
Ma penso anche che eliminare Antropologia Culturale dall’offerta formativa di Scienze della Comunicazione sia estremamente penalizzante per l’orientamento e il posizionamento più generale della facoltà, che credo dovrebbe mettere a frutto l’investimento sostenuto in tutti questi anni nei confronti di una cattedra con una impostazione teorica assolutamente inedita nel panorama italiano, che dava ulteriore prestigio alla facoltà stessa.
Credo infatti che il merito più grande del Prof. Canevacci sia quello di aver aperto la ricerca antropologica a un versante per lo più inesplorato in Italia, e di averlo fatto attraverso un approccio trans-disciplinare che incrocia produttivamente la ricerca sul campo con le teorie post coloniali, con lo studio dei flussi tecnologici e dei codici semiotici della metropoli comunicazionale e delle arti contemporanee, utilizzando una didattica sperimentale estremamente efficace nel coinvolgimento e nell’accensione dell’interesse e del senso critico degli studenti. Tutto questo non può e non dovrebbe finire con la scelta del Prof. Canevacci di andare in pensione: a questo riguardo non bisogna dimenticare che le tracce che lui ha lasciato continuano ad essere produttive non solo per gli studenti che lo hanno incontrato nel loro percorso di studi, ma anche per tutti coloro che con lui hanno incrociato il loro percorso di ricerca (collaboratori di cattedra o dottorandi – come la sottoscritta – e ricercatori anche di altre facoltà) e che hanno approfondito, o approfondiranno, ulteriormente il senso di questo incontro nei loro autonomi sviluppi teorici e professionali. Mi piacerebbe pensare e mi auguro che, pur nell’indiscutibile insostituibilità del non-maestro (credo che il Prof. Canevacci non si sia mai sentito a suo agio con il termine “maestro”), le prospettive da lui aperte possano fecondare altri approcci, moltiplicare discorsi “che favoriscano spiegazioni/interpretazioni/mutazioni plurali, fluide e decentrate” (questo il senso della straordinaria esperienza di Avatar) e non siano un treno in corsa folle verso un binario morto.

Anonimo

Il valore di un esame non si determina dalla paura che riesce ad incutere nell'animo degli studenti, ma dalla sua capacità di fargli aprire gli occhi. Questo è il pensiero che in questi strani giorni continua a rimbalzarci nel cervello, quando pensiamo che hanno preso la triste decisione di eliminare lo studio dell’Antropologia Culturale dalla facoltà Scienze delle Comunicazioni.

Usiamo aggettivi come “strani” e “tristi” proprio perché a noi l'Antropologia Culturale ha fatto aprire gli occhi e ci verrebbe spontaneo dire “l'Antropologia Culturale di Massimo Canevacci”, ma in questa sede non è necessario difendere il titolare della cattedra. Questo perché (e mi lego con quanto ha scritto Giulia nel precedente post) l'attacco più duro è stato sferrato alla materia in questione, che a nostro avviso è indispensabile nel curriculum di chi si prepara a lavorare nel mondo della comunicazione.

I motivi sono tanti, e li conoscete bene tutti, ma qui ne riportarne riportiamo solo uno, il più importante, e che si lega con nostro pensiero iniziale: la capacità dell'Antropologia Culturale di indirizzarci verso la ricchezza, la polifonia di messaggi che nascono da una prospettiva non limitata da dualismi semplificatori.

Questo vuol dire che uno studente di Scienze della Comunicazione non deve essere un esperto in materia (non è suo compito), ma è sicuramente vero che la comunicazione avviene all'interno della società, e che la nostra società non si divide in buono - cattivo, bello - brutto. O quanto meno non possiamo più concepirla così. La società in cui viviamo è sfocata, fluida, ricca di sfaccettature, e un comunicatore questo lo deve sapere. Anzi, lo deve incorporare, fagocitare, elaborare. E l'Antropologia Culturale insegna proprio a fare questo.

Almeno a noi ha insegnato questo, e siamo felici di storcere il naso quando sentiamo e/o vediamo la nostra società "comunicata" come se fosse composta da due soli colori. E soprattutto quando ci vengono suggeriti quali sono i colori buoni e quelli cattivi.

Inoltre vorremmo solo ricordare, passando un attimo dal generale al particolare, che proprio nell’ultimo A.A. la cattedra del prof. Massimo Canevacci è stata una delle più attive di tutta la facoltà, coinvolgendo decine di ragazzi in esperienze didattiche nazionali e internazionali, fuori e dentro le aule universitarie. Ha guidato il nuovo progetto di rivista on line “ZON/A”, al quale sono stati chiamati a partecipare tutti i ragazzi della facoltà, e ha permesso al gruppo di ragazzi recatosi in Mato Grosso (ovviamente sempre grazie alla cattedra di Canevacci) di dar vita ad un seminario. Un seminario dalla didattica sperimentale, durante il quale gli studenti hanno condiviso la loro esperienza di ricerca sul campo con altri studenti, contaminando ulteriormente gli spazi ibridi della metropoli (aldeia/metropoli). Potete facilmente immaginare l’importanza di questa esperienza: non solo la normale didattica si è trasformata in ricerca attiva sul campo, ma la ricerca si è poi trasformata di nuovo in didattica, in condivisione partecipata, orizzontale e accumula tra studenti.

Un’idea troppo innovativa qualcuno penserà, però possiamo testimoniare che rappresenta un’esperienza estremamente formativa per uno studente confrontarsi con un incarico del genere. Basti pensare al cambiamento del metodo di studio e di esposizione dei concetti: studiare per preparare una lezione è diverso dallo studiare per fare un esame, così come parlare ad un pubblico di ragazzi è diverso dall’esporre nozioni ad un professore. Sembrano concetti ovvi ma bisogna dare l’opportunità ai ragazzi di comprendere la base di questa ovvietà. E problematizzarla. Purtroppo non possiamo sapere se queste opportunità verranno date ancora.

Quando ci è stato comunicata la decisione di togliere l’insegnamento di Antropologia Culturale, la prima nostra reazione è stata quella di pensare agli studenti che verranno dopo di noi. Loro non avranno modo di esperire l’importanza di vedere le stesse cose che sono sotto gli occhi di tutti con uno sguardo diverso, non impareranno ad osservarsi mentre osservano. Saranno mancanti rispetto a quello che abbiamo avuto noi. Quando noi studenti selezionati per il progetto di ricerca presso l’aldeia Bororo di Garças, siamo tornati a San Paolo in un piccolo appartamento messo a disposizione dall’Università Cattolica Puk, abbiamo passato intere ore a parlare di come il corso di Antropologia Culturale ci avesse cambiato, come ci avesse arricchito, di come abbiamo sentito i nostri cervelli espandersi in direzioni inaspettate, continui big bang neuronali.

Concludiamo sottolineando che nel nostro percorso di studi ci sono sempre stati delle costanti: impegno, passione, curiosità e voglia di crescere. Chi ci conosce sa che è così. Con la cattedra di Antropologia Culturale, con Massimo – ma anche con Ana, Antonella, Giulia e tutti gli amici e i collaboratori della cattedra – abbiamo avuto il modo di mettere insieme ed esprimere in modo innovativo tutte queste costanti. L’Antropologia Culturale, quanto non è appiattita sui localismi vari, è un potentissimo strumento di critica culturale, che allarga le prospettive, mette in discussione l’ovvio, e apre interessanti punti di vista, scopre connessioni tra cose apparentemente distanti.

Ma non è forse questo l’obiettivo principale anche della ricerca sociologica?

viviana gravano

La misura della forza di un luogo, che sia un paese, una comunità o persino un continente dipende solo dal grado di attenzione che presta alla ricerca. Credo che leggendo attentamente quale è stato ed è, in generale, il programma che l'Italia (da decenni incondizionatamente) dedica alla ricerca se ne possa trarre un perfetto autoritratto di questo paese. Sophie Calle, nel padiglione francese della passata Biennale di Venezia, faceva rileggere, reinterpretare e "decifrare" a decine di diverse persone, con i più disparati mestieri e patrimoni culturali, un semplice e banale messaggio con il quale era finita una sua storia d'amore.
Ciascuna di quelle letture rappresenta per me quella possibilità intensa e reale che esiste nel fare ricerca, nel cercare costantemente di spostare, anche di poco, un punto di vista. Chi sceglie, comunque e a prescindere da qualsiasi
situazione, di eliminare una di queste possibilità, non sa cosa vuol dire lavorare in un istituto di ricerca quale è, o forse in Italia dovremmo dire "dovrebbe essere", l'Università. Chiudere completamente un insegnamento (e sinceramente non capisco nemmeno il senso del dibattito intorno alla "pensione" di Canevacci, perché una cattedra è una proprietà? una casa che se si va in vacanza si chiude?) è come dire che si ritiene che, a priori, quell'approccio di lettura, non è interessante e importante per l'alta formazione dei nostri studenti.
Sarebbe interessante chiedere a chi ha potuto prendere questa decisione, cosa pensa delle migliaia di iniziative legate nel mondo culturale proprio alla ricerca della nuova antropologia, dell'antropologia visuale e così via. Perchè
se chi ha deciso pensa che effettivamente questo approccio all'oggi non serve forse dovrebbe fare , qui un bel post e serenamente spiegarcelo a tutti. E dico a tutti perchè la cultura, in teoria sempre, è patrimonio dei "tutti" non di chi se ne occupa come una cosa sua, secondo criteri che il nostro sistema universitario non gli impone nemmeno di enunciare pubblicamente, aprendosi al confronto con altri.
Dunque lancio una provocazione: io direi ai giovani che lavorano intorno alla cattedra di Canevacci da molto tempo, nelle condizioni proibitive e surreali in cui lavorano tutti i giovani ricercatori solo in Italia, di organizzare un convegno, in facoltà, ma aperto al pubblico, dove invitare chi ha ritenuto di poter abolire questo insegnamento potendo così fornire le proprie motivazioni, e studiosi che invece, anche in questo blog, hanno chiaramente
espresso parere contrario all'abolizione. E' questa forse un'occasione di un confronto frontale sui temi concettuali e non sulle strategie di potere interne a ogni facoltà in Italia. Io insegno Arte Contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Brera e faccio questo lavoro da oltre 20 anni, e credo che la sola cosa che posso dire di aver sempre "insegnato" è credere nella possibilità di moltiplicare continuamente l'approccio di lettura alle cose. Da un po' di anni, decisioni come questa mi fanno pensare sempre più spesso che l'ho insegnato e lo insegno nel paese sbagliato.
Chiudo dicendo che, ripeto, il problema non è solo di prestigio, ma è anche che forse chi prende decisioni terribili come queste, ovunque sia, non vede, perchè certo non vuole vedere, che la stragrande maggioranza dei giovani ricercatori italiani se ne stanno andando, che le nostre università invecchiano miseramente e che questo non farà morire la cattedra di antropologia di "Canevacci" ma farà morire l'università.
grazie per lo spazio

Anonimo

Caro Massimo, cari tutti,

avrei voluto scrivere molto prima su ciò che sta accadendo nella Facoltà di comunicazione a Roma, ma proprio su tale argomento troppi pensieri contorti hanno infestato la mia testa e non sono riuscito prima di oggi a mettere nero su bianco le mie sensazioni/opinioni/critche/emozioni.

Leggendo più volte la lettera di Massimo credo sia sensato fare due tipi di discorsi che poi vanno inevitabilmente ad incrociarsi. Il primo punto riguarda il personale rapporto di stima e amicizia che mi lega con Massimo e con la cattedra di Antropologia Culturale tutta, incredibile fucina di innovazioni che mi ha aiutato a crescere, a dare sfogo alle mie sensibilità e a crederci, il secondo punto invece riguarda la più preoccupante situazione che si va delineando all’interno della nostra Facoltà, una situazione a tratti imbarazzante che ha portato a questa decisione discutibile (eufemismo) di sopprimere una disciplina così importante come l’AC, discorso che seppur legato a doppio filo con il primo punto, in un certo senso si slaccia da esso svincolandosi dai personalismi ed immergendosi in un contesto molto più ampio e a mio parere preoccupante viste le recenti e restrittive svolte politiche del nostro Paese .

In tutti questi anni di carriera universitaria che mi hanno portato alla laurea proprio con una tesi di Antropologia Culturale, ho potuto vivere sulla mia pelle quello che ritengo il vero significato di vivere l’Università. E’ inutile dilungarmi troppo sulle personalissime motivazioni che mi hanno portato a stringere un legame così forte di stima ed amicizia reciproca con Massimo e con la cattedra, ma credo sia utile far capire come uno studente alle prime armi quale ero io fresco fresco di liceo (e purtroppo per me, terribilmente introverso), si sia sentito subito responsabilizzato e gratificato da un rapporto che andava ben oltre il classico e sempre più frequente percorso “lezione-esame-voto-addio”.

Penso non solo alle magnifiche esperienze delle lezioni (che ho seguito più volte durante i diversi anni universitari) o all’esame, ma mi vengono soprattutto in mente le attività che la cattedra ha realizzato per cercare di coinvolgere di più gli studenti credendo in loro abbattendo con risultati egregi, quelle barriere gerarchiche tra docenti e studenti che spesso e volentieri l’università italiana ha costruito e fortificato nel tempo, quelle barriere che il più delle volte impediscono ai ragazzi di vivere il proprio corso di studi in maniera differente dalla sola corsa all’ottenimento dei crediti, una politica che sempre più considera le persone come semplici e asettici numeri di matricola: mi vengono in mente allora seminari sperimentali incredibili che Massimo con Flavio De Giovanni, Daniela Ranieri e Antonella Passani (“Una Stupita Fatticità” e “Corpographie”) hanno realizzato coinvolgendo ed arroventando le sensibilità di noi studenti, penso all’apertura della Facoltà di sera (“Ex-Cathedra”) dove ci veniva data la possibilità di presentare i nostri lavori, penso infine alla difficilissima e per questo ancora più bella esperienza dai Bororo in Mato Grosso, che io e altri ragazzi/e abbiamo fatto insieme a Massimo, tutte esperienze che non solo hanno arricchito noi, ma che hanno portato prestigio alla Facoltà di Comunicazione tutta.

Mi piange il cuore pensare che proprio chi ha cercato di cambiare le cose dall’interno in modo appassionato ridisegnando dialogicamente le relazioni tra docente e studente (due soggettività pienamente riconosciute tra loro), venga messo in crisi e da parte a causa di decisioni francamente difficili da comprendere (o forse fin troppo comprensibili e per questo ancora più inaccettabili)

Il secondo punto esula in parte dai personalismi che mi/ci legano a Massimo e vuole andare a toccare come anche altri in questo forum hanno ribadito, la ragione per cui noi ci stiamo muovendo.

Non ci stiamo muovendo per Massimo, o meglio non solo per lui, la sua carriera incredibile, le sue sensibilità, la sua voglia di fare, di creare, di innovare non verranno certo fermate da una decisione del genere e continueranno anche dopo la pensione.

Qui il problema è un altro: l’AC è stata eliminata dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza, una delle discipline fondanti del primo anno di corso. Mi sembra l’ennesimo passo verso la costituzione di una Facoltà che si sta chiudendo sempre più verso se stessa, che si sta autofagocitando in un preciso periodo storico in cui le forti spinte diasporiche verso “l’altro” ci portano non a chiuderci e raggomitolarci dentro noi stessi a mò di riccio, bensì a sconfinare, ad abbattere quelle mura che sempre più un certo modo obsoleto eppure tremendamente attuale di concepire l’alterità tende a fare. Sono le istituzioni accademiche, i centri di potere (politici e religiosi), i giornali che restano chiusi in queste prospettive che soffocano la infinite possibilità che le contaminazioni culturali ci offrono.

Una Facoltà quella di Comunicazione, che è sempre più appiattita nella logica perversa e statica degli esami a crocette, delle varie “Teorie e Tecniche…” che sono solo riproduzione del Sapere e mai moltiplicazione e innovazione dei saperi, un appiattimento che fa ancora più rabbia proprio perché si tratta di un corso di laurea che invece dovrebbe essere sempre in movimento, aperto alle creatività di tutti, alla transdisciplinarietà degli studi, alla polifonia di voci che caratterizza lo studio e la creazione di comunicazione, perchè non la si dovrebbe solo studiare, ma creare, modellare e poi ricreare ancora per metterla in crisi e farla vivere.

Inorridisco nel pensare che questa Facoltà negli anni abbia sempre più assunto un taglio giornalistico tralasciando tutte le altre potenzialità dei media tranne forse la radio (c’è Radio Sapienza pensate un po’!): cinema (una volta c’erano Brancato e Abruzzese, da allora il nulla eccezion fatta per Massimo), tv, pubblicità, fotografia, musica, la rete, i miei cari videoclip musicali su cui ho fatto la tesi...ora cosa c’è? Cosa si sentono ripetere gli studenti di comunicazione quando dicono che studiano Scienze della Comunicazione? “Ah! Vuoi fare il giornalista!”. Perchè in Italia l’andazzo è questo ed è qualcosa di inaccettabile e di pericoloso.

Ho scritto davvero troppo ma avevo tante cose dentro e tante altre non sono riuscito a dirle, mi rendo perfettamente conto di essere un sognatore, un romantico (croce e delizia del mio carattere strano) ma voglio sperare che domani mattina al mio stanco risveglio, tutto possa essere più sereno e le preoccupazioni, le paure, le decisioni della Facoltà che ci portano qui a discutere in modo appassionante ed appassionato, possano apparire come i resti di un brutto e tormentato sogno.

Vi abbraccio,

Paolo Sutera

Anonimo

caro amico,
apprezzo la tua lettera e le preoccupazioni in essa contenute........... preoccupazioni di una cultura di destra precedente e foriera di quella politica. Il grigiore regna sovrano, anche nella mia facoltà, ed il dibattito assente....mentre accadono cose straordinaiamente interesasanti intorno a noi. Ciao Fulvio

federica

SPERANZA e PASSIONE.
Queste due parole concretizzano la mia esperienza con massimo e il mio vissuto con tutte le persone e le personalità che attraversano la sua cattedra.
La sua stanza è sempre troppo piccola per tutte le persone che vorrebbero starci dentro.
non parlo di professore nè di studenti,parlo di persone e di esseri di carne e sangue,che coltivano speranze di cambiamento,che hanno sdradicato radici per farne strade...ci propongono un'idea di università e di apprendimento e formazione arcaica e paurosa,che avvalli e lasci indisturbato il potere screanzato che vuole prendere le impronte digitali ai bambini rom,che lasci che l'europa imbusti tutte le diversità come extra-comunitarie...questo è il triste panorama che abbiamo davanti agli occhi,ma maxx mi ha insegnato a guardare oltre,a guardare oltre la "mentirosa" verità delle parole istituzionali e a vedere le diversità,ad amare le complessità che costellano questo mondo.
Dobbiamo stare dentro l'università,dobbiamo starci perchè sia un luogo di produzione dei saperi,e non di stupida ripetizione...dobbiamo lottare per starci dentro...ma se staremo fuori la nostra voce sarà talmente forte che passerà il muro,faremo tanto rumore che non potranno ignorarci.
noi e la nostra critica consapevole e apassionata non moriremo mai,non staremo mai fuori,staremo sempre dentro...saremo ulcera di questo vecchiume e di questa pigrizia che è già morta....e noi siamo vivi e pericolosi!

Fresh

Mi guardo dentro.
Prendo il cuore in mano.
Mi sento triste.
Silenzio ed incredulità.
Lutto.
Mio tuo nostro e di coloro che non sanno neanche cosa sia l' Antropologia.

Di chi non ha capito CHI COSA e COME abbia fatto la differenza.
Di chi crede che l' Università sia un indirizzo, un civico, mura aule e banchi.

Non ci siamo. Non ci siamo proprio.

Confrontarsi in un forum virtuale lenisce il mio dolore.
Rassegnazione. Scuro. Vedo buio.
Vedo nero per il figlio che avrei desiderio di accogliere. Per il futuro incerto.
Il mio ed il tuo. Il suo.
Qui.
Ora.
Non "quando ero giovane" o "quando sarò grande".
Ora.
Mi sento in difficoltà.

Forse neanche una risata riuscirà a seppellirli.

Non c'è più niente da ridere.

E' nei momenti di difficoltà che desidero dare il meglio.

Respiro.
Mi guardo intorno.
Non sono solo.

vi abbraccio,

Lorenzo the Freshguy

giab

che puzza

chi ha usato le aule abbia il buon gusto di aprire almeno le finestre quando se ne va

qui c è sempre più puzza


Gianluca Baccanico

Unknown

Caro Maxx,

Questa notizia mi fa cadere dalle nuvole, non avrei mai pensato alla possibilità di una SdC senza Antropologia.

Per avermi insegnato che la comunicazione di massa ha roots/raízes molto più antiche del nostro monismo
gutenberghiano.

Per avermi insegnato ad osservare l'altro ed osservarci nell'altro senza il rassicurante succhiotto dei libretti di tassonomie.

Per i concetti più radicali, che sono sempre anche quelli più illuminanti. Farsi altro in termini di materia/volto/genere. Cannibalizzare i simbolismi, toglierci il panama da turista e capire che il "campo" è ovunque si generino nuovi simboli, nuovi pensieri. E che i "selvaggi" spesso e volentieri, siamo noi.

Ma al momento, forse, gli ordini dall'alto richiedono meno introspezione, meno critica sociale e più fiction(s) sulle guardie.

Guardo indietro, tirato avanti dall'inevitabile futuro, come nella metafora più suggestiva che mi hai insegnato; siamo forse stati l'incrollabile dignità dell'Igorot davanti alla violenza fotografica dell'industria culturale?

Le diaspore cominciano dagli esilii. Alla fine che cosa siamo, guardati dagli altri, se non esseri virtuali, miscuglio di altrui aspettative e sicurezze di facciata? Ho voglia di guardare al cyberspazio come nuovo campo di incontro di identità, come una finale non-patria...

Vade ultra. Long live the new flesh.

Joseph Toaff (Tesla)

Unknown

Sono venuta a Roma dieci anni fa perché volevo diventare un’antropologa. Ho scelto di farlo a Sociologia prima e poi a Scienze della Comunicazione e non a Lettere perché l’antropologia che, senza conoscere ancora, cercavo era totalmente inserita nel nesso metropoli-globalizzazione-postcolonialismo-comunicazione. Volevo la ricerca sul campo, ma sperimentale, volevo studiare gli autori del passato, ma reinserendoli nella contemporaneità, mi interessava il mutamento sociale più che la tradizione, la complessità più che le teorie generali…Il primo giorno ho incontrato il Prof. Canevacci e mi sono sentita al tempo stesso nel posto giusto come mai prima e totalmente proiettata in uno spazio Altro, smossa, messa in discussione, bisognosa di guardarmi da altri punti di vista.

Avendo imparato a farlo non mi riesce poi così difficile capire perché si sopprima antropologia culturale a scienze della comunicazione, ma dal momento che il relativismo che ho scelto è la cosa più distante possibile dalla neutralità etica e politica mi risulta semplicemente inaccettabile.

Al di là della mia esperienza personale, ma anzi proprio a partire da essa, sono convinta dell’importanza dell’antropologa culturale nella facoltà di Scienze della Comunicazione. Mi sono da poco dottorata (avendo il prof. Canevacci come tutor) presso il Dipartimento di Sociologia e Comunicazione, un dottorato senza borsa di studio, che nella sua assurdità mi ha dato l’opportunità/mi ha costretto a lavorare. Negli ultimi sei anni ho lavorato sempre nel mondo della ricerca privata (oltre che con la cattedra), sempre in progetti europei e l’antropologia è stata fondamentale ogni giorno. La ricerca europea si sta sempre più focalizzando sull’interdisciplinarietà, che non significa accostare saperi diversi, ma riconoscere che i nuovi oggetti di studio si fanno “leggibili” solo attraverso lo sconfinamento disciplinare. Per lavorare sull’innovazione, le nuove tecnologie, la governance territoriale, le politiche di empowerment, la rappresentazione delle diversità, etc etc…un’antropologia immersa nella comunicazione, nella metropoli, che parta dai corpi, che sia micrologica, critica e posizionata è e sarà sempre più importante.

Le imprese e l’Europa lo sanno. Gli studenti lo sanno e lo capiscono, lo dimostrano partecipando alle iniziative di cattedra, iscrivendosi numerosi ai seminari in cui si mettono alla prova nella ricerca sul campo, nelle tesi di laurea che fanno, sempre di alto livello. E la facoltà?
Chiedo un confronto aperto, che vada al di là dell’emergenza e dei personalismi, che parta dalla consapevolezza che l’Università non è né un’azienda né un organo amministrativo-burocratico ma che ha, e deve rivendicare, protagonismo intellettuale e politico. Chi ha scritto prima di me l’ha detto molto bene, mai come ora la comunicazione ha delle responsabilità evidenti nell’approccio etnocentrico e provinciale che il paese ha assunto.

Termino questa lunga lettera con un grazie agli studenti per avermi dato la possibilità di imparare dalle loro passioni e per avermi messo alla prova coinvolgendomi ogni volta in progetti teoricamente e metodologicamente innovativi. Un grazie ai collaboratori che negli anni hanno incrociato i loro percorsi con i miei e al gruppo di ricerca attuale: fonte di confronto e crescita costante.
Un grazie a Maxx per avermi capita senza chiudermi in gabbie.

Antonella Passani

Anonimo

Confesso di trovarmi assai spesso spiazzato rispetto ai tanti discorsi che ruotano intorno all’università e ai suoi molti, palesi problemi – vivo ancorato principalmente nell’industry delle tlc, dove peraltro, come è risaputo, si patiscono altri tipi di sconvolgimenti e altre tempistiche di reazione. Siccome però mi capita di tanto in tanto di avere attive delle collaborazioni che provano a collegare le ricerche sviluppate nell’ambito degli studi sulla comunicazione agli sviluppi di qualche fenomeno mediale, questa volta mi sento di intervenire in qualità di “pontiere”.
Io credo che il tema posto dal prof. Canevacci colga un aspetto serio e che la fortuita coincidenza del suo imminente abbandono della didattica abbia forse influito solo sulla forma della denuncia. Vorrei perciò soffermarmi sul cuore del problema è cioè l’organizzazione dell’offerta formativa che, se riguarda tutto il mondo universitario di fronte all’incedere veloce dei cambiamenti sociali, per una facoltà come quella di Scienze della Comunicazione pare essere un segno costante per essere oggetto di una continua critica circa la sua difficoltà di inserire le persone “operativamente” nel mondo del lavoro rispetto agli ambiti più tecnici, scontando nel frattempo sia la crisi dell’industria culturale tradizionale che la debolezza delle nuove economie legate ai media digitali.
Veramente il tema è così complesso e trasversale che qualunque commento, ancora di più se limitato a un post, non può che rivelarsi un esercizio di superficiale riduzionismo.

Lo sfogo del prof. Canevacci ha tuttavia il merito di evidenziare - in un re-mix di competenze come quello descritto - un vero e proprio paradosso. Nel momento in cui si vive nel campo sociale, culturale "e" mediale uno sconvolgimento che mette in crisi profondamente, e con effetti inediti e disorientanti, conoscenze, comportamenti, azioni, strutture/piattaforme operative, incidendo inevitabilmente ed evidentemente sulla sostenibilità degli stessi modelli di business delle aziende di tlc/media, ogni ridimensionamento delle riflessioni antropologiche dovrebbe essere una scelta attentamente valutata. Si possono avere opinioni e soluzioni diverse su come adeguare le strumentazioni alla capacità di leggere e incidere sul presente e, ancora meglio, sull’immediato futuro. Ma di fronte alle sollecitazioni, da parte della società e degli stessi operatori di mercato, di una maggiore comprensione delle attuali dinamiche socio-culturali e dei suoi esiti in ambienti dominati da sistemi info-comunicativi ubiqui, ritorna utile e ineludibile quanto ci ricorda John Durham Peters, che ci rende sensibili soprattutto verso la ricerca di senso delle “onde lunghe”. Pensando ai processi, alle teorie, alle innovazioni e alle pratiche della comunicazione nel tempo, ed evidenziando tanto le sue “illusioni” quanto la reale estensibilità e contaminazione fisica, sociale, politica e culturale che rende possibili per l’essere umano, egli si trova ad affermare che “non è il fantasma nella macchina ma il corpo nel medium il dilemma centrale delle comunicazioni moderne”. Se la sua osservazione - come credo - è vera, non c’è dubbio che per capire la nostra nuova condizione di vita, “oltre” che gli artefatti dell’Information & Communication Technology, si debba passare inevitabilmente attraverso la lente antropologica, che non a caso è esaltata da tutti i termini presenti nella riflessione.
Ma forse, se interpreto bene gli altri commenti, questa sensibilità è ormai patrimonio di tutti gli studiosi del settore, mentre il problema è un'avvisaglia del crescente avvitamento tra la scarsa gittata dei nostri scenari Paese, l'implosione delle sue infrastrutture e l'evidente difficoltà di poter giocare nell’ICT un ruolo che non sia tattico, e dunque in grado di rispondere solo a un “corto” orizzonte.

Luciano Petullà

in origine su NIM

Carla Cintolo

Prof. Canevacci
Raccontare cosa è stata l'antropologia culturale per me e per molti quest'anno, vorrebbe dire provare un'infinità di emozioni tutte insieme!

Per me le sue lezioni sono state indimenticabili... hanno preso vita, mi ha hanno attraversata e si sono incorporate in me! Mi hanno davvero aperto gli occhi...le migliaia di occhi disperse nel nostro corpo! Mi hanno fatto capire che la maggiorparte delle volte che ci illudiamo di averli aperti sul mondo, semplicemente guardiamo( e non osserviamo) attraverso quella preconfezionata lente colonialista! ( noi__loro)

Le sue parole mi hanno fatto capire la bellezza e l'intensità di uno sguardo aldilà, di mettere in discussione ogni nozione data per certa e anche di mettermi in discussione; la bellezza di un mondo osservato da sempre nuove prospettive, di un mondo interconnesso; l'importanza di essere sempre alla ricerca, di tendere sempre i sensi( che come lei disse: i sensi non sono 5 ma infiniti), di mixarli:

le sue parole mi hanno donato una visione kaleidoscopica nel mondo: un mondo in cui ognuno decide di raccontarsi( termine che peraltro mi è valso qualche voto in meno in un esame perchè all'assistente non era piaciuto :-)), ci si auto ed eterorappresenta, in cui ogni singola fibra del tessuto urbano è una storia in continua evoluzione attraversata da intensi flussi comunicazionali in cui scorrono immagini, emozioni, suoni, significati che si innestano e si risignificano e sta a noi percepirli, coglierli, penetrarli e a nostra volta risignificarli.

L'antropologia culturale...un'esperienza che ti seduce e poi va via, lasciandoti cambiata...metamorfizzata!

Per me l'antropologia quest'anno è stata come linfa vitale, come una rinascita, e credo anche per molti! Ancora ora mi chiedo che cosa sarebbe successo nella mia vita senza! Forse sarei rimasta nel "fosso", con dentro un vuoto incolmabile per non riuscire a trovare quelle parole che mi avrebbero aperto la strada a nuove e infinite scoperte, emozioni, realtà; a crogiolarmi tra i libri in attesa di riuscire ad ascoltare o leggere parole libere, un sapere libero; sarei ancora a cercare una spiegazione logica e a tentare di riunire goffamente e inutilmente i frammenti di un'anima che altro non vuole che essere una prolissità di se stessa! Non voglio dilungarmi oltre...ci sarebbero un'infinità di cose da dire...

Dalle mie parole può ben capire che reazione abbia avuto leggendo il titolo: “la fine dell'antropologia culturale”, mi stavo sentendo male, non esagero!

Come si può pensare di sopprimere questa materia, per chi si iscriva a scienze della comunicazione, che è fondamentale in una facoltà del genere?!?!

Questa decisione ha un alone che puzza di bigottismo e regressione...

L'antropologia culturale è basica nel percorso di un comunicatore, giornalista, artista, comunicatore d'emozioni o qualsivoglia, che sia poroso nei confronti della vita e del mondo!

Io non mi scoraggio, non voglio stare a guardare un futuro che al posto di innovarsi regredisce spero si possa far qualcosa...qualunque cosa! E perchè no...perchè non performare una bella manifestazione...magari nel cortile della sede centrale...affollata da tutti coloro che credono nel libero pensiero, da tutti coloro che amano l'antropologia culturale, da tutti coloro che non vogliono avere una visione monocolore del mondo, da tutti quelli che credono che comunicare ci rende vivi!

Io mi terrò aggiornata sulla situazione e sperò di saperne di più da parte sua o di chiunque altro...e magari se si riesce ad organizzare qualcosa ancora meglio!

Prof...le devo molto...davvero...non immagina quanto...




----Sempre più stupita----
Carla Cintolo

Anonimo

Caro Massimo,

credo che la situazione sia fortemente dinamica. Una struttura ottocentesca, con radici solo apparenti nel medioevo, come l'università italiana fa finta di cambiare modificando il titolo della materia in modo che corrisponda maggiormente ai titoli dei giornali.
I mezzi di comunicazione ottocenteschi difendono se stessi proponendosi come strumenti di analisi della contemporanea rivoluzione dei media, l'unico modo per sopravvivere qualche anno ancora, spalleggiando qualunque fenomeno di conservazione.
Credo in parte tutto ciò sia italiano ma in parte sia occidentale e di conseguenza sia trasversalmente globale: i governi del mondo regnano secondo le regole esportate nell'800.
Pochi giorni fa vedevo in televisione (italia1 lucignolo) una bambina di 12 anni nuda che si dimenava eroticamente, quelle immagini, spiegava il mezzo conservativo, vengono da Internet. Nessuno arresterà mai per pedopornografia il responsabile editoriale di Italia1.
Dietro queste gerarchie rigide e impaurite (GRI) brulicano dei movimenti sempre più forti e spontanei che spostano il mondo altrove... non ho mai sentito parlare di argomenti ambientalisti come in questo periodo, a 360 gradi tanti hanno capito che gli antibiotici sono devastanti oppure che si può rinunciare al petrolio oppure che la canapa sarebbe un ottimo combustibile e materia prima universale quasi gratuita. Fino a 10 anni fa questi argomenti erano robba da iperestremisti utopisti. Le gerarchie rigide e impaurite, attraverso sondaggi e indagini di mercato, parafrsano queste tematiche e intanto cercano di imporre nuovi dogmi che non verranno mai assorbiti ... servono solo a terrorizzare: sono pronto a scommettere che non verranno mai fatte centrali nucleari in Italia, però l'obiettivo delle GRI è raggiunto: la semina del terrore è avvenuta...
Non dimenticherò mai l'immagine dell'onorevole Bianco dell'allora Partito Pololare che insieme ad altri suoi colleghi alla convention del partito ballava la Maccarena, sudato con gli occhiali storti e appannati senza neanche un arto che andasse a tempo. La giacca che ingessata nascondeva i suoi goffi e scomposti movimenti, nei suoi occhi l'ORRORE. Pochi giorni prima Clinton aveva fatto la stessa cosa in america (recitando molto più elagantemente).
Le GRI sono pronte anche a ballare la maccarena pur di non scendere del palco...
Giornali, Università, Politici stanno ballando la Maccarena e in Italia lo fanno in modo talmente scomposto che lo spettacolo è veramente disgustoso/comico.
Penso che il tuo lavoro produca delle dissonanti polifoniche maccarene: Le GRI se ne sono apparentemente appropriate e ora ballano cantando la soluzione: "Comunicazione Interculturale" (vedi Centrali Nucleari).
Io proporrei di aggiungere anche la materia Antropologia Forense: "in televisione non si parla d'altro", vedo sempre CSI e Bones su Italia1.
Su Italia1 l'antropologia misura la dimensione delle ossa ed osserva la forma del cranio. Credo che sarebbe meglio poter dare il giusto nome alle materie ma credo anche che l'orrore nello sguardo dell'on. Bianco sia foriero di ottimismo...

eehhheeehhheehhh maccarena.....


p.s. credo che l'antropologia forense televisiva sia una materia veramente interessante basta vederla con l'occhio dell'antropologo


alberto cecchi
www.etichettadiscografica.org

Anonimo

Il dibattito degli ultimi giorni, penso, deve lasciare completamente da parte il fatto che il professor Canevacci vada in pensione. Riprendo quindi le riflessioni di Giulia, Riccardo e Marielena, per concentrarmi sul problema che ci riguarda tutti, in quanto membri a vario titolo della stessa comunità universitaria: la chiusura della cattedra di Antropologia Culturale. Questa scelta, che spero non sia definitiva, comporta dei rischi severi per una Facoltà che come poche ha la responsabilità di promuovere l’adeguata comprensione e la reale interlocuzione con l’altro. La chiusura della cattedra implica l’inaridimento dell’Università, che con questa decisione sottrae a studenti, dottorandi e ricercatori, un vivissimo scenario di produzione intellettuale. I seminari fatti, le esperienze etnografiche degli studenti in Brasile e in Giappone, le tesi brillanti di alcuni studenti, non possono e non devono diventare semplici ricordi, cose che si facevano una volta e ora non si fanno più. La cattedra di Antropologia Culturale deve continuare a esistere, non perché quella sia l’unica disciplina che ci avvicina a una comprensione meno etnocentrica delle azioni sociali, non perché sia una specie di bacchetta magica che aiuta ad aprire le nostre menti, ma perché, insieme ad un’offerta didattica multidisciplinare, l’antropologia culturale è fondamentale nella formazione degli studenti di Scienze della Comunicazione. Gli studenti devono avere la possibilità di accedere al pensiero antropologico contemporaneo, devono avere la possibilità di partecipare alle attività di una cattedra che li incoraggia alla sperimentazione e all’esperienza diretta sul campo. Sarebbe utile cogliere l’occasione per articolare un piano di studi ampio, tale da permettere agli studenti di formarsi in una maniera critica e transdisciplinare, secondo le finalità intrinseche di quell’istituzione che si chiama Università. In questo ideale piano di studi, ovviamente, l’antropologia culturale dovrà essere presente, sempre che si vogliano formare dei professionisti in grado di mettersi in gioco, di dubitare delle proprie certezze e di relativizzare le proprie forme di vita. Per concludere, vorrei cogliere il suggerimento della professoressa Gravano e invitare a partecipare al dibattito soprattutto coloro che approvano la chiusura della cattedra perché, riprendendo le sue parole, “la cattedra non è del professor Canevacci”, ma è uno scenario privilegiato di esercizio critico e d’interlocuzione che la Facoltà non può perdere. E questo, lo scrivo in maniera del tutto indipendente dal rapporto di profonda amicizia, stima e rispetto intellettuale che mi lega al prof. Canevacci, la cui assenza sarà dolorosa, ma non può rientrare nell’ambito delle cose discusse su questo blog, visto che dipende da una sua decisione personale.
Ana Maria

Anonimo

carissimo Prof. Canevacci, non mi dilungo in commenti. Solo una parola: GRAZIE.
Le sue lezioni sono state le più interessanti che abbia mai fatto, non come gli altri esami che ti devi imparare i libri a memoria. La sua materia, va capita e per capirla occorre il ragionamento. Fino ad ora, per me, il suo è stato l'unico esame che ho studiato volentieri; e non lo dico per fare il "ruffiano" (ho preso 26 all'esame), ma perchè mi ha permesso di usare il cervello quando esponevo i miei concetti.

Unknown

…a prescindere dalla pensione di Massimo e da tutte le attività che lui sta svolgendo insieme agli studenti e collaboratori di cattedra ( tra seminari didattici, viaggi di studio, creazione di una rivista on line, ecc…)

… a prescindere dai profondi cambiamenti che il corso di antropologia culturale di Massimo ha creato in diversi studenti che lo hanno già ringraziato anche in questa sede (e devo ringraziarlo anche io, visto che la sua maniera di pensare e insegnare mi ha fortemente segnato… )

… a prescindere dagli approcci plurali e transdisciplinari che lui ci ha insegnato a impiegare per leggere la contemporaneità…

….sottolineo solamente la conseguenza più triste e pericolosa dell’abolizione dell’antropologia culturale dal curriculum di studi a scienze della comunicazione: la media xenofoba italiana continuerà a riprodurre stereotipi razzisti, a criminalizzare gli stranieri e a riprodurre una chiusura mentale che è spesso notizia nei giornali stranieri.

Anche se vogliamo rimanere nei principi più basici dell’antropologia, il relativismo e i riposizionamenti dello sguardo, la perdita è già grave. Se pure andiamo “nell’oltre indisciplinato” che questa cattedra ha sempre cercato di esplorare la perdita è immensurabile.

Studenti di Scienze della Comunicazione, UNITEVI e fate sentire le vostre voci, spero sinceramente che la vostra lotta vi permetta di ri-avere questo esame nel vostro curriculum di studi, e che quindi voi abbiate le stesse possibilità di conoscenza sperimentali, innovative e transdisciplinari che ho avuto io. Mi considero molto fortunata di aver frequentato corsi e seminari di questa cattedra, e spero che voi studenti che rimangono abbiate almeno la possibilità di SCEGLIERE se escludere o meno l’antropologia dal VOSTRO curriculum di studi.

Anonimo

Benchè la mia formazione e posizione intellettuale sia decisamente favorevole ad una maggiore valorizzazione di materie fondamentali per lo studio della comunicazione quali storia e diritto, trovo la decisione delle alte sfere ottusa e preoccupante.

Ottusa in quanto monocraticamente ( o pseudo collegialmente ) si decide di abolire un pilastro del sapere umanistico, preoccupante invece, e molto più drammaticamente poichè in tal modo non si fa altro che annullare la diversità di opinioni ( e di visioni ) venendo meno ad uno dei principi democratici fondamentali, militarizzando un' accademia sempre più grigia ed asfisiante.

La mia vocazione giornalistica , motivo per il quale ho scelto sdc, rende ( per quanto riguarda la mia persona ) lo studio di materie di impostazione "classico-sociologico-giornalistica" sicuramente più piacevole e finalizzato rispetto ad una materia come quella del Prof.Canevacci ; ma la stessa ( la vocazione di cui sopra ) mi induce a riconoscere nel dialogo la vera forza del percorso universitario e nel confronto con il pensiero degli altri lo stimolo fondamentale per una reale crescita intellettuale.

Propongo una lettera aperta al preside ed al consiglio di facoltà.

Portiamo avanti il dialogo, ora.

Anonimo

Gentile Professor Canevacci,

Voglio innanzitutto dirle che condivido pienamente il contenuto della lettera riportata sulla sua webcattedra ed aggiungo che secondo me l'antropologia culturale resta una delle colonne portanti della formazione di un "comunicatore" (che non sia necessariamente un portavoce mediatico). L'ammiro anche perchè la sua protesta è stata mossa esclusivamente dall'amore per l'insegnamento (dato che a Lei non tornerà nulla in tasca, già che ha deciso di concludere il suo viaggio nel mondo universitario); ho visto la sua presa di posizione come un tentativo di tutelare noi studenti, di volerci assicurare gli strumenti, attraverso appunto l'antropologia culturale, per poter essere in grado, un domani, di volgere lo sguardo "altrove", al di là del muro culturale (o industria culturale, che dir si voglia) che sta pericolosamente prendendo consistenza, a mio personale avviso a livello mondiale, ma in particolar modo in Italia.

Solo una cosa non ho capito: perchè ad un certo punto Lei ha parlato di "crisi apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione", la cosa mi ha un po' turbato....Spero che troverà il tempo di rispondermi.

Le rinnovo la mia stima personale e la mia totale condivisione a livello ideologico in merito alla questione.

Distinti saluti.
Luigi Mancini.

Anonimo

Caro Massimo come stai?

ho letto la tua bellissima lettera sul sito della Meltemi.. me l'ha girata Giuseppe Ganino, siamo qui entrambi a Londra
e che dire? mi è dispiaciuto moltissimo, non tanto x me che ho avuto la bellissima possibilità di seguire le tue lezioni e farmi cambiare le percezione visive e culturali su molte cose... ma x tutti quelli che non avranno la possibilità di studiare questa che non è solo una materia ma un modo di approcciare le cose, le persone, il mondo e questo significa l'eliminazione di una parte poetica dell'anima..che è questo poi che tiene in vita tutti.

ti mando tanti saluti e abbracci e spero di vederti presto a Rm

ciao buona domenica

chiara cola

Anonimo

meditazioni della vita difesa.
sconcertante se lo e' ancora tanto dover difendere, dover contrapporsi, dopo un momento in cui era sembrato a tutti noi di andare dentro l'oltre... a me insieme e grazie a Massimo, a Luisa (mia e non mia oltrepassanza, TANGENS, TACTA, TANGIBILIS, TRANSFIGURATA, TRANSFORMATA), ad Alberto (aa, sconoscenza rinnovata, confidenza ironica e disperata, benjamin sorrisato),a FLAVIO de Giovanni (chiave allegra della comprensione dei miei pensieri che non si pensano), di poter, anzi di dover oltrepassare e -arsi. il lusso di tramontare. massimo non e' pensionabile, neanche da se stesso, figuriamoci. ma dirsi e farsi contro questa volgarissima riduzione della complessita' inconsapevole e televisiva e' la scelta giusta al tempo. la tua lettera, come ti ho scritto, mi ha
colpita ma non affondata, anzi ri-emersa in cio' che a me sta ancora e sempre piu' a "cuore",
dopo averne verificato la verita' spinata, lancinante ma mai
schiacciante anche nel mondo del lavoro, colpito forse ancora da divisione ma da certo ancora di piu' da uniforme accontentezza. la speranza e' dalla parte di tutti gli studenti che ti sono stati e ti sono accanto e quindi quell'oltre lo contengono ed esprimono.
quindi colpita ma non
affondata, tuttAltro.
daniela

Anonimo

Caro Massimo,

ricordo una frase di Oliviero Toscani: "Sarebbe interessante poter leggere il giornale di domani; quello che è uscito oggi è già vecchio."

Che sfida cruciale per un corso di Scienze della comunicazione: progettare il giornale di domani, in un momento in cui le dinamiche produttive, tecnologiche e sociali dei media stanno profondamente cambiando.

E quale contributo potrebbe dare l'Antropologia Culturale, e in particolare il taglio visuale, performativo e emozionale del tuo corso!

In questi anni ho avuto la fortuna di lavorare con tante Università e Istituti di ricerca, dal Media Lab di Boston ai laboratori Xerox di Nuova Delhi. I racconti delle nostre performance Opera Malinowski e Corpo forato, dei nostri seminari sperimentali, delle attività didattiche sono sempre stati accolti con un senso di stupore, e con la stessa meraviglia di noi studenti che vi partecipavamo.

Una interessante frontiera della didattica è il concetto di mathetics, sviluppato da Seymour Papert, uno dei fondatori del Media Lab / MIT:

“Why is there no word in Engish for the art or learning? Webster says that the word pedagogy means the art of teaching. What is missing is the parallel word for learning.” “I would use the noun mathetics for a course on the art of learning.”

Credo che gli strumenti metodologici, l'approccio scientifico e la didattica sperimentale proposti dal tuo corso di Antropologia Culturale possano essere considerati un manifesto all'arte di apprendere. Un'arte che sarà sempre più necessaria, soprattutto per noi professionisti della comunicazione, che dovremmo essere in grado di anticipare, cogliere e cavalcare le opportunità che nascono nel mondo magmatico e in continuo cambiamento dei media. Gli scenari di incertezza, di dubbio, di smarrimento che nascono negli incontri etnografici sono una palestra ottima per mettere in discussione le proprie abitudini e le visioni convenzionali e per progettare alternative possibili e prospettive innovative. L'antropologia culturale può essere intesa come una delle arts of mathetics, in grado di insegnare l'arte di imparare, coinvolgendo l'intera dimensione esperienziale dello studente, tra cui il canale emozionale, che ha un ruolo di primaria importanza nei processi neurofisiologici e cognitivi, e che invece è relegato a un ruolo marginale all'interno dei percorsi formativi universitari italiani.

Chissà se questa ristrutturazione del corso di Scienze della comunicazione riuscirà ancora a formare gli studenti, a dotarli della capacità di "imparare come imparare", a instillare in loro il senso di stupore e curiosità che sono alla base della ricerca scientifica e della sperimentazione continua? Saranno in grado i nostri studenti di progettare i media del futuro? Riuscirà il corso di laurea in Scienze della comunicazione ad aprire la strada a scenari di innovazione e creatività o verranno riproposte le logiche stanche, burocratiche e ministeriali così diffuse nell'università italiana?

Un abbraccio

Luca Simeone

liquidborder

Salve prof, grazie per avermi aiutato ad avere molteplici visioni del mondo. per avermi insegnato a moltiplicare i miei sensi e ad assumere quegli sguardi obliqui che tanto aiutano ad ottenere la profondità di pensiero, grazie per avermi dato la voglia e la forza di continuare.GRAZIE!

Anonimo

Università come luogo di produzione del sapere, non come luogo di riproduzione del sapere.

Ricordo ancora lo spiazzante stupore nel capire che qualcuno stava affidando a noi studenti - giovani e anche un po' spaesati - il ruolo di protagonisti di quel luogo chiamato università. Con le nostre capacità, intuizioni, critiche, dubbi e volontà. In modi multiformi e plurali. Mettendo in discussione le nostre certezze e aprendo i nostri recinti. Guardando oltre i nostri occhi, cercando il familiare nell'esotico e lasciandoci sconvolgere dal quotidiano.

Qualcuno ci aveva detto che potevamo essere noi a produrre il sapere.

grazie massimo!

Anonimo

Qualche giorno fa discutevo con un amico circa la discutibilità di alcune attualmente classificate come studi di base che a nostro giudizio andavano ricollocate in altri ambiti (materie a scelta ad es.) bene, in quella discussione non abbiamo MAI parlato di Antropologia Culturale.
Scelta assolutamente da condannare, non per fare benaltrismo poi... ma sinceramente i problemi della nostra facoltà sono altri.
Più che pensare ad antropologia culturale si o no sarebbe infatti opportuno guardare a come si insegnano le discipline, penso che il prof. Canevacci sia tra gli esempi migliori da questo punto di vista.

Anonimo

LA CONOSCENZA È UN DIRITTO
Non è necessario spendere altre parole per riconoscere l'evidenza che la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma ha soppresso l'Antropologia Culturale dai suoi corsi di studio.
Voglio esprimere la mia totale disapprovazione, poiché questo impedirà un prezioso accesso alla conoscenza per gli studenti italiani. Il resto, secondo me, è secondario.
Sono un'artista Brasiliana-Canadese, vivo a Roma e sono sposata con Massimo Canevacci.
Il Brasile, dopo 21 anni di dittatura (anni in cui l'insegnamento della Storia e della Letteratura era stato sostituito dall'"Educazione Civica e Morale"), ora coltiva la propria felicità con la cosa più importante che si possa desiderare: la speranza.
Cosa sta succedendo in Italia? La mentalità Alemanno/Berlusconiana produce l'equivalenza che porta a eliminare l'Antropologia Culturale? Può esserci un diritto alla speranza anche qui? O forse bisogna diventare Cristiani, dato che sembra di vivere in un inferno?
Che Massimo vada o meno in pensione è un fatto strettamente personale: il suo lavoro e il suo meraviglioso talento come scienziato, scrittore e docente non possono essere rinchiusi in un'istituzione. Lui e io siamo felici, siamo innamorati e lavoriamo bene in tutto il mondo. Ma la questione rimane: e l'Antropologia Culturale in Italia?
Penso che gli italiani abbiano il diritto di non ripetere termini imbarazzanti come "extra-comunitario" e a una migliore comprensione di ognuno e del suo contesto. Per questo chiedo la reintroduzione dell'Antropologia Culturale nella Facoltà di Scienze della Comunicazione: come diritto intellettuale degli studenti Italiani (e non solo).

KNOWLEDGE IS A RIGHT
Too many words are said for a very evident thing: la Facoltà di Scienze della Comunicazione de La Sapienza di Roma ERRASED Cultural Anthropology from its curriculum.
That's it.
I come here to express that I am totally against it.
The main reason being that this act takes away from ITALIAN STUDENTS THE ACCESS TO KNOWLEDGE.
The other issues, in my opinion, are secondary.
I am a Brazilian-Canadian artist living in Rome and married to Massimo Canevacci.
After 21 years of dictatorship in Brazil (in which History and Literature were substitute in school by "moral and civic education"), now Brazil raises up happiness with the most important thing one can have: HOPE.
What is going on in Italy??? Is the equation this one: The Berlusconi/Alemanno's mind frame = no Cultural Anthropology? Are you having the right to hope here? One can almost becomes Christian as this feels like a true hell.
Massimo's probably retreat or no-retreat is strictly personal. His work and marvelous talent as scientist, writer and teacher is not resumed to one institution and this is yet very well known. We are fine, in love and working well around the Earth. What about Cultural Anthropology in Italy?
For the Italian right of not reproduce embarrassing terms such as "extra-comunitario" and for the right of a better understanding of one's own context, I express my asking back Anthropology in the University. This is an intellectual right for the Italians (and not only) students.
Sheila Ribeiro

Anonimo

Non vedo la tristezza nel vedere eliminata antropologia dal corso di scienze della comunicazione... Se vi interessa la materia, non per forza c'è bisogno di un prof che ve la spiega... esistono i libri.
Per di più la lettera del caro prof. Canevacci (premetto di non aver avuto la fortuna di assistere alle sue lezioni, bensì a quelle di antropologia di un altro prof di un'altra facoltà), mi è parsa colma di quell'ideologia comunista-laicista che ormai la fa da padrona nell'università La Sapienza.
Cara Sig.ra Ribeiro per cortesia lasci perdere le sue discutibili osservazioni sulla faccenda "alemanno-berlusconiana".. altro che libertà.. la solita imposizione di sinistra! Se la società ha veramente bisogno dell'antropologia... i centri sociali sono stracolmi di ragazzi svogliati, sbandati che aspettano di ricevere cotanta cultura! Sono un sicuro investimento per il futuro! Magari tra una canna e l'altra riescono a seguire suo marito nelle sue decantazioni...

Anonimo

To Andrea:
Si no vede la tristezza, no la vede.
Questo è già tutto.

whatever!

Anonimo

Altrettanto personalmente credo che non sia minimamente accettabile quello che propone il sig. Andrea, vale a dire sostituire l'insegnamento di una materia con lo studio amatoriale dei libri.

Questo al di là del caso specifico dell'Antropologia, e di quello ancora più specifico relativo al prof. Canevacci.

Per il resto spero che sia ignorata la sua riflessione sui centri sociali e quant'altro. Non la trovo pertinente con l'argomento in questione.

Unknown

Smarrita... SMARRITA... nell'immensa TRISTEZZA... nell' essere costretta a pormi le questioni... cosa accade? dove andiamo?
Volando ancora mentre il cielo oscura e trovare voi... Massimo, Sheila, e tutti VOI... come elementi su cui con leggerezza rassicurarmi...

...

Anonimo

Al Preside

Ai Presidenti dei Corsi di Laurea

All'osservatorio permanente sulla didattica

Ai docenti







Su cosa si sta fondando il "revisionismo" curriculare? Sulle richieste di una politica altalenante? Mi spaventa l'immagine di una università stravolta con alle spalle la forza dei suoi anni, impaurita di non farcela contro le mode le anticipa. Scegliere di ribattezzare le discipline pensando che la conversione dei docenti sia consequenziale, come "eius religio", crea le condizioni per aspettarsi una istituzione debole con docenti sempre meno sicuri di sè e dei loro saperi, approssimativi, improbabili punti di riferimento per dei giovani che di precarietà già ne vedono troppa intorno a loro per accettare investa anche la cultura. Con il caso dell'Antropologia culturale siamo dinanzi all'esempio di un abbattimento o solo di un professore abbattuto?

Come rappresentante degli studenti nel cdf di Scienze della Comunicazione devo prendere posizione; in nessuna delle due condizioni gli studenti potranno giovare del cambiamento. Il caso di Massimo Canevacci è di un docente perdutamente innamorato del suo insegnamento, potrà solo perderci una didattica che gli impone un taglio…diverso. Abbiamo risentito col tre più due di una coriandolizzazione di denominazioni che dal nostro punto di vista significa chiamare con meno convenzionalità quanto un docente continuerà a spiegare sulla base del suo identico stile e numero di conoscenze; tanto vale non sottrarre a noi l'ancoraggio classico.

Avete pensato a quanto condizioni l'ethos doversi firmare ad un tratto con delle originali fantasiose scienze? E il rapporto con gli studenti: un docente chiamato ad esercitare una mission che non ha scelto sarà più cordiale, disponibile, sensibile, presente, competente, utile?

Dobbiamo credere nelle "materie fondamentali" di una volta ma renderle tutte "complementari" nella scelta; no che impoveriamo di prestigio ogni segmento dei settori disciplinari ma imponiamo gli addendi con cui dovranno fare i conti gli studenti. Era l'università che volevamo? Credo che l'antropologia culturale ci salverà da un andazzo o sarà la sua prima vittima. Pensare per corsi di laurea anzichè per facoltà ci ha resi tutti più poveri. Ripensiamoci.



Benedetta Cosmi

Anonimo

Caro Massimo,
grazie per la lettera aperta alla facoltà, che sto facendo girare il più possibile tra i miei contatti. Ti rispondo solo ora, tornato da un ennesimo pride...
E' molto grave che chi dirige la facoltà appiattisca la nostra già precaria formazione sui flussi di un mainstream asfittico e dominante. Il ruolo dei giornalismi, per come li intendo io, dovrebbe essere quello di raccontare frammenti di esperienza, di aprirsi al dialogo con gli altri, di guardare un po' al di là dei soliti steccati. Purtroppo per la mia esperienza nel giornalismo italiano resta ben poco da guardare al di là di uno sterile copia-incolla di stereotipi strappati alla rete.
Ho visto miei colleghi laurearsi con 110 in giornalismo che non sanno scrivere. Studenti universitari che confondono presidenti del consiglio e della repubblica. Siamo abituati a macinare un numero impressionante di esami (più di 60 in 5 anni!) senza approfondire nulla. Non c'è alcuno spazio per la ricerca e l'innovazione. Non ci sono laboratori, mezzi, strutture.
Forse l'idea dell'università come fornace di laureati nasce dall'esigenza del controllo. Più siamo ignoranti, incapaci, deboli più è facile farci ingoiare i ricatti del precariato. Più siamo abituati a obbedire, a ripetere discorsi forbiti di altri più saremo incapaci di uno sguardo critico, di elaborare i nostri pensieri contro la spirale del silenzio. Ci basta avere il nostro pezzo di carta, la sigla su un biglietto da visita per essere comprati, vinti. Siamo privi di memoria e di futuro, smarriti in un limbo ma con la pancia piena grazie a chi ci mantiene.
A volte mi chiedo con orrore come sarei stato se non avessi attraversato l'esperienza liberante del c.out. Se non fossi riuscito a rompere con il muro paludoso delle mille ipocrisie dogmatiche, se non avessi trovato uno sguardo critico.
Quando arrivai a Roma, impaurito e alla ricerca di una trama da dare alla mia vita, non avrei mai immaginato quanto questa città e questa facoltà mi avrebbe liberato. Non scorderò mai la prima lezione di antropologia culturale nella penonmbra di un cinema semibuio. L'impatto prima estraniante e poi rivoluzionario che hanno avuto sulla mia vita le tue lezioni. I discorsi sulle alterità che ci abitano, la naturalità disarmante con cui tratti tutti i temi. In quel periodo non riuscivo a pensare a una vita con un uomo, neanche a una notte con un uomo. Avevo paura di aprirmi a me stesso. Poi, grazie a te, i miei tabù si sono sgretolati, uno dopo l'altro. Per la prima volta dopo 18 anni mi sono sentito vivo. Dubito che sarei mai riuscito a liberarmi senza le tue lezioni, la sociologia di Abruzzese, le religioni della Macioti. Perciò grazie di cuore.
Certo è doloroso immaginare questa facoltà senza di te, ma pensa a quante persone potrai "liberare" in Brasile. Credo che molti, come me, hanno ascoltato le tue lezioni e riflessioni. Questo bagaglio non ce lo strapperà nessuno. Continueremo a seminare i fiori del male ovunque ci sarà possibile, continueremo a lottare contro quell'UNO GRONDANTE DI GRASSO che detta dogmi e forme, posti e turni, in qualunque modo. Cercheremo di portare dove ci sarà possibile la critica alla stasi e la voglia di libertà.
L'Italia di oggi è ostaggio del colpo di coda della grossa baleniera bianca. Ma molte balene nere, rosse, incolore o colorate stanno arrivando. Le migrazioni, i contatti sempre più facili con altre realtà, dovranno prima o poi spezzare le catene di ogni schiavitù, di ogni pregiudizio.
Ti voglio solo dire di non sentirti vinto, grazie a te e alle tue conoscenze, alla tua sensibilità e al tuo rispetto, molti abbiamo imparato a metterci in transito, in discussione, alla scoperta. Grazie a te abbiamo scoperto le nostre alterità possibili e ci siamo incamminati verso la libertà.
Come diceva qualcuno a volte bisogna perdersi per ritrovarsi. Ti auguro di smarrirti nei tuoi Brasile e di ritrovarti più ricco, fertile e plurale.
Scusa la logorrea, con tanto affetto un cacciatore di stereotipi

Stefano Libero

Anonimo

Per commentare ciò che ho letto ho bisogno di rileggere ogni singola parola di questa lettera. La prima cosa che noto però è un assoluto menefreghismo intorno a determinate materie, determinati concetti che andranno perduti. Questa è l'ISTRUZIONE?

continua....

vin

caro Massimo,

ci siamo conosciuti a Pescara un anno fa, entrando in
sintonia sul pensiero intorno a David Lynch, con cui avevi concluso la
tua bella conferenza sui sensi odierni dell'antropologia culturale. Ho
appena letto sul blog Meltemi la tua appassionata denuncia delle
'epurazioni' che tanta parte hanno nella risistemazione delle
discipline universitarie e volevo associarmi al tuo sconforto culturale
e politico per questo impoverimento dell'offerta, mascherato da
intenzioni di efficacia e di snellezza che nascondono il volto della
censura di pensiero.

Mi sono trasferito a Stoccolma come lettore di
lingua italiana da alcuni mesi e ho già potuto osservare differenze
sostanziali, nell'offerta e nell'impostazione culturale
dell'università, che confermano, se ce n'era bisogno, i tuoi presagi di
prossimo disfacimento della costruzione educativa in Italia. Il mio
campo non è l'antropologia culturale, sono un comparatista che si
occupa di cinema e letteratura, ma le tue considerazioni sono
estendibili a ogni disciplina.

Grazie
Vincenzo Maggitti

Anonimo

Caro Massimo, non ci conosciamo, anche se avrei sempre voluto...sono uno studente "della vecchia guardia", uno di quelli che, forse per scarsa motivazione, forse per mancanza di stimoli, è rimasto "parcheggiato" alla Sapienza per molti, troppi anni. Il tuo corso, e il tuo nome, sono per me inscindibili dalla stessa Facoltà, quasi a diventare sinonimi...ho dovuto sostenere molti esami, e confrontarmi con professori innamorati delle loro parole, o del tutto insensibili. Raramente mi sono trovato a contatto con una persona disponibile e appassionata come te, capace di far innamorare di colpo qualsiasi studente di questa cosa meravigliosa chiamata "Antropologia Culturale". Non mi sorprende che la cecità di certe figure abbia eliminato un corso che, fra tutti, era davvero in grado di coinvolgere non solo la mente, ma anche il cuore degli studenti. Anche se ho sostenuto il suo esame tanti anni fa, una serie di eventi mi ha portato nuovamente vicino alla sua cattedra, nella posizione di assistere agli incredibili esperimenti didattici prima in Brasile, poi in Giappone. Io credo che se qualcosa mi è rimasta, della Sapienza, è l'amore che ci ha insegnato essere la base per ogni disciplina.
Un abbraccio forte ad un amico che non ho mai conosciuto.

Slash Morgan

un compagno di corso una volta mi ha detto "l'antropologia si bella, ma che mi frega troppo complicata e mi fa pensare a cose che meglio non pensare"

1+1=2

zzzzzzzzzzzzzzzz

Anonimo

Chiarissimo professore,sono perfettamente d'accordo con Lei. In Italia, purtroppo, con lucida premeditazione, si vuole scendere sempre più in basso in merito alla cultura; RENDERE I GIOVANI SEMPRE PIù IGNORANTI insegnando loro materie se non inutili perlomeno insignificanti.Come qualcuno ebbe a dire non si possono dare le perle ai porci intendendo per tali chi è preposto alle scelte didattiche della facoltà . La ringrazio per tutto quello che ha insegnato a noi tutti.

Anonimo

Caro Massimo,
la tua letterà è chiarissima e sono pienamente d'accordo con te.
L antropologia culturale è stata l'unica materia che mi ha realmente portata ad andare oltre, superare quei confini assurdi che mi ero prefissata, mi ha aiutata a farmi "occhio ", "sguardo" e "cosa che vede",a toccare la musica e sentirla parte di me, a cogliere ciò che solo uno sguardo attento può cogliere, ad attreversare e comprendere le "linee di polvere" che la vita ci pone d'avanti.
Non possono farci questo.
Tua fedelissima sostenitrice,
Simona

Anonimo

caro massimo,
la notizia mi rende triste e nervosa. sono stata una studentessa di scienze della comunicazione alla Sapienza vecchio ordinamento, mi sono laureata con te e dal primo momento in cui ho messo piede in quella facoltà non ho voluto altro. tu e l'antropologia (è difficile immaginarvi due istanze separate) mi avete consegnato gli strumenti per aprirmi all'altro e scoprirmici uguale. tradotto in termini concreti mi avete insegnato ad usare gli strumenti che la mia laurea mi consegnava nel modo migliore, cioè usarli per crescere, per essere libera. il corso di antropologia culturale così come meravigliosamente e sapientemente lo concepisci tu, peraltro, dovrebbe essere la prima materia da far studiare ad un comunicatore, perchè in qualsiasi situazione lavorativa ma anche di vita, le basi dell'antropologia si strotolano e si fanno carne e diventano concrete, sono efficacissimi ed imprescindibili strumenti di comunicazione. sostengo questo perchè l'ho sperimentato, e mi sono anche purtroppo scontrata con l'eccessiva staticità di moltissimi insegnamenti che invece sono a quanto vedo oggi imprescindibili per chi ha operato questi tristi cambiamenti: parlo di programmi chiusi e teorici, interi libri chiesti a memoria di cui non rimane nulla e per cui è stato poco utile perdere tempo. insomma, sono rammaricata che tutto questo debba accadere così, in questo modo sciatto. licenziare una materia e piazzarla così poco intelligentemente in un posto in cui perde quasi di senso, senza menzionare poi questo cambio di nome tragico... uno sfacelo per la sapienza.
spero vivamente che questa mini protesta abbia una eco

aidoru

Anonimo

Caro Massimo,
da Meltemi mi è arrivata la tua lettera e l'ho fatta girare a tutti i soci
dell'ANUAC. Qui a Genova sta per succedere la stessa cosa, anche se la
situazione è diversa non essendovi alcun docente strutturato ma solo un
contratto per un corso trasversale ai vari CdL di Scienze della Formazione.
In generale la situazione è allarmante, tenuto conto che in Italia siamo pochi e
per di più divisi, tuttavia sappi che sono disponibile, come associazione, ad
inviare una lettera al Preside della tua Facoltà e al Rettore, con
comunicazione al Ministro.
Io credo infatti che dobbiamo non agire singolarmente ma tutti uniti.
Ciao, Luisa Faldini

Anonimo

Caro professore, caro Massimo,
è con la tristezza nel cuore che ti scrivo per provare a condividere con te quello che l’esame di Antropologia culturale ha significato per me.
Ho 34 anni, lavoro da più di 14 anni, e da 3 anni ho intrapreso i miei studi di Comunicazione.
Ti ho già scritto mesi fa un’e-mail dicendoti che leggere i tuoi libri sull’esperienza con i Bororo e sul feticismo è un preziosissimo insegnamento di vita, non certo solo didattico.
Avvicinarsi all’Antropologia, alla TUA Antropologia, quella di cui parli tu attraverso gli “altri”, mi ha arricchito e donato quello sguardo che non avrei MAI potuto trovare.
Quello dell’eteronomia…
Ricordo tutto quello che hai scritto e desidero farlo leggere anche a chi non studia.
Eliminare l’Antropologia dal nostro corso di studi significa togliere una grande possibilità, togliere un’occasione unica, togliere un pezzo del tuo cuore e di quello di chi si appassiona con te.
Chi non studia la tua materia, con te ed i tuoi libri, è mutilato di una parte di sé che non scoprirà MAI.
Con immenso affetto e riconoscenza
Barbara Bussolotti

Anonimo

Salve Massimo,



Solo ora ho saputo…''la fine dell'antropologia culturale''...rimango senza parole...

Oggi è presente al ricevimento?

Vorrei passare per vederela...ppotrei essere lì per l'una e5 però ci terrei...lo scorso marte non sono sono riuscita e poi la triste notizia...

...


Sara Fabbri

Anonimo

Caro Prof.
tutta la mia solidarietà e un ringraziamento speciale per quello che lei, e pochi altri, ci avete trasmesso. Una piccola e preziosa cassetta degli attrezzi che spesso, nel mio lavoro da cronista, torna utile per evitare che il rapporto quotidiano tra mappa e territorio, tra articolo e fatto, non venga stravolto.

Enrico Cinotti

Anonimo

Caro Professore,

ho letto con sgomento la notizia della cancellazione della sua cattedra presso la Facoltà

di Scienze della Comunicazione. Sono una sua ex allieva che la ricorda con profonda stima.

Volevo soltanto esprimerle la mia solidarietà e unirmi alle numerose voci di protesta contro

un provvedimento assurdo.


Con affetto,

Sara Cortini

Anonimo

Vorrei fare solo una precisazione riguardo all'articolo uscito su "La Repubblica" di oggi 2 luglio 2008.
Nel ringraziare la giornalista Maria Elena Vincenzi, vorrei sottolineare che è stata l'Antropologia Culturale come disciplina a essere eliminata dal prossimo anno accademico e che io non sono stato mandato in pensione anticipata (come si potrebbe intendere dal titolo dell'articolo).
La decisione della Facoltà di assegnarmi - senza il mio assenso - una materia come Comunicazione Interculturale al corso di laurea "Cooperazione e sviluppo" non ha fatto altro che favorire la mia decisione autonoma di anticipare il mio pensionamento, decisione presa anche sulla base di tale per me inaccettabile "riforma" dei corsi di laurea.
Il problema fondamentale, quindi, non è tanto che io vada in pensione anticipata, quanto il fatto gravissimo (specie nella situazione politico-culturale italiana e in particolare romana) dell'eliminazione dell'Antropologia Culturale da una Facoltà come Scienze della Comunicazione, materia che dovrebbe essere ancor più centrale per chi si forma in comunicazione.
Massimo Canevacci

Anonimo

Temo che la cancellazione della cattedra di Antropologia Culturale presso Scienze della Comunicazione sia solo la punta di un iceberg.
Come molti hanno già commentato, il trend revisionista, sotto le mentite spoglie di un 'efficientismo' funzionale che si vorrebbe attribuire ad un riorientamento degli indirizzi di studio, sembra condurre di fatto all'impoverimento delle competenze del laureato, della sua base culturale applicabile al mondo del lavoro (ed al mondo tuot court), della sua qualità interpretativa al di fuori degli schemi preformati e dettati da presunte esigenze di mercato. Forse oggi non si vuole che ci si possa formare con una certa competenza interpretativa.
Anche se non La conosco personalmente, Prof. Canevacci, voglio dare la mia testimonianza come ex studente a Siena, con Squillacciotti e Clemente, e poi a Roma, con Gioia Longo. I risultati di quello studio per me sono stati sorprendenti, tali da raccoglierne i frutti anche in ambito lavorativo, perfino in un contesto apparentemente alieno quale è quello della Pubblica Amministrazione.
E mi chiedo oggi quanto manca alla 'normalizzazione' (oppure al prosciugamento delle risorse) della ricerca in tutto l'ambito demoentnoantropologico in Italia.

Anonimo

Gentile professore, rimpiango molto di essere nel canale M-Z che non mi ha permesso quest'anno di seguire il suo corso. Conosco persone che lo hanno fatto e che addirittura mi dicono che in minima parte gli ha cambiato la vita... rimpiango il fatto di non avere la possibilità di farmela cambiare anche io! ma le giuro che lo rimpiango fortemente... è uno schifo che mandino anticipatamente via lei quando c'è tanta gente inutile che rimane indiscussamente!

Anonimo

Il suo è stato il primo corso che ho seguito con costanza, il primo esame sostenuto, con successo.
Sarò inevitabilmente legata a Gregory Bateson e a David Cronenberg e alle prospettive che mi hanno aperto, in linea con la mia voglia di esplorare e conoscere nel rispetto della diversità di ciascuno.
L'altro è ciascuno di noi.. Mi sto commuovendo!
L'antropologia culturale deve restare in cattedra e nelle nostre menti per insegnarci a comprendere e guardare meramente il mondo che abitiamo, a volte senza merito.

Anonimo

Il ruolo di Massimo Canevacci nella costruzione di una visione della metropoli contemporanea avanzata ed innovativa è un dato acquisito da anni dalla cultura italiana. Il suo lavoro teorico è per più di un motivo essenziale, così come il suo insegnamento. Chi scrive si augura che ciò che è comparso sulla stampa, in merito alla cancellazione del corso da lui tenuto alla Facoltà di Scineza della Comunicazione dell'Università di Roma "La Sapienza", sia frutto di un malinteso o di una decisione che dovrebbe essere subito revocata.
Franco Purini
Proessore Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà di ArchitetturaVallegiulia, Università La Sapienza di Roma

edmondo

L'autonomia didattica delle facoltà è sacra. Ma se un illustre professore della Sapienza scrive una lettera sul futuro di Scienze della comunicazione, forse deve diventare materia di "campagna elettorale" per i candidati a rettore. O no?

Anonimo

Non è facile far sopravvivere la propria volontà di studiare comunicazione quando si è largamente noti come "scienziati della pizzetta" (che non si faccia finta di niente, le varianti più o meno offensive sono innumerevoli). Quello che porta a continuare può essere proprio il credere nell'approccio interdisciplinare, il desiderio di cogliere opportunità dove troppo spesso sembra esserci solo confusione.
E quando credi che ancora ne valga la pena, nonostante la tanta rabbia repressa nel vedere le troppe cose che non vanno nella facoltà, la misura è pericolosamente quasi colma.

Ho avuto la fortuna di avere il Professor Canevacci come relatore; che la sua personale impronta certamente mancherà, è fuori di dubbio. Ma la differenza qui credo sia tra mancanza e danno; il danno che farà ai nuovi studenti l'assenza di una materia fuori dal coro rispetto all'attuale offerta didattica della nostra facoltà.

Sul versante utilità (come altri commentatori prima di me hanno già fatto notare): se si pensa sia superfluo l'approccio etnografico, probabilmente allora sono superflue le sue innumerevoli applicazioni nelle organizzazioni, nella pubblicità, nella comunicazione d'impresa, nel marketing contemporaneo (compreso l'uso discutibile e troppo poco in discussione di vari termini, come tribù). Con buona pace del consumatore critico, eclettico e sincretico.

Sul versante formativo, non è cosa facile far proprio un modo nuovo di stare al mondo, di leggerlo, di scomporlo e ricomporlo, mandando giù anche bocconi indigesti. Mancherà una materia che metta di fronte a cose inquiete, che evochi molte più domande che risposte.

Mi sembra che questa scelta segua la via dell'addestramento e sacrifichi la formazione, intesa come cambiamento profondo. Mi dispiace per gli studenti della triennale che verranno; e per quelli come me che rimangono per la specialistica e aggiungono al proprio vaso quest'enorme, insensata ultima goccia.

bruno mazzara

Caro Massimo,

come potrai immaginare, la tua lettera mi ha molto sorpreso, sia per i toni che usi e le modalità con le quali l'hai diffusa, sia per il fatto che su questi argomenti (il ruolo dell'antropologia nei curricula di Scienze della comunicazione e il senso complessivo della comunicazione interculturale) abbiamo avuto di recente un lungo e sereno colloquio nel quale credevo di averti dato le informazioni che mi pareva ti mancassero e di aver chiarito alcuni dei tuoi dubbi più importanti.

Ti rispondo dunque nella mia veste di presidente dell'Area didattica che mi sembra sia oggetto delle tue critiche più radicali nonché di docente che condividerà con te il corso la cui denominazione (e il cui spirito) contesti, vale a dire Comunicazione interculturale.

Innanzitutto voglio dirti che considero assolutamente inaccettabile la tua affermazione secondo cui l'eventuale riduzione dello spazio per l'antropologia culturale nei nostri curricula avrebbe come esito la perdita dell'incisività critica rispetto al sistema della comunicazione, o addirittura, come dici, l'adesione ad una "visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull'esistente", quasi che la potenzialità critica fosse prerogativa esclusiva delle discipline di cui ti fai portavoce. Mi pare evidente che la capacità critica non può essere ancorata ad etichette disciplinari, ma è il risultato di scelte e di approfondimenti che ciascuna disciplina compie con gli strumenti scientifici che le sono propri. Certamente, come sai, esiste una lunga tradizione critica nella sociologia, che costituisce l'asse portante della nostra Facoltà, ma anche nella psicologia, che mi onoro di rappresentare, e così in tutte le altre articolazioni delle scienze umane. Respingo poi con forza l'idea, e qui parlo proprio in quanto presidente dell'Area didattica, che i nostri curricula siano appiattiti su un "giornalismo asfittico", di taglio tecnico-professionale. Nei nostri curricula gli insegnamenti di area giornalistica ci sono, come è giusto che sia, ma non sono affatto in numero esorbitante, e soprattutto sono perfettamente inseriti in quella cornice di scienze sociali che costituisce il pregio e il tratto distintivo della nostra Facoltà.

Tutto ciò premesso, ti faccio notare che non è affatto vero che gli insegnamenti di area antropologica siano stati sottovalutati o marginalizzati. La nostra Facoltà, come risulta chiaramente dai confronti nazionali dell'osservario Unimonitor, è una delle prime per presenza di tali materie nei curricula e per numero di docenti di quel settore. Come ti ho detto a voce, ciò che è avvenuto è che anche per l'antropologia, come per tutte le altre materie, i vincoli del nuovo contesto normativo hanno imposto un accorpamento dei moduli, sicché, come in molti altri casi, non abbiamo potuto mantenere la distinzione tra una materia "di base" e le sue applicazioni al campo comunicativo, né mantenere la chiara differenziazione fra le diverse sensibilità scientifiche che sono rappresentate nel settore. La materia si chiama ora "Etnoantropologia delle culture contemporanee", epigrafe che è sembrata abbastanza ampia da dare spazio a tutte le possibili declinazioni e applicazioni; è stata collocata al terzo anno sia per esigenze di compattamento dei curricula, sia perché è sembrato che si trattasse di un sapere che necessitasse, a monte, di una preparazione sui fondamenti delle altre discipline sociali e comunicative.

Né è vero poi che nei nostri curricula manchi la sensibilità a ciò che di nuovo si muove sul versante della comunicazione digitale. Questa tua affermazione mi sembra davvero paradossale, posto che l'etichetta è ora parte del titolo di ben due delle lauree specialistiche ed esistono almeno otto tra materie e laboratori che ne occupano in maniera diretta, tra cui una delle materie che ti è stata assegnata per il prossimo anno, appunto "Arti e culture digitali".

Ci tengo a segnalarti che tutto ciò è stato deciso nel corso di numerosi incontri istruttori, i cui risultati intermedi sono stati regolarmente inviati a tutti i docenti. Nel rispetto della normativa, ma soprattutto della sostanza della partecipazione democratica, l'articolazione della nuova offerta formativa è stata progettata in diverse riuinioni della Consulta paritetica per la didattica (come di consueto allargate a tutti i docenti), in apposite riunioni dei Consigli di Area didattica, e ovviamente in diversi Consigli di Facoltà, i quali hanno prima dato gli indirizzi generali e infine approvato il risultato del lavoro istruttorio. In tutte queste fasi i tuoi colleghi del settore sono stati largamente presenti, con osservazioni generali e proposte specifiche, che nella maggior parte dei casi hanno trovato convinto accoglimento. Resto quindi particolarmente stupito (e se mi permetti anche amareggiato) nel sentir aleggiare nel tuo scritto, e più ancora, in maniera anche esplicita, in alcuni interventi ascoltati in Consiglio, l'accusa di un accentramento verticistico delle decisioni.

E vengo infine ad una questione che mi preme molto, vale a dire il presunto carattere intrinsecamente conservatore e regressivo della tematica della cooperazione allo sviluppo, nonché della prospettiva della comunicazione interculturale. Qui il discorso si dovrebbe necessariamente approfondire molto al di là dei limiti di questa breve nota, e spero che ci sia presto occasione per farlo, anche in sede pubblica. Per il momento posso dirti che per quanto mi riguarda, come nel caso delle diverse discipline, né la potenzialità critica né gli intendimenti restaurativi possono essere agganciati in quanto tali ad un'etichetta: si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca. Ma su ciò avremo modo di confontarci in maniera proficua, se confermerai la disponibilità a svolgere insieme a me quel corso il prossimo anno.

In definitiva, mi sembra che le questioni che tu sollevi (la necessità di un approccio critico allo studio dei media e le modalità di relazione tra culture diverse) meritino molta attenzione e non debbano essere avvilite in polemiche che risentono di contingenze occasionali e vicende personali. Spero di avere presto occasione di discutere di tutto ciò, in pubblico e in privato, con la consueta serenità e costruttività.

Un caro saluto
Bruno Mazzara

luisa capelli

Qui trovate un'intervista realizzata ieri sera con Massimo Canevacci:
parte 1: http://www.youtube.com/watch?v=cljHY-oALQQ
parte 2: http://www.youtube.com/watch?v=KVXpRxBQD94
parte 3: http://www.youtube.com/watch?v=mAi3XF3PJMA

E qui una versione in inglese:
http://www.youtube.com/watch?v=8riXFqZo2Es

Anonimo

Lettera aperta al preside e ai colleghi della Facoltà di Scienze della comunicazione

Caro Preside,
per attenuare i toni delle reazioni al mio intervento in CdF di venerdì scorso, ritengo opportuno fare alcune precisazioni.
E’ mia opinione che la lettera di Canevacci, data la rilevanza delle critiche espresse e dei temi sollevati, meritasse di essere esaminata e commentata dal consiglio quel giorno stesso. La lettera solleva temi e problematiche da tempo discusse tra colleghi senza che tuttavia si sia raggiunta ancora una prospettiva analitica chiara e matura così da poter progettare una politica culturale incisiva e innovativa per SdC. Probabilmente le modalità in cui le idee di Canevacci sono state espresse e il contesto avrebbero richiesto una più lunga preparazione alla discussione e il mio intervento, forme meno irruenti. Tuttavia alcune incertezze rimangono e andrebbero affrontate in un dibattito, pur con dissensi e critiche, le cui conclusioni possano porsi a fondamento di una SdC radicata nel contesto socio-politico attuale e al servizio di una rinnovata società umanistica.
Canevacci mette in luce due fatti. Il primo:

a- Vi è una propensione a Sdc a dar spazio a forme di comunicazione legate all’establishment, ai contenuti mediatici così come ci vengono offerti dalla TV, ad un giornalismo prevalentemente celebrativo del potere, ad un’ideologia del consumismo, del prodotto, della marca. Il tendenziale orientamento di rinserrare la comunicazione dentro un giornalismo “asfittico” qual è quello attuale e di celebrare i media così come sono proposti dal sistema politico ed economico, impoverisce la Facoltà. La nostra “Scienza della Comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari [..] spesso risultano incomprese [..] e vengono ignorate [..] quelle ricerche che stanno tentando di modificare paradigmi espositivi…”

Ora si può essere più o meno d’accordo sui quest’analisi ma certamente queste osservazioni vanno prese in seria considerazione. Anche se fossero solo parzialmente vere, val la pena di verificare lo stato attuale del nostro modo di fare “comunicazione” e, nel caso, mettere in atto le procedure necessarie a farci produrre una reale conoscenza critica della comunicazione. Ad esempio, temi quali il packaging, la marca, la pubblicità potrebbero essere affrontati in maniera da mettere in evidenza i limiti del consumismo, il suo impatto negativo sull’ambiente, gli aspetti deleteri della pubblicità e di alcuni modelli di comportamento diffusi dalla TV.

In un clima politico quale è quello attuale mi sembra che SdC potrebbe maggiormente mobilitarsi per promuovere azioni, interventi, comunicazioni, filmati o quant’altro per denunciare, ad esempio, le posizioni di Maroni che sta mettendo in atto delle vere e proprie leggi razziali. Altri problemi simili sono quelli legati all’immigrazione, alla convivenza multiculturale, al rafforzarsi del carattere multietnico delle nostre città, al razzismo. Tutti temi “vigorosi” legati alla comunicazione. Temi dove, per la maggior parte, l’antropologia ha molto da dire sia sul piano teorico sia su quello della ricerca sul terreno.
Insomma si ha l’impressione che si dia maggiore spazio a rielaborare i temi classici e consueti della comunicazione e dei messaggi mediatici mentre si potrebbe rafforzare e privilegiare lo spazio dato a temi comunicativi “forti”, incisivi, realmente radicati nel contesto socio politico attuale.

Il secondo punto:

b- La riformulazione delle lauree triennali e di quelle Magistrali ha ridimensionamento la presenza e l’impatto delle materie antropologiche a favore di altre discipline. Canevacci dice testualmente: ”Si è preferito puntare su materie classiche (diritto e storia) eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, Sociologia, psicologia).” Quindi non dice e non pensa che l’antropologia sia la più importante. Dice solo che è una disciplina tra quelle fondamentali per dare allo studente gli strumenti per elaborare un pensiero autonomo e critico e che lo spazio dato a questa disciplina è stato ridotto notevolmente.

Ancora una volta le interpretazioni possono essere diverse e contrapposte. La realtà può essere percepita dal punto di vista della commissione di programmazione oppure, ad esempio, dal mio. La mia opinione è che siano state fatte scelte che hanno ridimensionato l’antropologia a favore di altre discipline. Ciò che dice Canevacci è che lo spazio che un tempo si dava all’antropologia era importante per lo sviluppo e la formazione delle conoscenze tra i nostri studenti. Per sostenere questa sua affermazione cita scuole antropologiche e autori che sono i pilastri della nuova antropologia. Io vorrei ricordare anche la scuola francese che ha contribuito, con esponenti quali Devereux, Lacan e Foucault, alla rielaborazione di un’antropologia con prospettive teoriche e metodologiche innovative e radicate nel contesto attuale della globalizzazione, della multi cultura e dei conflitti che ne derivano. Per dirla con Massimo, l’antropologia non è “santi e madonne, processioni e proverbi” bensì vuole essere uno strumento euristico continuamente rimodulato per adeguarsi al cambiamento sociale e culturale. Comunicazione, media, messaggi o reti web possono essere contestualizzate e interpretate correttamente specialmente con l’uso dello strumento antropologico che esalta la dinamicità delle culture e delle loro diversità; che riesce a scorgere i primi tendenziali comportamenti innovativi che nascono nelle micro culture locali. Ecco quindi che il ridimensionamento dell’antropologia nel nuovo ordinamento approvato rischia di favorire un approccio acritico alla comunicazione.

Mi ricresce che la collega Faccioli si sia sentita offesa per quel mio “avete deciso tutto voi”. So quanto ha fatto per la Facoltà e ha la mia considerazione per il lungo lavoro svolto. Tuttavia la mia affermazione può avere anche un solo pizzico di fondamento. Ammetto che non si tratta certo di un accentramento verticistico delle decisioni prese dalla Commissione. Certamente posso ammettere di essere stato disattento e di non aver partecipato a tutte le riunioni. Ammetto anche che non avevo nessun titolo per aspettarmi di essere consultato. Tuttavia la sola persona che mi ha cercato in modo allarmato e informato di come stavano andando le cose alla Commissione, è stata la collega Rami.
Non sono stato neppure contattato da Leschiutta, che pure era un membro della Commissione. Alla fine ho potuto solo prendere atto delle decisioni prese. Ivi compresa la denominazione etnoantropologia al terzo anno di S.eT.d.C. Una denominazione certamente legittima e in uso presso altre Facoltà ma tuttavia riduttiva e fuorviante. I nostri studenti si meriterebbero di meglio e avrebbero bisogno di una buona etnologia e di una altrettanto buona antropologia che avrebbero potuto essere messe come discipline a scelta in alternativa.

Infine mi dispiace che il Preside abbia considerato la mia presa di posizione un’espressione direttamente critica ala sua gestione. E’ vero invece che, per quanto possa valere il mio appoggio, ho sempre sostenuto pubblicamente e in privato il suo operare.

Paolo Palmeri

Anonimo

Scienza della comunicazione alla Sapienza, restaurazione in corso
“Tagliata” antropologia culturale, assenti arti visuali, mode, urbanistica. Che giornalisti forma questa facoltà?
Liberazione, 3 luglio 2008, Emanuela Del Frate

La notizia arriva in forma di lettera aperta: nella facoltà di Scienza della comunicazione della Sapienza antropologia culturale non sarà più materia obbligatoria. Non solo, verrà completamente eliminata dall’offerta didattica. A renderlo noto è Massimo Canevacci, antropologo dalla metodologia innovativa, da sempre attento ai linguaggi della metropoli, e da lunghi anni titolare della disciplina. E’ una lettera di denuncia, ma in gioco non c’è semplicemente una cattedra da salvare, come sottolinea lo stesso professore, tanto più che il suo pensionamento è ormai prossimo. Si tratta piuttosto di una fondamentale questione di assetto politico-culturale della facoltà che dovrebbe formare le nuove generazioni di giornalisti e di professionisti della comunicazione, e che compie una scelta didattica che non ha eguali in Italia.
“La decisione” spiega Massimo Canevacci a Liberazione “è inserita nell’ambito delle necessarie modifiche al corso di laurea triennale. La riforma non funziona e uno dei motivi è che le materie sono troppe e gli studenti non hanno il tempo di potersi formare correttamente. Tutte le università stanno eliminando qualche disciplina”. Stupisce, però, che a Roma la scelta cada proprio su quella che, più di tutte, dovrebbe promuovere la reale comprensione dell’altro e delle trasformazioni sociali e culturali, aspetti fondamentali per i professionisti della comunicazione. “Purtroppo l’università è ancora gestita da una forte gerarchia accademica. Sono i professori ordinari a detenere il potere e una materia come antropologia, che ne ha solo uno, viene penalizzata”. Talmente penalizzata da essere eliminata e trasformata in quella “comunicazione interculturale” che, già dalla denominazione, sottende un giudizio di valore e una netta visione politica, all’interno dell’indirizzo in Cooperazione e sviluppo, su cui Canevacci non risparmia critiche. “Si parlasse quantomeno di sviluppo sostenibile! E’ un corso di stampo neo coloniale che punta a formare quei cooperanti che andranno a lavorare nei paesi in cui c’è stato un intervento militare. Una cooperazione che punta a esportare il modello di sviluppo occidentale, dove gli strumenti interpretativi propri dell’antropologia non vengono presi in considerazione. Tanto che anche gli studi post coloniali di ricercatori nati in Africa, America Latina o nelle Indie sono ignorati. L’unica visione che resta è quella data dall’alleanza tra il peggior cattolicesimo con una concezione, apparentemente di sinistra, di stampo assistenzialistico. Una pura riproduzione delle politiche coloniali”.
Non è solo questo, però, l’aspetto della scelta didattica de La Sapienza che fa indignare. Si riafferma, infatti, una concezione tradizionale della formazione, tanto che materie classiche come storia e diritto pubblico restano invece obbligatorie, ma rivestendo il ruolo, come continua Canevacci “di semplice accessorio in un percorso prettamente tecnico”. Ed è proprio questo uno dei punti nodali della questione. Torna una formazione incentrata solo su nozionismo e sterile tecnica? Il pensiero fa rabbrividire. In particolare se appicato al percorso accademico e umano dei futuri giornalisti, che tanto potranno influire nella formazione dell’opinione pubblica. “L’università”, continua Canevacci, “dovrebbe far apprendere ad apprendere, fornendo capacità di apertura mentale e sensoriale. Tratti che l’antropologia contiene nel suo stesso statuto, in quanto si basa anche sull’autosservazione: riflettere su stessi, su cosa e come si comunica. Fare osservazioni sul campo, o esplorare i meccanismi della pubblicità, vuol dire entrare nei processi psichici e non solo metodologici. E’ così che si raggiungono potenzialità ed elasticità mentale. A cosa serve guardare i tg e fare una pura rilevazione statistica di quante volte appare la parola "razzista"? L’analisi del contenuto è così già morta in partenza”. Un altro rischio è che la formazione degli studenti di SdC sia ristretta soltanto a ciò che è media e giornalismo, eliminando a priori tutti gli altri ambiti della comunicazione. Eppure, l’assunto per cui, alla base della comunicazione mediatica, c’è necessariamente quella interpersonale e intrapersonale, dovrebbe essere scontato. Altro aspetto questo a cui il professor Canevacci è particolarmente sensibile, pioniere come è sempre stato dell’analisi di ogni tipo di linguaggio. “L’antropologia cerca di estendere lo studio della comunicazione a quanto sta accadendo, sia nelle culture tradizionali, che nella metropoli in continua trasformazione, puntando l’accento anche su urbanistica, architettura, arti visuali, mode, espressione corporea. E’ necessario formarsi su questi linguaggi in mutamento, su questa comunicazione fluttuante. Ma nella nostra facoltà tutto ciò è ignorato, non si arriva neanche a cogliere i processi fondamentali della trasformazione”. Passaggi mai compiuti da SdC che, con la recente scelta, li preclude a priori e priva la sua didattica di quella metodologia propria dell’antropologia che insegna a osservare la realtà e i processi culturali attraverso gli occhi dell’altro, mettendo anche in discussione il proprio punto di vista. Canevacci ipotizza perfino “il passaggio dall’intervista giornalistica classica a una dialogica” che potrebbe innescare “un tipo di formazione reciproca che attraversa tutte le parti in causa”. La Facoltà invece va in tutt’altra direzione. Scelte che il docente di antropologia non capisce e che non riesce nemmeno ad attribuire a un progetto ben delineato: “L’Italia è gretta e chiusa, le ultime scelte politiche lo dimostrano e la cosa triste è che le facoltà, seguendo semplici logiche di potere, di fatto si adeguano e chiudono il cerchio. Sarebbe meno triste se ci fosse un disegno preciso”.
Nel blog delle edizioni Meltemi è nato un dibattito intorno alla lettera che coinvolge docenti e studenti. L’amarezza che traspare è profonda. Tutti sono concordi nel sostenere che l’abolizione dalla didattica di antropologia culturale può solo causare profondi danni. Il rischio molto concreto è un’infornata di nuovi giornalisti impegnati a perpetuare una visione del mondo guidata da pregiudizi razzisti e chiusura mentale. Scrive per esempio Antonella: “Un’antropologia immersa nella comunicazione, nella metropoli, che parta dai corpi, che sia micrologica, critica e posizionata è e sarà sempre più importante. Le imprese e l’Europa lo sanno. Gli studenti lo sanno e lo capiscono… E la facoltà?”.

Anonimo

Università di Roma. Una lettera aperta che scuote il campus della comunicazione.
il manifesto, 3 luglio 2008, Benedetto Vecchi

La forma scelta è inusuale per il mondo sempre più ovattato e autoreferenziale dell’università italiana. Positivamente, inusuale è anche lo stile pacato, ma fortemente, critico verso una scelta che coinvolge il piano di studi definito recentemente dalla facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università la Sapienza di Roma. Si tratta di una lettera aperta che l`antropologo Massimo Canevacci ha inviato al consiglio di facoltà per rendere pubblico il suo dissenso rispetto alla decisione di cancellare la cattedra di antropologia culturale per il conseguimento della laurea triennale. L’autore tiene a precisare che la lettera non nasce da un conflitto di interessi – l’insegnamento, soppresso della materia di cui è docente – visto che il prossimo anno andrà in pensione. Il dissenso di Massimo Canevacci nasce dalla profonda convinzione che questa decisione svela una forte tendenza delle università italiane a "dismettere" l’attività di ricerca a favore di una divulgazione "giornalistica" del sapere.
Massimo Canevacci è uno studioso giunto alla cattedra alla Sapienza dopo un lungo periodo di ricerca sul campo nel Mato Grosso in Brasile e la docenza all’Università di Sau Paulo. Ha diretto riviste (l’ultima è "Avatar"), scritto, molto - "Antropologia della comunicazione, visuale. Per un feticismo metodologico" (Costa&Nolan, ultima ed. Meltemi), "Sincretismi. Un’esplorazione nelle, ibridazioni culturali" (Costa&Nolan), "La città, polifonica, Saggio sull’antropologia della comunicazione urbana" (Seam), "Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi delle metropoli" (Meltemi), "Linea di polvere" (Meltemi). Negli ultimi anni ha concentrato la sua attenzione a quelle forme di vita giovani e metropolitane e alla rilevanza assunta dalle tecnologie digitali nella rappresentazione del sé. Ed è a partire dalla centralità assunta dalla comunicazione digitale nella realtà contemporanea che prende avvio la sua lettera aperta. “A fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale – si legge nella lettera pubblicata integralmente sul sito della casa editrice Meltemi, www.meltemieditore.it – si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restauratrice e schiacciata sull’esistenza. In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di tradursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico”. E se questa è la prima accusa, più radicale è la tesi sul rischio che la rinuncia a un lavoro innovativo di ricerca trasformi i docenti universitari in “funzionari dell’industria culturale” che “addestrano gli studenti alla rinuncia dell’innovazione e all’assenso disciplinato”. Da qui le conclusioni sul carattere restauratore delle decisioni prese dall’università romana: “Si è preferito puntare su materie ‘classiche’ (diritto e storia), eliminando la prima della tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale, rivelando così, secondo Massimo Canevacci, un neo-colonialismo culturale che punta a cancellare i percorsi di ricerca teorica che hanno messo sotto accusa il concetto di sviluppo imposto dall’Occidente bianco al resto del mondo.
Fin qui la lettera. Molte le reazioni alla sua pubblicazione nel web, con attestati di stima verso Massimo Canevacci da parte di docenti di altre università (Alberto Abruzzese e Franco Purini, ad esempio) e studenti della Sapienza. Dalla Facoltà di Scienze della comunicazione finora nessuna reazione “istituzionale”. In apertura del consiglio di facoltà a cui era indirizzata la missiva di Canevacci, il preside Mario Morcellini ha sostenuto che i problemi sollevati dovevano essere messi all’ordine del giorno del prossimo consiglio di Facoltà. Una “apertura” che non ha certo raffreddato gli animi di molti docenti, che si sentono ingiustamente offesi, sia nel merito che nel metodo, dalla lettera aperta di Massimo Canevacci.

bruno mazzara

Il dibattito che si sta sviluppando su queste pagine sul ruolo dell'antropologia negli studi sulla comunicazione è molto interessante; ma non deve essere inquinato da inesattezze o vere e proprie falsificazioni dei fatti, com'è accaduto nell'articolo pubblicato ieri da Repubblica. Insieme agli altri presidenti di corsi di studio della Facoltà di Scienze della comunicazione di Roma Sapienza ho inviato ieri al quotidiano questa richiesta di rettifica, che ritengo utile mettere a conoscenza di tutti gli interessati. Ristabilire la verità dei fatti è essenziale per un sereno confronto, soprattutto per chi come me nutre grande stima personale e scientifica nei confronti di Massimo Canevacci.


Al Direttore di Repubblica

con riferimento all'articolo firmato da Elena Vincenzi, pubblicato in data 2 luglio 2008, segnaliamo che esso contiene affermazioni in qualche caso inesatte, in altri destituite di ogni fondamento, che risultano lesive dell'immagine della Facoltà. In proposito le evidenziamo quanto segue:

1. Non è vero che dal prossimo anno è stato annullato l'insegnamento dell'antropologia culturale nella nostra Facoltà. E' previsto infatti un insegnamento specifico di "Etnoantropologia delle culture contemporanee" al terzo anno della laurea triennale in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Altri moduli di insegnamento che fanno riferimento al medesimo settore disciplinare dell'antropologia culturale sono previsti nel complesso dell'offerta formativa della Facoltà (per un totale di 63 crediti). Comparativamente con quella di altri corsi di laurea in Scienze della Comunicazione in Italia, ed anche rispetto ad altri corsi di scienze sociali, la Facoltà di Roma risulta fra quelle con più significativa presenza di insegnamenti afferenti a quel settore disciplinare.

2. La riprogettazione dell'offerta didattica della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma Sapienza, obbligatoriamente prevista da una specifica normativa, è stata oggetto di un lavoro durato quasi due anni, che ha coinvolto in diversi momenti di confronto i docenti ed è stato arricchito anche da un costruttivo incontro con le parti sociali interessate. La nostra Facoltà è una delle poche che ha rinviato di un anno l'attivazione del nuovo ordinamento per estendere la possibilità di dibattito.
Il quadro dell'offerta formativa approvato all'unanimità dal Consiglio di Facoltà è pertanto il risultato di questo percorso, nel quale hanno dato contributo attivo anche i docenti che fanno riferimento al settore di antropologia culturale. Il prof. Canevacci, che per sua scelta non ha partecipato a questo percorso di elaborazione collettiva, ha sempre comunque ricevuto tutti i documenti prodotti nelle diverse fasi e non ha mai sollevato rilievi.

3. E' un falso che la Facoltà abbia deciso il pensionamento anticipato del prof. Canevacci, per la buona ragione che non è di competenza della Facoltà decidere sui tempi di pensionamento. Il prof. Canevacci sarà in servizio fino al 31.10.2009, avendo anche usufruito del biennio di proroga previsto dalla normativa.

Contiamo sulla circostanza che il giornale riconosca le buone ragioni di un'istituzione, documentate in questa nota, e confidiamo in un'adeguata rettifica, fermo restando il diritto della Facoltà per ogni azione a tutela dei suoi interessi.


Simona Colarizi, Presidente del Corso di Laurea interfacoltà in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e le relazioni tra i popoli
Franca Faccioli, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione e organizzazioni per le imprese e le istituzioni
Bruno Mazzara, Presidente dell'Area didattica in Comunicazione, tecnologie e sistemi editoriali.

giab

Per Bruno Mazzara:
Lei scrive nella sua nota
"si può concepire la cooperazione e lo sviluppo in termini neo-coloniali o in termini profondamente rispettosi delle specificità e delle vocazioni locali, così come si può parlare di comunicazione interculturale concependo le culture come entità statiche e impermeabili oppure come processi dinamici in continua transizione e ibridazione reciproca."

Per quanto si possa sperare che lei tenda verso la seconda interpretazione, mi preme farle notare che quanto lei ha scritto è scientificamente scorretto.
Non si può concepire la cooperazione internazionale come neocolonialismo ne si possono studiale le culture altre come se fossero statiche e autoreferenziali.

Spero lei si renda conto di stare offrendo un pessimo servizio alla facoltà che rappresenta.

Quanto lei afferma possibile riguarda forse e purtroppo le interpretazioni politiche dell'antropologia, abbandonando ogni pretesa di scientificità.

La ringrazio di aver voluto partecipare a questo dibattito, sottoponendosi a facili critiche.
Colgo l'occasione per invitarla a riflettere su quanto il nostro paese e la nostra Università dipendano dal coraggio che riuscirete a dimostrare in questi anni, al servizio che sarete in grado di offrire a generazioni che dovranno vivere in un mondo sempre più piccolo e interconnesso.


Gianluca Baccanico

Anonimo

Al Direttore de La Repubblica
Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca
Faccioli, Simona Colarizi e Bruno Bazzara hanno inviato a La
Repubblica: questi miei colleghi stanno affermando chiaramente il
falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era
materia di primo anno: ed è stata eliminata. Questo è il fatto.

Antropologia culturale era (ed "è") materia che si chiama solo in
questo modo come la logica più classica afferma: Antropologia
Culturale, appunto. Se si trasforma in "etno-antropologia delle
culture contemporanee" è una altra cosa, non solo perché insegnata da
colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e per questo
manifesta concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica
identitaria (non dico epistemologica) abbia abbandonato gli anzidetti
docenti, presi come sono dal furore di togliere di mezzo questa
disciplina che è e rimane Antropologia Culturale.

Antropologia culturale materia fondamentale al primo anno (a me
affidata e alla collega Rami, secondo una tradizione che risale al
Prof. Tullio Tentori) non può essere la stessa cosa di
"etno-antropologia delle culture contemporanee" al terzo anno
(affidata a Leschiutta e Sarnelli, che seguono ben altra tradizione
politico-culturale).
Perché questi tre docenti dichiarano il falso? Che messaggio stanno
dando non solo al giornale quanto agli studenti e a loro stessi?

Infine, la questione del mio "pensionamento" è stata una piccola
incomprensione con la giornalista Maria Elena Vincenzi già chiarita da
me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla
facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse
offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica,
personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono
consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa
triste storia.

Massimo Canevacci

Anonimo

Gentile Professore,
le avevo mandato un'e-mail pochi giorni fa e lei mi aveva invitata a presentarmi al ricevimento per decidere l'esame da sostenere come laureanda e per farmi firmare la tesi.

Ho letto sulle news della terribile notizia della fine dell'antropologia culturale e sono realmente rimasta senza parole, come possono farci questo?Come possono strapparci via l'unica disciplina che ci ha reso "occhi", che ci ha fatto cogliere solo ciò che sguardi attenti possono cogliere nella nuova metropoli comunicazionale, come?

Io da quando l ho conosciuta non faccio altro che desiderare di portare la tesi in antropologia culturale, ma lei seguirà anche le lauree di febbraio?

Martedì verrò al ricevimento e venerdì devo presentare il lavore del seminario "esperienze etnografiche nella metropoli".

Sono realmente delusa Professore dalla decisione presa dalla facoltà, sono strafelice di aver avuto la possibilità di conoscerla e spero anche la possibilità di essere seguita per la tesi da un Professore come Lei.

A presto Caro Massimo,

Simona Macrì.

Sheila Ribeiro

Gianluca Baccanico's clever and clear message has inspired me to check him in the google. With great pleasure, I found out that he is an ex-student of La Sapienza, who is now a philosopher related to the McLuhan project (Canada).
His bright mind shows a real crisis in university here in which the research seams to stagnate thanks to bureaucracy. Methods and thinking should not be fixed. I mean, they can be, but then again, it brings crisis and sad evidence like new X old; dead (and deaf) X alive (mindful body).
How dare can a letter (signed by 3 people, by the way) do not realize contradictions such as "Non è vero che dal prossimo anno è stato annullato l'insegnamento dell'antropologia culturale nella nostra Facoltà. E' previsto infatti un insegnamento specifico di "Etnoantropologia delle culture contemporanee"?”
Should we lose time doing simple equations here? Is there a difference between them both? And, if there is no difference, why bothering making a distinction? No capisco!
Però capisco una cosa:
The philosopher Gianluca Baccanico (ex-Sapienza student) might understand the horror of the term Etnoantropologia. He shows really well the great value of his research and thanks to him for keeping being involved ethically with his country and with Anthropology in a larger and contemporary way. Unfortunately, he is no longer part of La Sapienza.
Are you ethnikós, ánthropos or part of contemporary culture, Prof. Mazzara?

Anonimo

ti sono vicino e se lo ritieni opportuno partecipo ad eventi o firmi documenti.

W l'Antropologia W canevacci

Vincenzo Padiglione

Anonimo

Caro Professore,
mi chiamo Laura Sozzi ed ho frequentato il suo corso alla Facoltà di
Sociologia nel 2000. Ricorderà una signora di cinquantasei anni,
appena andata in pensione, la quale si concedeva per regalo un
arricchimento culturale, culminato con una laurea nel 2004.
Ho ascoltato la mia prima lezione in un ex cinema parrocchiale di
Corso Italia, dove i sedili scricchiolavano , l'audio era pessimo i
supporti tecnici inesistenti e i il microfono fischiava. La sala era
piena, anche studenti seduti a terra, il silenzio era assoluto si
sentiva soltanto la sua voce che commentava un video da lei girato in
Brasile. La sua lezione ci stava letteralmente scioccando oltre che
interessarci e coinvolgerci. Così é stato tutto il corso. Lei mi ha
mostrato un mondo visto con un occhio diverso, anche difficile da
comprendere e da condividere, specialmente per una persona matura che
fino al giorno prima aveva lavorato in un ufficio.
Lei ci ha accompagnato a mostre, per musei, non solo
illustrandoci quanto vedevamo, ma facendocene scoprire e capire le
realtà e le verità recondite. Ci ha coinvolto in uno spettacolo
teatrale "sincretico". Ci ha fatto pensare e capire tramite la
scrittura, la fotografia, i suoi documentari e le sue lezioni.
Ritengo che l'Università che già é tanto " povera" con la
soppressione di "Antropologia culturale" e il suo "prematuro
pensionamento" sia divenuta più povera.
Spero fermamente che ci sia un ripensamento e che questo sia solo un
brutto incidente di percorso, incidentalmente avvenuto.
A Lei Professore i miei migliori auguri per portare avanti i sui
lavori culturali e il suo insegnamento tra i giovani, come ha sempre
fatto.
Se possibile, mi tenga informata. cordialmente la saluto.
Laura Sozzi

fat

caro prof. massimo,
avevo parlato con lei delle nostre pessime condizioni(tra stage e lauree specialistiche) qualche settimana fa al ricevimento, ma sento di dover dire qualcosa!
GRAZIE! ho avuto l'onore di lavorare alla mia tesi con lei,ed è per questo che le dico che nn è solo la fine dell'antropologia culturale, ma è una perdita per noi studenti. ho ritrovato in lei un prof, un uomo presente nel sostegno dei suoi allievi, attento alla nostra formazione,un uomo col desiderio di diffondere il sapere non dall'alto della sua cattedra ma lì in mezzo a noi. mi insegnato a trovare il senso e i sensi altri delle cose perchè mi ha dato la possibilità di mettere in moto il cervello, gli occhi, i sensi, di nn lasciarli fermi lì a subire nozioni . so di essere stata fortunata, io ho potuto, ma gli altri che si iscriveranno> dopo di me non avranno la stessa possibilità. sarà una perdita immensa l'esclusione dell'antropologia, ma ancora più forte sarà la sua mancanza. è stato uno sprone, ha dato una motivazione là dove non ce ne era alcuna,ora ci toccherà non cedere e continuare a guardare le cose dall'interno come ci ha insegnato lei...provando a nn soccombere!!!con affetto e stima,
la sua allieva,
Fatima Letizia Cardinale

Anonimo

Egregio prof. Mazzara,

premetto che le scrivo con una punta di dispiacere data la stima che ho sempre avuto nei confronti della sua persona, dei suoi insegnamenti e del suo lavoro di vice-preside di SDC, facoltà che non solo ho frequentato ma anche amato.
Leggendo prima il suo intervento su questo blog e poi la lettera inviata al direttore della Repubblica, mi domando cosa è più importante, difendere il prestigio della Facoltà o dare voce alle molteplici voci preoccupate dalla formazione dei prossimi professionisti della comunicazione?
Inoltre, vorrei sottolineare, che il suo intervento tralascia di specificare che le materie "affini" all'antropologia, secondo il nuovo ordinamento didattico, saranno presenti soltanto al terzo anno di una sola delle tre lauree triennali attivate a partire dall'anno accademico 2001/2002.
Ed è proprio questo il problema per il quale i vostri studenti del presente e del passato, ma anche molteplici professionisti del settore della comunicazione, esprimono una sincera preoccupazione: l'antropologia culturale non sarà più un insegnamento base per tutti gli studenti.
Con questo intervento, non voglio criticare personalmente nessuno, ma sollecitare l'ascolto dei vostri studenti e aprire la possibilità di mettere in discussione una decisione che, per quanto collegialmente presa, forse non è la migliore per il nostro futuro.

Anonimo

Caro Bruno,
vedo con piacere che la tua lettera ha un’impostazione aperta e ferma come la mia prima e come sarà quest’ultima. Che inizia con una dichiarazione piena di una logica appassionata: l’antropologia culturale deve essere reinserita al primo anno.

La soluzione pratica si può e si deve trovare. La scelta politica per me è trasparente: basta dare un’occhiata alle tante mail che arrivano sul blog della Meltemi per penetrare le riflessività di tanti studenti ed ex-studenti per i quali questa materia (insieme ad altre) al primo anno ha contribuito a un processo di apertura mentale e riflessività intra-personale che oltrepassa la singola disciplina. È questo transitare continuo tra le grandi questioni che appassionano ogni singola persona, specie nei momenti fondamentali della propria esperienza formativa – il senso, culturalmente differente, attribuito a morte, religione, politica, sessualità, corporalità, espressività, metropoli. È questo penetrare i tratti micro della comunicazione (pubblicità, design, arte, architettura, web, ecc.) e delle esperienze etnografiche sul campo (polifonie Bororo, Xavante, Kraho e sincretismi metropolitani tra São Paulo, Roma, Tokyo). È questo che fa la specificità dell’antropologia culturale. Non la sua riduzione a “esame”. Infatti gli studenti più sensibili (e per me sono tanti!) non “fanno l’esame”, bensì presentano le loro riflessioni creative, partendo dal corso e dai testi, per arrivare alle loro tesine in forma di composizioni. Questo lavoro si intreccia con lo studio delle altre materie: non ho mai detto che la mia materia è l’unica a svolgere tale funzione. Dico che è parte costitutiva ineliminabile della didattica offerta agli studenti nel primo e più aperto degli anni formativi.

La scelta di alcuni colleghi di proporre l’inserimento di una disciplina quale “etno-antropologia delle culture contemporanee” esprime una posizione discutibilissima, e la facoltà, accettando questo titolo aberrante – per compiacere docenti sempre attratti solo da madonne e tradizioni popolari –, dichiara esplicitamente di non essere in grado di svolgere la sua funzione didattica e di ricerca. Mescolare etnologia e antropologia, che in Italia hanno lunghe e complesse storie che non è il caso di ricordare adesso, significa offrire un titolo incomprensibile che allontana definitivamente queste discipline dagli orientamenti internazionali. Aggiungere, poi, la specificazione “delle culture contemporanee” inserisce elementi gravissimi di confusione tra un razzismo implicito e un eurocentrismo dichiarato: Malinowski quando studiava i Trobriandesi non studiava forse culture a lui contemporanee? O Geertz, osservando il combattimento dei galli a Bali, non era profondamente immerso nella sua contemporaneità? E le ricerche etnografiche tra i giovani raver degli anni ‘90, gli avatar dei primi 2000 o i “filippini” che vivono ai margini della stazione Termini non sono altrettanto contemporanei delle costruzioni di Toyo Ito o delle istallazioni di Bill Vilola? O dei Bororo, degli Xavante, o di noi stessi? Questa titolazione disciplinare sottintende che gli attuali Bororo sono parte di culture del passato, come tanti giornali hanno recentemente sostenuto, pubblicando articoli e servizi sulla scoperta degli “uomini rossi” in Brasile e che ho cercato proprio a RAI1 di contrastare inutilmente. La maggior parte dei giornalisti pensa ancora ai popoli viventi in luoghi “esotici” come l’Amazzonia come a primitivi che sbucano dal passato. Anzi, come al passato archeologico dell’umanità. Culture primitive senza virgolette, selvagge come tanti continuano a scrivere, culture che non usano come noi le tecnologie digitali (video, internet, cd ecc.), o che, se lo fanno, sarebbero state omologate dall’Occidente! Razzismi diffusi, pregiudizi dominanti, etnocentrismi volgari. Stereotipi, come alcuni di quelli che spesso riguardano noi italiani: provinciali, mediterranei e rozzi. Ignoranze legittimate dalle università italiane? Insomma, sottolineare la dimensione contemporanea delle culture e agglutinare perversamente etnologia e antropologia è disastro linguistico, catastrofe disciplinare, decesso universitario. Questo sta legittimando la nostra facoltà.

Ho pudore a parlare di me. Eppure, l’avermi “affidato” una materia contraria ai miei principi scientifici (Comunicazione Interculturale) che – simmetricamente – afferma la stessa logica perversa di una “etno-antropologia delle culture contemporanee”, suscita la mia ribellione e impone il mio fermo rifiuto a legittimare, nella nostra facoltà, una visione tardo-colonialista delle relazioni tra “noi” e gli “altri”, in cui passa un concetto “neutro” di sviluppo messo sotto critica da decenni. Esiliato al terzo anno di un corso di laurea come “Cooperazione e Sviluppo”, dove per cooperazione si intende sempre più chiaramente un processo eurocentrico di autofinanziamento per esportare modelli esogeni a differenti culture, spesso di sostegno agli interventi militari, di cui Comunicazione Interculturale diviene materia vassalla al dominio di un certo “Occidente”. Esattamente l’opposto di quella che è stata fin dall’origine l’esperienza critica e la forza epistemologica di ogni antropologia, anche alla faccia degli studi post-coloniali.

Questa si chiama restaurazione politico-culturale. Questo si chiama provincialismo e rischio di schiacciarsi sulle politiche dominanti.

Mi dispiace, caro Bruno, ma non trovo altri termini per definire lo stato della facoltà e vorrei che anche altri colleghi si smuovessero dal loro torpore. La gravità estrema della politica italiana e in particolare della nostra città dovrebbe favorire ed estendere le ricerche etnografiche sulle complesse relazioni comunicazionali ed espressive tra questi “noi” e questi “altri” e anche questi “altri-noi” che si incrociano, si innestano e si ibridizzano – anche conflittualmente – sempre più.
Il preside e anche tu mi avete detto: perché non l’hai detto prima? È un’osservazione giusta. La mia spiegazione è la seguente:

1. In primo luogo, sono un ricercatore “puro”, mi dedico da sempre a questo e in genere mi relaziono con difficoltà alle attività istituzionali previste dalla facoltà. Riconosco che è un mio limite.
2. È vero, non ho partecipato anche all’ultima riunione decisiva, ero a Tokyo con sei miei studenti per fare alcune lezioni su invito della Musashino University, che non casualmente si basa su comunicazione, arte, design. Forse immaginavo che i destini dell’antropologia non fossero legati solo al sottoscritto, bensì anche a colleghi “affini” e alla facoltà nel suo insieme. Non è stato così. Non solo, è avvenuto il contrario: una sopraffazione di colleghi dimessi, pronti ad accettare e a sottomettersi a qualsiasi dispositivo gerarchico.
3. I precedenti presidi (Abruzzese e De Masi), pur nelle nostre differenze e direi proprio grazie alle nostre differenze, mi hanno coinvolto nella gestione della facoltà e ho sempre accettato con passione. Ex-cathedra è stato un esempio che qualcuno ricorderà, anche se la partecipazione dei colleghi fu episodica. Con l’attuale preside, si è stabilito fin dall’inizio un rapporto di non ingerenza reciproca che personalmente ho sempre rispettato. Solo ora posso dire – a partire dalla nuova programmazione dei corsi di laurea – che la sua impostazione si presenta molto diversa da come a mio avviso dovrebbero offrirsi le scienze della comunicazione: un visione estesa ad ampio raggio sulla complessità straordinaria che offrono le prospettive comunicazionali trans-disciplinari e sperimentali. Al contrario, a me pare che la facoltà si stia restringendo dentro una gabbia giornalistica orientata verso i tradizionali mass-media, abbassando le potenzialità digitali a semplici tecniche da apprendere. Si vedano gli incontri programmati e le numerose attività della presidenza, fino alla sorpresa dell’ultimo consiglio di facoltà dove il preside ha annunciato la trasformazione delle bacheche in outdoor pubblicitari, senza che un solo docente abbia sollevato non dico un’obiezione, ma una timida domanda almeno sul tipo di pubblicità e su come questo ingresso pubblicitario verrà percepito dagli studenti. La mia conclusione, caro Bruno, è un invito a rompere le tue chiusure, a riaprire il dialogo e a leggere con dolcezza e attenzione le mail che arrivano al blog che una straordinaria casa editrice militante e partecipativa ha scelto di affiancare: la Meltemi. Esse parlano di una nostra facoltà che tu hai ancora la possibilità di far vivere.
Un caro saluto
Massimo

PS Leggo con estremo stupore la smentita che colleghi quali Franca Faccioli, Simona Colarizi (responsabile del tardo-colonialismo storico) e te stesso avete inviato a La Repubblica: state affermando chiaramente il falso. E questo mi addolora profondamente. Antropologia culturale era materia di primo anno: ed è stata eliminata. Antropologia culturale era (“è”) materia che si chiama solo in questo modo come la logica più classica afferma, Antropologia Culturale, appunto: se si trasforma in “etno-antropologia delle culture contemporanee” è un’altra cosa, non solo perché insegnata da colleghi diversi ma perché si scrive in modo diverso e quindi risponde a concetti diversi. Mi pare che la stessa banale logica identitaria (non dico epistemologica) vi abbia abbandonato, presi come siete dal furore di togliere di mezzo questa disciplina che è e rimane Antropologia Culturale. Invito tutti i colleghi a prendere posizione almeno su questo punto: se antropologia culturale fondamentale al primo anno (a me affidata e alla collega Rami) sia la stessa cosa di “etno-antropologia delle culture contemporanee” al terzo anno (affidata a Leschiutta e Sarnelli). Perché tre docenti come voi dichiarano il falso? Che messaggio state dando non solo al giornale quanto agli studenti e a voi stessi?
Infine, la questione del mio “pensionamento” è stata un’incomprensione con la giornalista già chiarita da me ieri stesso con una lettera inviata sia al giornale che alla facoltà. Eppure ora non posso non dire che se la facoltà avesse offerto alla critica e alla ricerca spazi per continuare la didattica, personalmente avrei trovato difficoltà ad andarmene. Ora sono consapevole della correttezza delle mie scelte prese prima di questa triste storia.
Massimo Canevacci

Anonimo

....

Anonimo

caro maxx, la lettura della lettera aperta mi ha ricordato una considerazione che il pensatore sincretista élemire zolla fece nel presentare l'ultimo numero della sua rivista (sincretica) "conoscenza religiosa" (anno 1983!): "nel momento in cui risparmi di bilancio sottraggono alle più importanti università d'europa gli insegnamenti più rari dunque necessari, non ci dovrebbe essere molto spazio per notare questo congedo". infatti, se è vero che la lettera ha generato una presa di posizione di amici e tuoi estimatori, dov'è tuttavia la famosa "comunità disciplinare"? il settore m-dea/01, come si chiama burocraticamente, è troppo impegnato con"santi e madonne, processioni e proverbi", con cui misurare e giudicare i prossimi concorsi? eppure ciò che è in ballo è proprio il senso di una disciplina, nonché anche il tentativo (da alcuni assunto persino in buona fede, ma, come diceva talleyrand, "peggio che un delitto, fu un errore") di renderla applicativa, "concreta", di appoggio alla "cooperazione allo sviluppo". Se questo è vero, quale spazio può sussistere per chi voglia innovare le scienze sociali fino a farle incontrare con le metodologie proprie delle arti sperimentali? Perché in ultimo questo è il lavoro pionieristico di portata incomparabile svolto da te nel nostro paese: far incontrare i contenuti di una disciplina potenzialmente critica e liberatoria come l'antropologia con la comunicazione altrettanto critica e liberatoria delle arti sperimentali del nostro tempo. dov'è il settore m-dea/01?

Anonimo

salve a tutti i lettori.
ci sono anch'io e mi unisco al gruppo, e saremo uno in più.

Ho deciso, in questa sede, in questa finestra aperta, di postare il mio progetto motivazione che doveva servire come step finale per partire in Brasile direzione Bororò.
Questa mia decisione di postare questi miei pensieri, scritti tempo fa, deriva dalla speranza che, come richiesto da Massimo Canevacci, Bruno Mazzara li leggerà insieme a quelli degli altri ragazzi studenti con "dolcezza".

Ora di seguito "posto":

Elaborato per viaggio in Brasile
From Aula 4 to Matogroso

"Io non penso di dover scrivere nessun progetto per iniziare un viaggio per il Brasile.
Penso invece di dover continuare il progetto del viaggio che ormai da mesi ho iniziato dentro l’aula 4 della caserma Sani con il professore e i ragazzi.
È quello ciò che posso considerare “il mio viaggio”, spinto da una metapassione che mi ha fatto arrivare sin qui.
Da Fiumicino non inizierà nessun viaggio per il Mato Grosso. Ma sarà da lì che proseguirà.

Penso che questa esperienza mi servirà molto per capire cose fondamentali per il mio futuro da comunicatore ed esperto di marketing.

Faccio un esempio per spiegarmi:
“stare sotto la Cappella Sistina, senza conoscerla minimamente, ti darà un effetto confusionale di corpi intrecciati che interagiscono tra loro. Solo dopo averla studiata, vista e rivista, tutti i soggetti cominceranno ad assumere i propri ruoli e le proprie caratteristiche nella parete  Idem, penso che se in futuro avrò le pretese di voler soddisfare i bisogni dei miei clienti, non potrò farlo senza avere la benchè minima percezione di ciò che l’uomo è ed è stato.
Solo approfondendo un argomento a 360° lo si può capire. E questa è la mia unica opportunità.

Questo proseguimento del mio viaggio, sarà confermare quello che penso di questa materia: Antropologia come la descrizione delle limitatezze e dell’impotenza dell’uomo:
“Solo capendo quali sono i punti deboli dell’avversario, si potrà sconfiggerlo.
Il mio avversario è l’uomo e le sue debolezze. Le sue richieste, le sue limitatezze.
Vedere l’uomo ai suoi inizi, assaggiare i suoi comportamenti, ascoltare i movimenti, vedere i loro ritmi, toccare i loro flussi comunicativi saranno fondamentali per capire chi eravamo, chi siamo e cosa cerchiamo. Solo conoscendo una cosa la si può dominare.”

Questa esperienza, sarà un respirare un’aria differente; più leggera, paragonabile solo all’aria sulla Luna.
Per me sarà un percepire l’uomo durante i miei silenzi e dentro i miei sguardi.

Questi quilombos saranno quello che tutti non avranno, ma io si.
Dovrò affinare, modellare e istruire le mie capacità di osservatore proprio lì, sul campo.
Svilupperò papille gustative e mucose rare che mi aiuteranno nel mio presente a vedere quello che ancora non esiste nel futuro prossimo.
Medea diceva: Questo luogo sprofonderà perché “senza sostegno”! Non pregate Dio perché benedica le vostre tende. Voi non cercate il centro. Non segnate il centro. No. Cercate un albero, un palo, una pietra. Io andrò alla ricerca del mio palo nel quale far girare la mia vita.

Nel mio cervello si svilupperanno meccanismi involontari che mi faranno intuire cose che faranno la differenza nel mondo del lavoro.

Le mie mani staranno ad aspettare il sangue dalle braccia scarificate dei Bororo. Aspetterò quel sangue che smuoverà le mie idee. Sangue come vita, sangue come nascita, sangue come movimento, e sangue come danza.
Un giorno, mi fu dato l’ordine di dare inizio alle danze, ed io sono lì che aspetto. Che il samba dei pensieri continui, e che la festa cominci.
G.B.

Anonimo

Egr. Prof. Canevacci,
Leggo con enorme dispiacere e rammarico che la sua attività di
professore terminerà dopo il 30 ottobre del 2009, questa notizia mi ha
rattristato e ho pensato di scriverle una mail.
E' davvero un peccato perdere un professore come lei, tra tutti gli
esami che ho fatto il suo è risultato il più bello e formativo ed è
quello che di sicuro mi porterò per molto tempo dentro e che ha
influito sul mio modo di vedere e fare le cose, dalle esperienze
quotidiane alle mie passioni artisitche.
Spero ci sia la possibilità in futuro di ascoltare le sue "lezioni" e
leggere comunque i suoi libri.

Le voglio raccontare un aneddoto simpatico sul corso di antropologia:
a distanza di anni mi capita di parlare con ex studenti di sdc di
quanto sia stato formativo e bello l'esame di antropologia visuale,
tra di loro vi sono "canevacciani" e no,ma si scopre subito chi ha
fatto l'esame con lei, perchè appena si nomina antropologia visuale la
prima cosa che viene in mente è "Cronemberg" e videodrome. Cosi
abbiamo trovato un semplice sistema per capire chi ha seguito il corso
con lei, basta chiedere:"Hai visto Videodrome?" ... Le sembrerà
stupido come aneddoto, ma a mio avviso riflette un argomento molto
importante che a questa facoltà manca tanto, la capacità di
appassionare le persone e di andare oltre il voto.
La ringrazio infinitamente per quello che mi ha trasmesso e le auguro
un forte in bocca al lupo.

Distinti saluti
Diego, un suo ex-studente.

Anonimo

Caro Massimo,
mi sono imbattuto nella tua lettera aperta per quanto sta accadendo alla facolta' di scienze della comunicazione, e la tua inervista su youtube. Si puo' solo rimanere basiti.
Io mi occupo di cooperazione internazionale, nel senso che e' quello che faccio di mestiere da ormai piu' di 6 anni e certe dinamiche di dominio mi sono sempre piu' chiare sia quelle strutturali (pensa al detto haussa: tu mi doni, tu mi domini), sia quelle legate all'impiego delle tecniche, che ormai costituiscono un vero e proprio caposaldo nel "discourse" della cooperazione internazionale.
C'e' una riflessione un po' silenziata, ma che comunque sta avvenendo che riflette sulla tirannia delle tecniche. Metodi, strumenti, tools partecipativi che si sommano l'uno all'altro lasciando presupporre che il buon lavoro, quello professionalmente valido del "practitioner" sia quello del corretto impiego delle tecniche, lasciando invece in secondo piano la riflessione sulle dinamiche reali di potere.

Riflettendoci viene in mente Artaud e la sua critica alla dittatura del testo nei confronti del senso. Nulla di piu' attuale. Questo e' una societa' che sta in piedi sul testo, sulle migliaia di testi che vengono prodotti, sull'impiego sempre piu' raffinato e sofisticato di tecniche, di procedure, di metodologie e non sul senso, sui tanti sensi che ci fanno capire cosa succede.
La sensazione e' che vengano sacrificate le analisi critiche a favore di discipline che magari permetteranno ad un giornalista o ad un esperto di comunicazione di non commettere errori sull'interpretazione di un comma della costituzione, ci mancherebbe senz'altro importantissimo, ma si perdera'l'analisi di quanto accade nel mondo. Mi spiace tantissimo, non solo per ragioni affettive, ma per ragioni culturali. Il tuo corso da la possibilita' di ragionare sul senso, spesso sorprendendo, scombussolando, frastornando "crudelmente" chi ti ascolta. Questa capacita' di sovvertire i testi, di montarli e rimontarli facendo apparire anche cio' che sta sotto e dentro e' cio' di cui ora la facolta' ha deciso di fare a meno.

Probabimente ora lo slogan de "La Sapienza" avrebbe bisogno di un piccolo riaggiustamento: Il futuro e' passato (da) qui.

Um abraco!

Daniele Panzeri

Anonimo

dai massimo allarga il dibattito, credo che questo sia il modo per dare ulteriore senso al tuo percorso alla Sapienza. L'antrop cult è (stata) o no una di quelle discipline capace di spiegare e di entrare nel moderno (almeno dalla ricodificazione dei saperi, forse prima della riv industriale) e per questo capace di spiegare gli spostamenti dell'oggi? la necessità della fine del moderno monologico, la necessità di relazioni fra le culture in cui il mito dell'intercultura sia relegato alla psicologia sociale (che è materia di aziende e piccole imprese.....manco la confindustria!), la necessità di leggere le culture digitali in un quadro più ampio rispetto al piglio tecnicistico, la necessità di farla finita con la filosofia Hegeloheideggheriana tramite il campo e le sue tensioni ed egemonie, la necessità di porsi anche come "metametodo" non fine a sè stesso (non stile Luhmann per es. che a breve immagino sarà rivalutato come fulgido esempio di metapensiero accademico), necessità.....va beh il prof sei tu, ora si tratta però di fare "politica". Ecco prof, intendo quel che stai facendo ora come risposta a quella domanda che tiavevamo rivolto tempo fa e ti era sembrata un po' aggressiva e banale, quella della politica e della formazione. Creare questo allargamento del dibattito diventa qualcosa che comprende, d'un colpo solo, la dimensione "politica" (semplifico, il termine è proprio andato...) e quella educativa (qui facciamo finta che educazione sia un termine adoperabile, in realtà....). Infatti leggerti sui diversi media, portare all'aperto una cosa che viene data come tecnica è stato importante.Non solo come strategia di un possibile conflitto con i baronetti, ma come presa di posizione rispetto a un contesto più ampio.
Daje!

D.G.

Anonimo

Che il corso di Antropologia Culturale del prof. Massimo Canevacci fosse assegnato a SdC piuttosto che a Sociologia mi sembrò cosa abbastanza ovvia qualche anno fa, mi pare il 2001, perché di fatto centrato sull’antropologia della comunicazione visuale. Ho comunque sostenuto la biennalizzazione con Massimo e mi sono laureata in Sociologia con tesi di laurea in Antropologia Culturale.
Ma la molteplicità degli orizzonti teorici e di ricerca che un docente come Massimo sa e può offrire agli studenti che frequentano i suoi corsi mi ha consentito di elaborare un particolare percorso formativo che ha eroso i confini disciplinari tra antropologia sociologia e medicina e di approdare dall’antropologia del corpo all’antropologia medica della scuola di Harvard, poco tradotta anche se conosciuta come la più importante fucina a livello teorico ed empirico della medicina sociale, un ambito su cui sto lavorando in questi giorni e che spero di “importare”, rendere disponibile e divulgare in uno spazio on line in questi giorni.
Essere docente nel senso pieno del termine vuol dire infatti portare ognuno sulla soglia della sua mente e indicargli infinite possibilità, percorsi, non chiuderlo dentro la scatola chiusa di un corso monografico e monotematico, vuol dire sollecitare nel discente accese illuminazioni a partire dai suoi particolari interessi di studio e ricerca, vuol dire, come Maxx sa fare, non impartire ex alto una retorica scientifica disciplinare caratterizzata unicamente dalla sua direzione verticale, top-down, ma fare della circolarità orizzontale e dialogica, della pratica democratica, metodo e didattica.
Dunque lo ringrazio qui e ora per tutto quello che ha saputo e potuto darmi e che porterò con me per sempre, come dono, memoria indelebile, molteplicità di saperi, conoscenza.
Mi auguro che si esca da questa logica burocratica e accademica che assegna improvvisate etichette a corsi e percorsi, snaturando il senso di un ambito disciplinare, l’antropologia culturale, della didattica e della ricerca sul campo.
E mi pare assurdo e mi spiace molto che un docente che ho stimato e conosciuto per aver letto i sui testi come Mazzara si presti a questi giochi di prestigio del preside, che alterano e attaccano con leggerezza improbabili etichette a discipline e corsi universitari.
Strane e inconsuete logiche o in alternativa più consuete e conosciute, purtroppo praticate logiche di assegnazione di cattedre a "figli di" e "raccomandati da".
annD

Moreno

Mi chiamo Moreno, sono uno studente di Scienze della Comunicazione (laurea specialstica) e sono stato studente del professor Massimo Canevacci, relatore della mia tesi di laurea.

Il gravissimo errore di eliminare (non è stato 'spostato', 'trasformato', ecc... è stato ELIMINATO, non credo che si possa fare retorica perfino su questo) è frutto di un gigantesco errore di PERCEZIONE che è stato compiuto dal Consiglio di Facoltà che NON E' IN GRADO DI PERCEPIRE - questo almeno è quello che traspare - qual'è il reale grado di efficacia dei corsi di laurea somministrati agli studenti; parametro che invece dovrebbe essere di importanza rilevante...

La maggior parte dei corsi di laurea di questa Facoltà viene visto dagli studenti come un fastidioso ostacolo prima della tesi. La maggior parte dei testi sono 'strumenti' ma non nel senso formativo che si vorrebbe, piuttosto strumenti per raggiungere quei 4 crediti necessari per andare avanti. Questa differenza è molto importante.

Il corso di laurea in Antropologia Culturale è uno dei pochi (e non rendersene conto è il vero errore) che lascia davvero il segno sugli studenti, e che condiziona - in positivo - il loro modo di concepire la realtà e quindi anche il mondo universitario.

Personalmente mi ha cambiato la vita, oltre al modo di pensare. Ancora oggi applico i concetti di Rosaldo, Bateson e Canevacci alla mia vita concreta. Cosa che NON ACCADE per le varie 'Metodologie...' 'Analisi...' e tutta quell'accozzaglia di materie di cui non mi è rimasto NULLA, se non il cedolino da 4 crediti che mi ha permesso di conseguire la laurea.

Non si tratta di considerazioni puramente personali, proprio qui sta il bello. Perchè non sono stati interpellati (seriamente) gli studenti prima di ufficializzare questa scempio? Il professor Massimo Canevacci e il suo corso di laurea è uno dei più AMATI DAGLI STUDENTI.

Non è forse importante che esistano corsi di laurea che riescano a dare qualcosa di più oltre al cedolino?

"La riprogettazione dell'offerta didattica della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma Sapienza, obbligatoriamente prevista da una specifica normativa, è stata oggetto di un lavoro durato quasi due anni"

La riprogettazione ha VOLUTO eliminare Antropologia Culturale perchè la ritiene SUPERFLUA per uno studente di Scienze della Comunicazione.

Questa affermazione, dalla quale non si può trascendere, non tiene conto del reale grado di efficacia di tutti i corsi di laurea somministrati ed elimina gli unici che sono veramente interessanti per gli studenti. Gli unici che hanno la speranza di venir interiorizzati. Ciò ha dell'incredibile. Ma forse nemmeno troppo... la reputazione che da tempo affligge la nostra Facoltà ('corsi di laurea per chi vuol fare la Velina', 'futuri giornalisti incompetenti e standardizzati in perfetto stile 'Studio Aperto' ) sta cominciando a piacere ai Signori dei Piani Alti.

Anonimo

Professò...
quanto aveva deciso di campare??
85? 90? 95 anni?
Con tutti questi elogi...
Con tutti questi imperfetti...
Con tutte queste "tristezze"...
a mio avviso gli hanno allungato la vita di 60 anni...

Sò fatti tua, ora!!!!

g.b.

Anonimo

"La riprogettazione dell'offerta didattica della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma Sapienza, obbligatoriamente prevista da una specifica normativa, è stata oggetto di un lavoro durato quasi due anni"

Lello Arena, compagno di lavoro di Troisi direbbe: ..................................................................................................................................................e dù anne c'avete messo pè dì sta strunzata!!!

Anonimo

Egregio prof. Canevacci,
sono uno studente del primo anno, fuori sede, ma nonostante ciò non ho mai perso alcuna delle Sue lezioni.
Cercherò di essere breve, ma non per questo banale.
Ho seguito il Suo corso come da anni non seguivo alcuna materia.
Fino a quel giorno di ottobre in cui l'ho vista per la prima volta in cattedra nell'aula 4 della Sani, dell'antropologia ne avevo

solamente sentito parlare, ma non sapevo di preciso cosa riguardasse.
Voglio dirle GRAZIE!
Grazie di aver contribuito alla mia formazione.. e non parlo solo di studi o cose imparate per sostenere un esame.. no.. quello lo

sanno far tutti..
Lei ha contribuito alla mia formazione mentale.. a guardare le cose con altri occhi.. a "spalmarmi di occhi" per cercare nel

significato di ogni cosa.. sempre con il solito stato d'animo: STUPITO!
Ricorda? Un giorno a lezione su quel termine io e lei intavolammo un bel dibattito, uno scambio di idee come amici che si

incontrano al bar o in metro e parlano di un film, di un libro letto, confrontandosi.. per poi, quando l'uno scendeva alla fermata

prima dell'altro, continuare a pensarci mentre si tornava a casa.. perchè quell'opinione aveva aperto nuovi confini non ancora

pensati.
O ancora.. il mio esame.. quando Lei mi chiese quale parte del rito del funerale Bororo mi aveva intesserato maggiormente.. e io

Le risposi:- la cosa che più mi ha affascinato è stato leggere il Suo stato d'animo nei vari momenti chiave del racconto: le Sue

lascrime, e le Sue "domande" al tracciarsi di quella "linea di polvere" -...poi ricominciammo a parlare come quei due amici...

scambiandoci idee e opinioni sulle varie immagini della "stupita fatticità".
Quando mi resi conto che con quel mio esame, quel mio 30 e lode, il mio percorso con l'antropologia culturale era già finito

sentì che qualcosa era cambiato.. ero cambiato io... grazie a Lei, grazie alla passione che straripava ad ogni parola da Lei

pronunciata durante le Sue lezioni.. era bello vederLa sempre cercare quello stupore.. quell'attimo prima.. (ma in Lei anche

dopo e durante.. )
Mi promisi che avrei fatto leggere "La linea di polvere" a tutte le persone a me care.. per farle emozionare come pochi

racconti sono in grado di fare.. come io mi sono emozionato dalla prima all'ultima pagina..
Sembra impossibile immaginare un primo anno di SdC senza la Sua cattedra.. mi dispiace per chi verrà e non potrà rendersi

conto di cosa si perdono..
GRAZIE PROF. CANEVACCI.. è stato un ONORE fare quel tragitto in metro assieme.

fat

ciao a tutti/e,

abbiamo mostrato il nostro rammarico per le decisione prese
dal consiglio di facoltà,il nostro
GRAZIE al prof. massimo per il lavoro svolto con e per noi e il nostro dipiacere misto a comprensione per il suo pensionamento anticipato.
credo che adesso dobbiamo fare qualcosa.convinta che l'università sia nostra, di noi studenti, è nostro specifico dovere oltre che un diritto non accettare certe decisioni e legittimarle solo perchè prese "dall'alto".
se la nostra formazione non sta a cuore a nessuno(anzi sta a cuore a pochi: canevacci e valeriani sono per me gli esempi)non dovremmo occuparcene noi?vogliono formarci, ma come?nozioni?libri?giornalisti da inviare a studio aperto?
no grazie!
siamo la linfa vitale, la futura classe dirigente di questo "bel paese"...
non possiamo lasciare che tutto finisca tra un paio di settimane! per ritrovarci tra un anno o anche meno affetti da quella "malattia" del peccato che...era indispensabile per noi l'antropologia, era una fortuna aver un prof come massimo, ma hanno deciso così, è così che va!
certo la situazione non è delle migliori, ma sono convinta che dobbiamo provare a fare qualcosa, non so bene cosa, ma visto che siamo qui è il caso di pensarci tutti!
FLC

tuiti

Gentile professore,


proverò a mantenere lucidità, a non guardarmi emozionata mentre scrivo, per cercare di raccogliere, nel modo più ordinato possibile, i pensieri che come saette balenano tra le mie cervella, si susseguono al ritmo serrato dei battiti cardiaci che pulsano all’impazzata, (iper)alimentati dal senso di indignazione galoppante che avanza senza sosta, di fronte alla annichilente notizia dell’eliminazione dell’insegnamento di Antropologia Culturale dal corso di Scienze della Comunicazione. Operazione aberrante. Inutile. Mostruosa. Disfattista.
L’agitazione viene poi solo a tratti parzialmente riallineata dal profondo affetto che nutro nei suoi confronti e nei riguardi del bellissimo ricordo che ho del suo corso – allora fondamentale – che seguii al primo anno di università (2000).

Fu il primo esame. Fu il primo sguardo che diedi al corso di laurea che avevo scelto. E adesso so con certezza che fu l’unica vera esperienza di analisi dei processi comunicativi che abbia realizzato in cinque anni. L’Antropologia Culturale una delle pochissime materie che mi abbiano fornito strumenti di ricerca trasversali e multiformi e lei il solo docente che sia stato in grado di trasmettermi la capacità (o l’intenzione, la voglia, lo spirito di riuscire ad essere in grado) di interpretare la realtà (e la finzione) tramite le chiavi di lettura più distanti e vicine simultaneamente a me stessa che osservo, nel momento che osservo (il me osservante). Strumenti che impiego continuamente nel mio quotidiano, sette anni dopo: quando guardo un film, quando leggo una notizia, quando mi soffermo su un documentario, quando assaggio ‘cibo etnico’, quando assisto ad un litigio per strada, quando viaggio, quando guardo un graffito, quando conosco una persona nuova, quando ascolto un racconto, quando leggo un fumetto, quando navigo su internet..

Voglio raccontare come lei sia stato per me l’unico professore - di un corso durato 5 anni e costituito da 24 insegnamenti - che dal profondo della propria umiltà non abbia mai preteso di infondermi verità dogmatiche. Atteggiamento che ho troppo spesso riscontrato nei metodi di insegnamento di moltissimi altri docenti. Lei è riuscito piuttosto a guidare le mie percezioni nello scardinare i concetti incorniciati, mi ha spinta ad andare oltre, a guardare il dito e la luna, la luna e poi di nuovo il dito.

L’Antropologia mi ha portata a chiedermi sempre cosa c’è nel mezzo. Tra dito e luna. Ed oltre.

Per quell’esame mi concesse la possibilità di analizzare attraverso il mio sguardo indagatore - che entrava ed usciva dagli occhi degli altri studenti - le interpretazioni eXtreme fornite da loro stessi nei confronti del suo corso. Mi aveva così regalato la possibilità di sperimentare per la prima volta i processi interpretativi che sono alla base di ogni singolo passaggio di alcuni di quei meccanismi che sostanziano la comunicazione. Poi trascorsero alcuni anni.. quando passavo davanti alla bacheca con la scarpa rossa mi chiedevo come mai non riuscissi ad incontrare altri insegnamenti così affascinanti e trasversali (fatti salvi la semiotica, un paio di materie sul cinema e una sulla pubblicità).
Infine l’ultimo anno mi decisi e ribussai alla sua porta, per chiederle (implorarla a dire il vero, viste le tempistiche ristrette) di laurearmi con lei. E lei mi condusse alla conclusione del mio percorso di laurea costruendo con me il progetto per la tesi, seguendomi personalmente, leggendo ogni riga, incoraggiando le mie curiosità, sostenendomi e spronandomi a contraddirmi, a sfidare le deduzioni a cui arrivavo e ad oltrepassarle. Spingendomi ad affondare le dita nell’Antropologia della comunicazione visuale. Rendendo il principio e la meta un unico punto lampeggiante nel mio personalissimo percorso formativo universitario.

Il corso di Antropologia Culturale mi ha insegnato che riuscire ad orientarmi nella realtà che mi circonda con più o meno fermezza, tenendo a caposaldo qualche teoria sulla comunicazione, non vuol dire molto. Lei mi ha insegnato a perdermi nell’Antropologia. Tramite l’Antropologia. A smarrirmi nell’interpretazione di ciò che osservo e che sento..

La mia stima è sconfinata.
E il dispiacere nell’apprendere che non ci saranno altri ‘comunicatori’ che si affacceranno alla sua porta o che avranno più semplicemente la fortuna di studiare l’Antropologia mi fa crollare.

Tiziana Satta

ludik

Caro Massimo, leggere la tua lettera aperta mi ha resto triste e nervoso. Però leggere le decine di commenti e risposte che sono arrivati su questo blog, soprattutto quelli di tanti studenti mi ha fatto riflettere in positivo. Rendendomi conto ancora una volta di quante persone, ognuna in un modo diverso, sono state segnate dal tuo insegnamento, che non è solo una questione di lezioni, libri, crediti e tesine. E' molto di più. E' difficile per me scordare le mie prime lezioni universitarie a seguire il tuo corso nella penombra di un cinema, le performance organizzate da te e da altri tuoi studenti che venivo a seguire, la prima volta che ho preso in mano un tuo libro, il tempo passato a prendere confidenza coi concetti più radicali per capire che spesso sono anche quelli più illuminanti, la sensazione di libertà delle notti in facoltà con ex-cathedra, i nuovi sguardi da acquisire...

Ho visto in questi anni esami ripetitivi, studenti demotivati, punti e saperi macinati senza pietà, e una progressiva implacabile normalizzazione della nostra facoltà. Ho deciso, adesso che sono tornato a concludere la mia specialistica, di fare un altro esame con te. Per un motivo che ha a che fare col destino personale e anche con quella metafora a te cara del guardare indietro tirati avanti dall'inevitabile futuro. Perchè la crescita, lo scambio, la circolazione delle idee non avviene solo in segreterie e aule, su libri e dispense da mandare a memoria. Così non riesco ancora a non deprimermi all'idea di un facoltà come la nostra che decide di fare a meno dell'antropologia, e anche (e non è cosa da poco) del modo che avevi te di insegnarla. Non è una difesa ad personam, piuttosto il segnale di un altro passo sulla strada dell'impoverimento culturale, della chiusura su se stessi. In una fase storica in cui ci sarebbe bisogno di tutt'altro. Chissà: forse vuol dire che ancora una volta quella strana facoltà di scienze della comunicazione si ritrova in sintonia con lo spirito del tempo, nel bene e nel male. Evidentemente chi ha il potere di decidere ha ritenuto più utile insistere su studi che assecondino il regime da appiccicoso infotainment provinciale in cui siamo avvolti.

Luca Di Ciaccio

bruno mazzara

Cara Marilena, Cara annD,

vi ringrazio delle parole di apprezzamento che avete avuto nei miei confronti, e vi assicuro che non ho cambiato in nulla il mio modo di pensare e di agire; così come non è cambiata la mia stima personale e scientifica per Massimo Canevacci. Vi invito tuttavia a riflettere su alcune distorsioni che stanno avvelenando questo dibattito, originate dal modo in cui esso è stato impostato anche a seguito di una scorretta impostazione giornalistica iniziale ( e ciò è un'occasione per tutti per riflettere sul ruolo dei media).

La parte più consistente e più appassionata di questo dibattito riguarda il valore dell'insegnamento di Massimo Canevacci, e il fatto che gli studenti dei prossimi anni non ne potranno beneficiare. Sono personalmente lieto delle moltissime attestazioni di stima che egli sta avendo in questa circostanza, e non dubito delle affermazioni che molti fanno circa l'importanza che il suo corso ha avuto nella loro formazione scientifica e umana. Il punto è che della sua uscita dall'insegnamento la Facoltà non ha alcuna responsabilità. Il tono dell'articolo di stampa apparso tre giorni fa e il suo sciagurato titolo hanno marchiato tutto questo dibattito, con il risultato che molti interventi danno per scontato che la Facoltà sia responsabile del fatto che le prossime generazioni di studenti non potranno usufruire del contatto con un docente così amato. La verità è che Massimo andrà fuori ruolo per raggiunti limiti di età il 31 ottobre 2009, e in ciò ovviamente la Facoltà non ha alcun ruolo. Lui stesso ha riconosciuto che su questo argomento c'è stato un "fraintendimento" con la giornalista; eppure in moltissimi interventi si continua a parlare del suo "pensionamento anticipato". Su questo punto sarebbe stato a mio avviso opportuno un suo intervento chiarificatore. In ogni caso, se la Facoltà non avesse spostato l'insegnamento fondamentale di area antropologica al terzo anno, al massimo avrebbe potuto insegnare un altro anno.

A questo proposito vi segnalo un'altra circostanza di cui non si è detto finora: proprio per consentire a Massimo Canevacci di insegnare la "sua" materia fino a quando possibile, la Facoltà ha deciso (lo scorso maggio, ben prima che tutta questa vicenda cominciasse) di consentirgli in via del tutto eccezionale, considerato che questo sarebbe stato il suo ultimo anno di insegnamento, di replicare il corso di base, a beneficio di quanti non l'avessero seguito nell'anno passato. Dunque il prossimo anno il corso di Antropologia Culturale di Canevacci ci sarà, sia pure non indirizzato agli studenti di primo anno, ma comunque a disposizione di tutti quelli che vorranno seguirlo.

In definitiva, ciò che non mi sembra corretto è mescolare il dispiacere comune (anche mio) per la perdita di un così valido docente con la discussione, più ampia e complessa, sul rapporto tra le diverse anime di cui si compone il variegato mondo dei saperi antropologici. Massimo difende con passione il ruolo critico dell'Antropologia Culturale (con le maiuscole) rispetto a quello di altre discipline, approcci o punti di vista che pure fanno parte di quel contenitore che è il settore scientifico-disciplinare dell'antropologia (burocraticamente: M-DEA/01). A prescindere dalla validità di tale sua opinione (che ovviamente altri studiosi dell'area, afferenti ad altri approcci, potrebbero contestare), resta il fatto che la gran parte degli interventi fa riferimento non a questa problematica (cosa differenzia l'Antropologia Culturale dalle altre discipline del settore, specie sul versante dell'atteggiamento critico), ma alla qualità personale del docente, alla quale però, come ho detto, dovremo comunque rinunciare tutti per motivi anagrafici.

E vengo alla diffusione degli insegnamenti di area antropologica nei nostri curricula, in quanto non è affatto vero che esiste il solo insegnamento di etnoantropologia al terzo anno di una delle lauree. Nella nota a Repubblica non potevamo evidentemente fare l'elenco completo, né penso di poterlo fare qui ora; comunque si tratta di almeno 8 insegnamenti, per un totale di 63 crediti, distribuiti nei diversi anni dei corsi di laurea triennale e specialistica.

Come ho detto altrove, la cosa che più mi dispiace è che in questo dibattito un tema molto importante (la qualità e il ruolo degli insegnamenti antropologici, e la necessità di un approccio critico allo studio dei media e della comunicazione) sia avvilito in polemiche e fraintendimenti. Spero sinceramente il tutto si possa ricondurre in più sereni confini.

Bruno Mazzara

Anonimo

Carissimo prof. Bruno Mazzara
la ringrazio molto per la sollecitudine della sua risposta, mi chiedo però come può essere studiata e compresa nella sua interezza una specializzazione in ambito antropologico senza avere di base una conoscenza della disciplina, come dire faccio il chirurgo toracico ma della medicina di base so poco e nulla (?)
Mi rattrista anche che della grande capacità di sollecitare attenzione e passione debbano fare gli studenti dei proxx anni di sdc, ma mi sembra di aver interpretato correttamente le riflessioni di Maxx quando afferma che il lato dolente della questione è più il taglio alla AC che il suo pre-pensionamento.
La ringrazio ancora, con la stima e l'affetto che sento per tutti i proff che hanno contato nella mia formazione
annaD
p.s. sono anonima dunque niente lecchinaggi :-)
annaD

Anonimo

la tendenza a psicologizzare un FATTO SOCIALE (visto che il prof Mazzara insegnava a Sociologia come Canevacci) di enorme rilevanza, quale la messa all'angolo dell'antropologia culturale nella facoltà che ne ha beneficiato per anni (avesse canevacci insegnato le madonne e le indie di qua giù pochi comunicatori ne avrebbero tratto benficio) è assolutamente ideologica. Ecco, il modo per usare i media qui trova una sua piccola rappresentazione: informare nel senso di resa dei fatti dal punto di vista personale oppure girarerigirare parole titoli ed equivoci improduttivi. Mi pare che alla considerazione (per nulla radicale, direi banale) di canevacci per cui l'Antropologia culturale nella vostra facoltà sia sparita non ci sia una risposta altrettanto non radicale e banale. Cioè almeno dire che la facoltà fa a ameno dell'antropologia culturale come materia fondamentale perchè ha modificato la concezione della propria missione. Ecco, perchè non ci dite a che serve scienze della comunicazione? quali i suoi nuovi obbiettivi senza l'antropologia culturale?

Che Canevacci vada in pensione, di questi tempi è un bene per lui che potrà uscire dalle condizioni di assoluta indigenza conoscitiva in cui è messo lì in quella saletta di via salaria. Si dice che aumenteremo le ore di lavoro (certo voi che non siete più sociollllllogi ve ne fregate dei moniti e analisi di Gallino&Company) e che le pensioni diventeranno un miraggio. Caro prof Canevacci, pigliati la pensione e subito, afferra il malloppo e torna ancora una volta marrano. E però, resta eccome il problema dell'antropologia culturale come materia che fa la differenza. Lasciare la materia come fondamentale influenzerebbe e responsabilizzerebbe comunque chi verrà dopo canevacci. Quel che spero è che chi verrà dopo avrà il coraggio (xinxin) di partire proprio dalla questione del sapere e della sua distribuzione-riproduzione. E' di questo che si parla, non di pensioni e psicodrammi.
d.g.

luisa capelli

Dopo la nuova lettera di Massimo Canevacci inviata ieri alla facoltà e pubblicata anche qui, sento l’urgenza di scrivere nuovamente per ragionare su quanto sta accadendo in questi giorni. Le considerazioni che seguono riguardano un ambito più generale e uno strettamente personale (ma io sono ancora tra chi pensa che il privato sia politico…).

Non intendo qui tornare a discutere le scelte di politica culturale della Facoltà di Scienze della Comunicazione sulle quali ho già espresso alcune opinioni e su cui i contributi di tantissime persone, prevalentemente studentesse e studenti, continuano a mostrare, insieme alle critiche, le straordinarie intelligenze, sensibilità e opportunità presenti nella nostra università. Queste persone, queste intelligenze e sensibilità non possono attendere più la promessa dell’ennesima riforma di un sistema ostinato nella sua burocratica riproduzione, irrigidito in un apparato di vincoli più o meno ferrei ma sempre perversi, impermeabile al rinnovamento. Queste persone stanno mostrando qui e ora che un’altra università è possibile, anzi che esiste già là dove l’entusiasmo per la ricerca, la passione per la didattica e l’incessante pratica del confronto (e del conflitto fecondo) accendono quotidianamente e danno senso alle relazioni che dovrebbero regnare sovrane al suo interno. A loro, oltre che dare una risposta a Massimo (che ovunque sarà, continuerà comunque a svolgere il suo mestiere di ricercatore ostinato e irrequieto, di mentore esigente e indisciplinato) occorre offrire una sponda, gettando un ponte di dialogo e non di sordità o di paternalistico quanto inutile ascolto.
A tutti loro, l’unica risposta che è possibile dare – con dolcezza, come dice Massimo – è riconsiderare la decisione assunta di rimuovere l’insegnamento di Antropologia culturale. Nei tempi e nelle forme consentiti dall’iter di approvazione dei nuovi corsi di laurea, è molto importante che coloro che oggi detengono la responsabilità della decisione sappiano trovare il modo di agire in tal senso, prendendo in carico i giudizi a volte durissimi (ma rileggete alcuni commenti: non portano il segno di un’emotività confusa, sono ragionati e responsabili) che sulla facoltà sono stati dati, mutandoli in un’occasione di crescita e cambiamento positivo per tutti.
Saper cogliere tale opportunità, avviare le condizioni perché si attivi un dialogo all’interno della facoltà tra coloro che quel luogo quotidianamente abitano (studenti, docenti e docenti con responsabilità direttive), potrebbe rappresentare un segnale decisivo in direzione di una modalità diversa di relazione e costruzione delle decisioni, non solo per la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza.
Alcuni mesi addietro, nella Newsletter Italiana di Mediologia, Alberto Abruzzese, che la dirige, avviò un dibattito sullo stato dell’Università attraverso una lettera aperta all’allora neoministro Fabio Mussi. Si sviluppò un interessante confronto, ricco di numerosi e preziosi contributi (chi più chi meno sconfortato o fiducioso), ma con due tristi assenze, una delle quali solo oggi mi appare evidente: quella degli studenti. L’altra, quella del ministro, rappresentò purtroppo il riflesso di una modalità di governo che, insieme ad altre responsabilità, la passata coalizione ha duramente pagato con le recenti elezioni.
Può essere, l’assenza degli studenti, in quella circostanza, una delle ragioni per cui il dibattito si è spento e, oltre a non trovare audizione da parte del governo, si è anche chiuso all’interno di un gruppo di docenti o amici che condividono, più o meno, determinate posizioni? Quanto sta accadendo in questi giorni può mostrarci un percorso utile per ripensare ruoli e funzioni dell’istituzione universitaria, a prescindere (sì, a prescindere) da un ennesimo e probabilmente inutile progetto di riforma (qualsiasi sia il governo che lo promuove, sic!)? Nel corso di quella discussione, infatti, se posso sintetizzare in una frase ciò che veniva indicato per lo più come ragione del “collasso”, fu quel sistema perverso di potere in cui i destini di chi subisce sono legati a doppio filo a quelli di chi li somministra (come scrive Abruzzese nel suo commento alla lettera aperta), in cui l’introduzione di forme di sana meritocrazia nel reclutamento farebbero saltare i processi di riproduzione dei saperi (come dice Massimo) oltre che dei poteri di cui sopra, eccetera eccetera.
Ma se è così, e se quanto sta avvenendo dentro e fuori di questo blog in questi giorni può insegnarci qualcosa, è che ciò avviene a partire dalla relazione con il prof. Canevacci che gli studenti riconoscono come ricca di un senso speciale. Un senso che hanno imparato ad attribuire, attraverso l’insegnamento di Massimo, all’antropologia, ma che sappiamo non essere prerogativa di quella disciplina né di quella persona, quanto del modo in cui ciascuno di noi, se e quando si trova nei panni del docente, sente di poter performare a partire dalle proprie convinzioni, formazione, attitudini e capacità.
Allora, forse, è da qui che dovremmo ripartire: dalle relazioni con gli studenti, dal senso che esse ci restituiscono (quante volte e da quante persone ho sentito ripetermi in questi anni che uno dei pochi motivi di appagamento erano rappresentati dall’attività didattica) attraverso gli insegnamenti che abbiamo scelto di rinnovare (e non riprodurre, come dice Massimo) insieme a loro. E magari la prossima lettera aperta, anziché dirigerla verso l’alto la spediamo da molti luoghi a molti altri, in orizzontale…
A questo proposito, ha senz’altro ragione Bruno Mazzara sollevando la questione del ruolo dei media a proposito del titolo di uno degli articoli usciti in questi giorni sui giornali (ma diversi altri sono invece usciti con tutt’altra impostazione e sarebbe corretto darne conto), ed è anche per questo che abbiamo voluto avviare la discussione parallelamente su questo blog: perché fosse aperta, orizzontale, dialogica e non rischiasse di risultare schiacciata da una probabile lettura “giornalistica”. Non mi pare però che, per il solo titolo di un articolo apparso nelle pagine di cronaca locale di un pur importante quotidiano, si possa considerare “avvelenato” un dibattito che qui si è svolto in modo pacato e riflessivo, anche se pulsante di una grande partecipazione e solidarietà.
E continuare a concentrare l’attenzione sulla questione del pensionamento di Canevacci pare francamente pretestuoso, quando è evidente a tutti (compresi i tanti studenti che hanno scritto sul blog) come le questioni siano separate. Però qui vorrei porre una domanda, dal momento che si sostiene con grande energia l’ineluttabilità (visto il passaggio fuori ruolo per raggiunti limiti di età) dell’allontanamento di Massimo dall’insegnamento: se il passaggio fuori ruolo determina in modo irreversibile l’allontanamento dall’insegnamento, a che titolo tanti docenti ultrasettantenni continuano a svolgere la funzione docente (certo, con contratti ad hoc) nelle nostre università? Anche questo, pur essendo argomento che Massimo Canevacci ha voluto tenere giustamente ai margini di un ragionamento che attiene la politica culturale, dovrebbe essere un oggetto da maneggiare con cura maggiore, poiché può facilmente ritorcersi contro chi lo utilizzi impropriamente.

Concludo con una breve considerazione personale. Queste giornate sono state per me di grande tensione, sommandosi un periodo affatto semplice per la vita della casa editrice al tumulto di emozioni e decisioni condivise con Massimo Canevacci a seguito della lettera aperta. Ho pensato che quella lettera fosse un passo giusto e necessario e che potesse anche rappresentare un punto di partenza per una riflessione e discussione più generale sul destino della nostra università, per questo ho postato la lettera sul blog, per questo ho sollecitato (per quanto a me possibile) che si aprisse un dibattito in tal senso. Ma alla base della mia decisione di accompagnare Massimo in questa sua presa di posizione c’è anche la consapevolezza di rendere trasparente una relazione forte, tranquilla e determinata in cui l’amicizia appassionata e non condiscendente e la comune tensione intellettuale sanno di poter trovare continuo nutrimento. Questa relazione, comunque si concluda la vicenda all’interno dell’università, si è fortificata e ramificata, in questi giorni, e l’energia che possiede è un dono che faremo in modo non si esaurisca e possa essere ancora di utilità a noi, ad altre e altri.

Anonimo

a luisa capello non posso che dire grazie!
copio e incollo la sua lettera su tutti i blog che frequento

Anonimo

Caro PJ,
credo che la decisione sia in linea con quello che è l'andazzo della facoltà, ma più in generale dell'università italiana, trasformata oggi in strumenti di diffusione acritica del sapere che in possibilità di elaborazione critica del presente.
Il suo unico esame, unico che sfuggisse a questa logica, ad oggi è il mio unico 30.
Ormai sono prossimo alla laurea e il mio percorso di studi ho deciso - se sarà possibile - di proseguirlo con una laurea specialistica in editoria e scrittura che ricade sotto la facoltà di lettere e filosofia. Sempre più convinto che il sapere sia una cosa da ricercare e non solamente da tramandare.
La ringrazio perché a questa conclusione sono arrivato anche grazie ai suoi insegnamenti.
Andrea Oleandri

Anonimo

dire che il 30 di canevacci sia l'unico vero esame non è corretto, ho sostenuto molti veri esami con 30/30, e ad ogni contestazione in sede d'esame ho sempre reagito con calma e a ragione, sfidando il mio interlocutore a ritornare ai testi E HO VINTO

federica

a volte ci sono miopie per cui non esistono occhiali...gli studenti amano massimo per la sua passione e lasua dedizione,e grazie a lui si approssimano,ognuno seguendo il suo percorso, all'antropologia culturale...è di questo che stiamo parlando.La facoltà senza questa disciplina sarà più povera,la formazione di ogni studente subirà una grave perdita in termini di capacità di critica e di osservazione e penetrazione dei fenomeni culturali contemporanei.
Quale altra disciplina si occupa di offrire strumenti per avvicinarsi con sguardi multipli e molteplici a un mondo che, per fortuna, non si fa sempre più piccolo ma diventa sempre più grande e polifonico?Chi ci aiuterà a capire perchè le omologazioni e gli universalismi sono pericolosi e assurdi?chi ci aiuterà ad avere la volontà di andare oltre i numeri delle statistiche,delle ricerche quantitative che racchiudono gli uomini in percentuali di alfabeti e analfabeti secondo canoni a priori?Non certo potrà farlo una disciplina da un nome astruso...questo lo fa l'antropologia culturale,lo ha fatto Massimo Canevacci ma è bene che tutti, professor Mazzara, abbiano ben chiaro che Massimo lascia una grande eridità che ha saputo costruire con e insieme a studenti appassionati e sempre pronti a stupirsi.
Massimo andrà in pensione,ma la sua eredità libera e gravida deve rimanere nella facoltà attraverso il permanere dell'insegnamento dell'antropologia culturale,perchè credo che tutti debbano avere l'opportunità di imparare a guardare il mondo con molteplici e dislocati occhi.
E mi permetta di chiamare "farsa" il fatto di concederenla "ripetizione" di un corso per un semestre....l'antropologia culturale deve rimanere disciplina fondamentale della facoltà perchè il sapere si produca attraverso le sensibilità degli studenti,e non perchè si riproduca nelle stanche sessioni di esami che sono sempre più,e sempre più spesso ripetizione di vecchi schemi ormai scaduti.
VIVA L'ANTROPOLOGIA CULTURALE
VIVA LA CRITICA E LA LIBERTA'
Federica Scrollini

Anonimo

Di tutti i corsi seguiti finora ad SdC Antropologia Culturale è stato l'unico che mi abbia dato davvero l'impressione di essere all'università. Laddove per Università si intende luogo che differisce da una camera di obitorio per via della vita.
Oggi non si può che essere glocal.
Il cattivo gusto però non è ammesso comunque. Tantomeno la senilità accademica. Se scompare AC le matricole inizieranno a ritirarsi dal primo semestre. Propongo una manifestazione sotto le finestre di Via Salaria. Se qualcuno ha già qualche idea e si sta muovendo faccia sapere qualcosa qui.

Anonimo

francesco, c'è da capire se quelle finestre siano o no vere, disegnate con effetto ottico tipico della "comunicazione" contemporanea in cui l'antropologia è relegata al terzo "piano", sorta di torre medioevale dove rinchiudere i tesori e i rompicoglioni.
al massimo potremmo ridisegnarle....se morcellini trova lo sponsor rischiamo di prendere pure dei soldini.

Emanuela Vinci

Laureata ormai da anni, devo tanto all'antropologia culturale e al prof. Canevacci che ha saputo, sempre con grande passione, trasferire a tutti noi, più che delle banali nozioni, direi proprio l'amore e il desiderio per e dell'altro. Non ho mai ben capito se il fascino di questa materia fosse innato e prescindesse dalla persona che la comunicava. Ad ogni modo si trattava per me di una droga. Amavo ascoltare quelle lezioni e le ricordo sempre con grande nostalgia, come un vero e proprio momento di crescita e di apertura.
Sono tanti anni che non mi relaziono con il mondo accademico; spero comunque che le nuove generazioni che intendono cimentarsi nello studio della comunicazione abbiamo la stessa grossa opportunità che ho avuto io.
In bocca al lupo (ai ragazzi, si intende!)

eleonora83

Quando mi sono iscritta alla Facoltà di Scienze della Comunicazione nel 2002 l’ho fatto con grande decisione, forte della consapevolezza di iniziare un percorso di studi nuovo e soprattutto interessante. Ho studiato con passione e con sacrificio durante questi anni, cercando sempre di aprire la mia mente e di guardare al di là dei programmi specifici di ogni esame. Per anni i nostri professori, ci hanno insegnato che la comunicazione si deve intendere ad ampio raggio, come qualcosa che investe la nostra vita sociale, che modifica le nostre abitudini culturali, ed ogni singola disciplina presente nell’offerta formativa di questa Facoltà credo ne abbia dato una piccola o grande dimostrazione. Per me la comunicazione è anche un territorio di ricerca, dove ci si incontra figurativamente per dare vita ad un laboratorio sperimentale costantemente in fermento; attraverso l’interazione con esseri umani o con le macchine si scopre un po’ di sé e un po’ degli altri. Anche se sono giunta alla fine del mio iter, non ho abbandonato l’idea di mettermi in gioco nell’ambito universitario e sto concludendo una tesi che, apparentemente, ha come campo d’indagine un mondo virtuale, ma in realtà è me stessa che ho “usato” nel momento della ricerca, la mia fisicità e la mia emotività. In questa fase finale, vagando per i molteplici ambiti disciplinari in cerca dell’approccio che mi desse la possibilità di vedermi in prima persona inserita nei nuovi contesti immateriali, digitali, innovativi e con tutte le altre caratteristiche che trovo scritte in ogni testo (e ipertesto ;)), una sola disciplina ha rapito la mia mente, l’antropologia culturale. “un concetto “fluido” di comunicazione, diventa una convincente metafora della società moderna” si legge sul sito della nostra Facoltà a proposito della mission, e se è vera, come è vera, quest’idea perché troncarne la concretizzazione? Perché non continuare a credere fermamente nell’apporto di ogni singola disciplina introdotta nell’ordinamento degli studi e proporre, addirittura, l’abolizione di una materia come l’antropologia culturale? Credo di esprimere un giudizio obiettivo e non influenzato dalla mia personale esperienza con la tesi, se scrivo che i legami tra antropologia e comunicazione sono talmente tanto forti da potersi toccare con mano e che, eliminando l’antropologia culturale dalla nostra Facoltà, si dia dimostrazione di chiusura mentale, di poca lungimiranza e di rigidità culturale: credo sia inaudito che concetti del genere possano essere riferiti all’Ateneo più grande d’Europa, in una Facoltà di Scienze della Comunicazione, nel 2008, a Roma.

Anonimo

Cari tutti e caro Massimo -

Grazie per avermi incluso nella recipient list della tua comunicazione, che mi ha sorpreso come acqua fredda di primo mattino, ammetto. Visto che manco da 11 anni dall’Italia mi si perdonera’ l’uso misto di Inglese/Italiano ed un Italiano malconcio…but hopefully neither will impact la limpidezza del contenuto, che esporro’ graficamente in pieno rispetto di alignment principles di visual design as appropriate ;-)

Preliminarily, I’d distinguish neatly da un punto di vista analitico, so to speak, tra facts e factoids
- “Massimo va in pensione” e
- hanno spinto Cultural Anthro di un certo tipo (preciso) nel sottoscala innocuo dei labirintici portici sinistramente ombrati da sempre dalle varie storie politiche succedutesi nel corso di oltre vent’anni a Via Salaria.
But.
Nel luogo esperienziale, ove fatti esterni e vissuto individuale inevitabilmente si mischiano entro entro le mura delle vite di noi-io-voi, posso ammettere che le ombre di uno (factoid) si mischino a quelle dell’altro (fact), e vice versa…oh well. it is what it is.

I’ll first lay out the official regret.

Mi spiace davvero di vivo cuore per gli studenti che non potranno avere tale rich source to learn to think critically about themselves (reflective anthropology), others and the world in which they live avendo Antropologia Culturale come fondamentale dal primo anno.
Loro non potranno mai condividere cose come quelle che io esperimero’ di seguito, o come altri hanno espresso in altri commenti in questo blog.

Il torto piu’ grande e’ storico. Proprio uno degli aspetti di cui andavo cosi’ fiera come differenziale tra universita’ Italiana e Statunitense a livello undergraduate e’ svanito. La criticita’ e la qualita’ dell’insegnamento nei curricula di base (e.g. I “fondamentali”).

Neutralizzando le discipline che invero hanno un potenziale critico non si permette la crescita di un pensiero critco, ergo di cittadini critici.
E sappiamo tutti bene che il docente detta il tono/qualita’ del contenuto alla disciplina insegnata. Si puo’ insegnare meccanica quantistica in modo banale e piatto, cosi’ come la si puo’ insegnare di modo da influenzare il pensiero critico degli studenti.

Nulla di originale nelle mie affermazioni, dunque non fingiamo di accoglierle come eccentricita’ o opinion unique.

Canevacci e’ uno dei pochi in Italia – se non l’unico che si colloca in un indirizzo della disciplina antropologica a livello mondiale che si chiama – anche in ambiti accademici – Antropologia Critica (Critical Antropology). Quanti altri esempi simili avete in Italia?
Nella risposta giace il danno che si sta perpetrando. Che anche se non si verbalizza, si conosce bene.

Il torto infine non e’ a noi passati studenti, ne’ a Canevacci.
E’ agli studenti attuali che vien fatto. e’ ai futuri cittadini votanti dell’Italia. E’ ad individui che hanno appena fatto una scelta quest’anno.

E sopratutto, tramite queste acrobazie dialettiche infuse di tante puntualizzazioni di forma nella speranza di alleviare il contenuto, cosi’ tipicamente Italiani, e’ alla radice etimologica stessa del termine “educatore” che questa decisione fa torto. Cioe’ non fa onore al ruolo di educatori di coloro che hanno contribuito alla decisione in questione.

Proprio quando questo momento storico – certamente negli Stati Uniti, e piu’ che certamente in Italia – non dovrebbe deprivarsi di tali strumenti critici ma aumentarne il peso, la presenza e l’opportunita’ d’impatto.

Che bello vedere Vincenzo (Padiglione) dire qualcosa.
Che brutto vedere Bruno Mazzara (con cui diedi Psicologia Sociale quando era ancora Ricercatore a Sociologia appena divenuta facolta’ indipendente) giocare di retorica, puntualizzare e a fatica tentare colorare di tinte neutre l’operato che si e’ rivelato cosi’ clamorosamente non volute dalla popolazione studentesca passata e presente, che non e’ sufficiente raggirare giocando con le parole ad un’audience non facile da confondere. Il potere cambia molti. Non tutti, ma molti.
E che brutto non vedere altri docenti di Antropologia Culturale pronunciarsi in alcun modo.
Insegnano tutti Antropologia Critica costoro?

La classe accademica in Italia incude timore…ma avendo lasciato sia l’Italia che il mondo accademico non ho nulla da temere esprimendomi onestamente (che rarita’ in Italia!) come Product e Business Strategist per Microsoft, che rappresento in questa sede cosi’ come alla conferenza nazionale di AAA (American Anthropological Association).

Detto cio’ di cui sopra, paso a condividere la mia esperienza, che puo’ interessare leggere ad alcuni e non ad altri.

La mia prima reazione alla lettura della lettera aperta e’ stata istintivamente invece molto personale: ho sentito parte di chi sono rinnegata e negata, both. 22 anni fa approcciai Massimo Canevacci, allora Ricercatore della Cattedra di Antropologia Culturale II (M-Z) alla facolta’ di Sociologia con l’intenzione di fare la mia tesi nella sia disciplina, con particolare fuoco sull’ …etica.

Dopo poche conversazioni e mia risposta negativa to Massimo’s question “ma sei proprio decisa che vuoi fare la tesi sull’etica? E’ davvero la tua passion?” ta-ta’! … plan changed e credo di essere stata la prima tesi di Massimo su Gregory Bateson (potrei errare), semiotica e surrelismo – letterario (Bataille) e visuale (Miro’), allora presentata da Tullio Tentori e Marianella Sclavi come correlatore.

22 anni fa comincio’ tutto. Quante memorie, ricordi, nomi, persone, tristezze, rimpianti, momenti, battaglie. E quanti bei momenti con gli studenti collaborando con la cattedra di Massimo.

Quantomaquantomaquanto apprendere che “la verita’ e’ per essere criticata” e…quanto apprendere che - aggiungerei, a volte bisogna “tradire per essere fedeli”.

Non credo di avere “appreso” nel senso che ho indossato un vestito di conoscenza (knowledge-base), ma mi sono immersa in un’acqua molto fredda o molto calda …in sapori, odori, credos, words, books, images e colori …e ci ho imbevuto il mio pensiero (Massimo, non credo fosse solo intelligenza) a tal punto che I due son inevitabilmente cresciuti insieme and it all morphed the (my) way I exist in the world …to borrow a Geertzian phrasing style.

Dire che l’Antropologia e’ parte della mia identita’ sarebbe misleadingly (and purposefully) vague per tutti noi che sappiam bene quante sub-disciplines, applications, schools of thoughts e forme che questa puo’ avere.

Non avrebbe fatto parte di me se non avessi avuto la Massimo-Antropologia though, indeed. Invece …come un kite mi ha portato via…in Europa, e poi negli Stati Uniti. Ha un po’ pilotato la mia vita ed all’insegna di che l’ho volute vivere. La medesima, ingrained as ever in my bones, ha fatto si’ che lasciassi il mondo accademico (non necessariamente puramente universitario) dopo avere approdato i cicloni Clifford e Haraway…ed aver deciso che …mmmmh…non volevo donare altri anni della mia vita ad una “fede” …. cosi’ ho seguito il medesimo kite, che mi ha condotto a cercare di applicare l’antropologia – chi sono e cio’ in cui credo – ancora una volta alla mia vita …ed il mio lavoro…qualsiasi esso sarebbe stato … in modo assai pratico, storico, realista, non utipistico, nel mondo reale, quello dei soldi, delle corporations, del global e del local.
Adorno’s daydream? Or Adorno’s paradox? Adorno’s regretted sad extremization? Schismogenesi Batesoniana? Recreation of “used/abused (anthro)pologists for the hegemonic valules or evil western corporations”? Nope. Blatantly simplistic analysis. Anacronistica. Come tale ineffective. Shall I keep incarnating the “critical mind” and make business and people’s needs dialectically dialogue? Shall I be proud and keep on pushing to make impact and hope that Microsoft or IBM - who employ us - are not being “laid off”, come l’Antropologia Culturale a Via Salaria e’ stata laid off?

I’d just leave the question |marks.

Non tutto lascia marks. La MaxxAnthroeXperience did by impacting people’s lives.

Evidently and visibly – ref. il continuo ruscello di pensieri che happily covered this blogriver bed.

I hope to leave my mark incorporating those marks in my work and life.

… e visto che le credentials vedo che ancora contano tanto in Italia, eccole…

Eliana Martella, Ph.D.
Sr Product & Business Strategist,
Microsoft Corp.

MaxnoMax

Non sempre il canto del cigno,
prelude alla sconfitta,
alla ritirata
dall'estrema battaglia.
Io vivo con te questa sensazione,
questa negazione del pensiero,
senza nessun'altro aggettivo.
Eppure vivo, respiro e sento
l'antropologia ogni giorno
dentro la complessità del mio attuale lavoro.
Ma la reazione incombente,
la regressione verso
il fantasma del presente
spingono all'esilio.
L'autolalia mediatica,
la riproduzione incestuosa
dei cliché e dei sacerdoti
del sapere accademico
producono mummie
e statue di cera
Non sempre il canto del cigno
parla di una fine.
Per quanto doloroso,
i veri perdenti sono
le facce senza faccia
degli imperatori bizantini
che non conoscono Bisanzio.

Anonimo

Gentile Prof. Mazzara,
ho seguito in questi giorni questo dibattito.
Vorrei portare la sua attenzione su quanto già detto da molti: prescindendo dai tempi di pensionamento del Prof. Canevacci, NON ci possiamo permettere di perdere l'insegnamento di Antropologia Culturale nella facoltà di comunicazione.
E non può e non DEVE esistere altra denominazione per questo insegnamento.
Ho una grandissima stima per lei e per i suoi insegnamenti, che ho seguito con enorme interesse, oltre che per il prof. Canevacci. Mi auguro soltanto che lei, nel ruolo che la facoltà le ha assegnato, raccolga le voci che chiedono il mantenimenti dell'Antropologia Culturale, senza rincarntarla sotto un'altra falsata denominazione...
La ringrazio per l'attenzione.
Barbara Bussolotti

MaxnoMax

A Massimo Canevacci, Da Massimo Furiani
Dal 1983, o giù di lì, che ci conosciamo. Io ti proposi allora, con la mia ingenua voglia di martirio, una tesi sul "prestigio accademico". Avevo ancora il fuoco sacro della gioventù imbelle. Poi sviammo sulla moda vestimentaria. E fu sperimentazione, sofferenza prolungata alla ricerca, nella ricerca di uno sguardo obliquo lungo percorsi di conoscenza non omologanti. Quasi dieci anni dopo, il dottorato di ricerca in antropologia culturale delle società complesse. Che nome pretenzioso per quel fiore nato secco. Altri dieci anni e la mia conversione sulla strada della poiesis, della creativià tout court. non accademizzabile. Ed ora la tua lettera aperta. Le facce senza faccia continueranno ancora, nell'ebbrezza del potere, a genuflettersi, credendosi invincibili. Ma noi "minoranze non minoritarie" con l'orgoglio degli invitti non sappiamo, non vogliamo, non possiamo piegarci.
Restiamo "canne al vento.

Anonimo

ragazzi allora cosa si è deciso nell'incontro del 4 a sani per la manifestazione?? io non sono potuta intervenire allora si fa o no? fatemi sapereeee

marzia

Anonimo

Io trovo assurdo che Canevacci si sia permesso di accusare una professoressa in gamba e grande storica come Simona Colarizi di essere "responsabile del post-colonialismo storico"! Ma stiamo scherzando? Canevacci ha accusato sia lei che Mazzara di aver dichiarato il falso su Repubblica ma qui stiamo andando troppo oltre! ok antropologia è un bel corso ed è importante per la formazione del comunicatore ma da qui a lanciare accuse così velenose e pesanti ce ne passa. per me ac deve restare ma credo che il prof dovrebbe scusarsi per aver infangato in quel modo i colleghi. poteva benissimo andarci ai consigli e far sentire le sue ragioni quando era il momento! Che ora non si lamenti e moderi le parole verso docenti ricercatori e professionisti che valgono quanto e più di lui!

Anonimo

seguo questa questione molto da vicino e solo adesso ho deciso di scrivere,perchè?
perchè quello che sta succedendo mi sta sbattendo in faccia la realtà in cui sono immersa da tempo e per me è molto difficile rimanere lucida,
ma lo farò perchè è grazie all'antropologia che io, studentessa 21enne riesco ad osservare e a partecipare, a posizionarmi anche in questa complicata situazione che..cme dice luisa MI STA A CUORE..
è vivendo e respirando antropologia che sono andata avanti in questi due anni di SDC, altrimenti..come ho già detto a Massimo..avrei abbandonato sicuramente la facoltà, non ho intenzione di ripetere cose dette e ridette, ne tantomeno scrivere quanTo grande sia la mia stima per massimo, per il suo lavoro e per tutte le persone vicine alla cattedra che..senza esagerare, mi hanno cambiata profondamente e continuamente, dalla prima lezione, all'esame..all'esperienza in Brasile passando per il seminario continuando ogni giorno..
Il ritorno dell'AC a SDC secondo me è solo un primo obiettivo da raggiungere per poi lavorare costantemente ad un obiettivo molto più grande, quello di rendere l'UNIVERSITà VIVA e pronta a riposizionarsi continuamente dando spazio alle soggettività delle quali è , o dovrebbe essere colma..soggettività che a loro volta potranno uscire fuori dall'università pronte e piene di voglia di fare, creare, ascoltare, partecipare e vivere ogni giorno con stupore e curiosità , pronte a mettere in discussione tutte le certezze e le presunte verità che ci vengono imposte.
quello che vorrei tanto è che questa visione della didattica non rimanga una caratteristica dell'antropologia, ma che tutti i docenti, tutti gli insegnamenti, i corsi, gli esami, i seminari..tutto ciò che entra a far parte dell'ambito universitario
cambi ,guardando verso prospettive più ampie e che riconosca a pieno le possibilità, gli interessi, e le volontà di ogni studente rendendo l'università un motore attivo di saperi e pensieri attivi e creativi...
non è un discorso di una sognatrice questo, ma di una persona che si sta rendendo conto che grazie alla volontà e alla passione si possono raggiungere grandi obiettivi attraverso percorsi meravigliosi.
Martina Leo

Anonimo

caro alessandro,
scusa se scrivo il mio primo commento a questo straordinario blog partendo da te (e mi riprometto di scrivere più a lungo e più in generale in altra occasione(.
guarda che io non ho mai offeso nessuno. se tu hai letto la mia mail che sta in cima, come spero, ho svolto una critica basata su questi punti:
1. dal ritorno da una missione in giappone per fare delle conferenze in una unversità di tokyo ho saputo che avevano tolto antropologia culturale.... la mia materia! l'antropologia che ho insegnato per tanti anni, così, senza che nessuno mi abbia mai detto nulla.

2. nello stesso tempo mi avrebbero affidato una materia - "comunicazione interculturale" che non è di mia competenza e che avrebbe senso solo all'interno di AC e sulla quale ho già scritto sui forti dubbi legati a tale titolo - al 3.o anno di "cooperazione e sviluppo". bene la mia critica a questo corso e a quella materia non è rivolta a nessuna singola persona: secondo me, questa titolazione di un corso di laurea si colloca nella continuità di un tardo-colonialismo. spero che tu sappia che la nozione di "sviluppo" è stata ed è criticata fortemente da tutti gli studi post-coloniali a partire dal grande franz fanon recentemente riscoperto. e che la cooperazione è un concetto che aiuta e finanzia i "cooperanti" molto più che gli "altri". che "esportare" democrazia, economia, modelli culturali è per me molto opinabile.
trovi offensive queste critiche? veramente trovo triste che nella nostra facoltà ci sia un corso di questo tipo. e che finora nessuno (io compreso) abbia detto nulla.

e infine: trovi democratico che il preside usi il sito della nostra facoltà per pubblicare le sue dichiarazioni? così nella home page? è questa democrazia comunicazionale? è questa l'università all'interno della quale può vivere la comunicazione?
noi abbiamo fatto un blog all'interno di una appassionata casa editrice specializzata in antropologia, studi culturali, post-coloniale. abbiamo parlato con tre giornali, fatto diverse video-interviste anche su youtube. pubblicato su molti altri blog che hanno ospitato le nostre osservazioni. calme, tranquille, dolci e ferme. non voglio, anzi, nessuno vuole litigare nè aggredire nessuno. portiamo avanti una critica di politica culturale che ha un obiettivo: rimettere antropologia culturale dove merita: al primo anno di SdC.
massimo canevacci

Anonimo

> Ritengo l'incontro con l'antropologia culturale del prof una tappa della mia vita fondamentale, una di quelle cose che segnano: la scomparsa di un amico, diventare un fuorisede, il lavoro duro nella psichiatria. In questo caso invece, inizi a seguire le lezioni del prof. Canevacci. Di solito trovi vicino o studenti che non vedono l'ora di uscire dal viaggio o gli altri, quelli che dopo un iniziale smarrimento, fanno dello sapesamento di se stessi la metodologia con cui affrontare gli studi perchè ti accorgi subito che non si tratta di lezioni depositarie ma sono critche e costruttive.
> Faccio parte di quest'ultimi che sono riusciti a far propri concetti quali dialogica, reciprocità, autorappresentazione, meticciato. Mi impegno affinchè questi diventino gli strumenti con cui sempre più persone possano leggere la realtà ma soprattutto agirla soggettivamente.
> Ora basta.
> Ritorno a scrivere la tesi
> Pierluigi

Anonimo

Uniroma.tv ha intervistato oggi il prof. Massimo Canevacci. L'intervista è nell'home page di www.uniroma.tv

Anonimo

x Bruno Mazzara

Su una cosa siamo d'accordo, non si tratta di singole persone, ne di simpatia; ma di cosa si intende per università e per comunicazione.

la prima per me significa, senza schiacciarsi nella pragmatica ne nell'utopismo, formare professionisti ed elaborare un pensiero critico e divergente. Antropologia al primo anno facilità entrambe, ti aiuta ad entrare nei flussi della comunicazione senza perderti e con occhio "smaliziato". A chi lo desidera offre la possibilità ulteriore di una riflessione più profonda.

per la seconda un aspetto fondamentale è di sicuro l'ascolto.
Gli studenti, ex ed attuali, cosa dicono? cosa dice chi dovrà studiare o ha studiato quelle materie? forse con l'emotività di qualcosa di inatteso, che per loro l'antropologia (non solo il prof.Canevacci) sono di fondamentale importanza.
Lo fanno parlando di emozioni e persone perchè è più semplice che parlare di concetti maggiormente astratti.
ma il punto resta tutto. dove è l'ascolto?
Io posso dirle questo: gli studenti con cui parlo io adorano tutti l'antropologia, quelli che non la amano pensano cmq che li ha costretti a riflettere. I seminari di antropologia per quello che vedo... Le Tesi non mi sembrano manchino
Ci sbagliamo tutti? scegliamo tutti qualcosa di spostabile al terzo anno dopo averlo completamente snaturato?

E visto che è uso dichiararsi. mi dichiaro così. adoro l'Antropologia e ho profonda stima di chi me l'ha insegnata.
Ma se invece dell'Antropologia, qualcuno volesse eliminare i suoi corsi sarei ugualmente incazzato; prova ne è che con lei per scelta diedi i primi esami

cordiali saluti a tutti

Nemo

Anonimo

Ohi ma sta manifestazione si fa o no???

Anonimo

Salve a tutti,

a Massimo Canevacci e Luisa Capelli, agli studenti e a quanti si sono espressi fin'ora su questo blog, contribuendo all'analisi e all'azione di questi giorni: metto anche io il mio pezzettino.
Sono laureata in scienze della comunicazione, non a Roma e col vecchio ordinamento.
Ho fatto antropologia culturale come fondamentale, scelto come opzionali antropologia visuale e teatrale, studiato antropologia della metropoli in Belgio durante l'erasmus. ne consegue che ho trovato nell'antropologia un percorso significativo. Nonostante questo il mio contributo riguarda in modo relativamente parziale l'antropologia, non ritenendo in ogni caso di avere le necessarie competenze per sostenere una discussione specifica.

Della lettera di Massimo, che ho letto e ricevuto fin dai primi giorni dandone diffusione, quello che mi è entrato nelle pelle, quello che ho sentito, sia come ex studentessa sia come multividuo (questo maxx, tuo malgrado è un concetto incorporato che chi ti ha conosciuto si porta inevitabilmente dietro!), è l vicenda di AC nell'ateneo romano come "sintomo" di un atteggiamento e di tendenze che non riguardano purtroppo solo l'università: i sintomi manifestno la presenza di una malattia, ma non "sono" la malattia. Allo stesso modo il problema sollevato da Canevacci non riguarda l'anropologia "in sè" o la presenza di un'etichetta in più o in meno nella miriade di corsi possibili: si tratta piuttosto di una volontà di mettere in discussione un modello complessivo di insegnamento (e quindi direttamente e indirettamente una determinata visione politica e culturale), non solo schiacciata sull'esistente, ma funzionale a produrre professionisti di settore "anestetizzati", pronti a inserirsi nella catena produttiva (o meglio ri-produttiva!) della comunicazione.

Questo per quanto mi riguarda è un punto cruciale e corrisponde a realtà (fuori e dentro gli atenei), sorvolando su inutili polemiche che riguarderebbero i tentativi più o meno veri di "berlusconizzazione" in corso: polemiche fuori tiro e di cortile che non si confrontano con problematiche per loro natura "globali".
nello specifico, il problema riguarda sia la scelta delle materie, sia (e soprattutto) come si apprende: un'università che voglia essere realmente contemporanea deve mettere in dicussione e ristrutturare il suo modello di apprendimento, diventando una potentissima struttura abilitante, di filtro, di tutoraggio fra studenti e sterminato potenziale di conoscenza oggi a loro disposizione. In quest'ottica tutti i percorsi formativi diventano possibili e "personalizzabili" e mi turba sempre con la stessa forza vedere come l'economia di mercato riesca a ad "concepire" e a sfruttare concetti come questi (oggi le aziende puntano alla partecipazione, usano le community e hanno cancellato il termine "clienti/consumatori" in paroline molto più cool e di moda...), mentre istituzione come l'università di rifanno ancora a parametri "al chilo" dell'epoca industriale.

questo, prof., mi fa inkazzare più di tutto!!!

Chiudo con uno zoom extra-locale con uno puntato al futuro.

zoom extra-locale.
si è parlato di questa SdC orientata verso il settore editoria e giornalismo. proprio grazie a te 2 mesetti fa xDxD ha fato una lezione all'università nel tuo corso di specialistica e io sono andata a riprendere tutto con la telecamera. bene, nei 15 minuti di pausa, grattando con uno stuzzicadenti la superficie dei ragazzi sono venute fuori un sacco di cose interessanti. primo agli iscritti era stata garantita l'entrata nell'albo dei giornalisti professionisti, promessa che si è dileguata lasciando tutto sotto un (in)decoroso silenzio. Secondo tutti lamentavano il fatto che il mercato editoriale è estremamente saturo, quindi poche possibilità di inserirsi; che si erano iscritti a corsi pensando di partecipare a laboratori, risultati poi inesistenti; che la loro corsa all'esame e alla raccolta dei punti era quantomeno frustrante e che vivevano salvo eccezioni il periodo universitario per avere un "certificato" da spendere.
Questa è l'università che ho trovato io il soli 15 minuti di interazione limitata e superficiale con i ragazzi: una piccola chicca. Alla fine della lezione abbiamo chiesto se qualcuno conoscesse il consorzio Nettuno: solo un ragazzo ha alzato la mano.
un bel paradosso: l'università non conosce i ragazzi e i ragazzi non conoscono l'università.

zoom sul futuro.
Guardo ad una specie di fase 2, dove si ragiona in modo lucido e lungimirante su strategie che possano da un lato valorizzare le energie liberata da questa vicenda e dall'altro che riescano a canalizzarle proponendosi come modalità aperte, contemporanee, percorribili.

abbracci e adesso basta che ho scritto troppo!

Oriana Persico

Anonimo

Alcune note parziali.
Penso sia mio dovere - oltre che un grande piacere - dare alcune informazioni a tutti coloro che stanno attenti all’elaborazione di questo blog.

Sulla base di un invito rivoltomi ieri da Bruno Mazzara, sono stato convocato dalla facoltà per trovare una soluzione reciprocamente soddisfacente per AC e SdC. Ci tengo a sottolineare come Mazzara sia stato l’unico docente della nostra facoltà a postare il suo punto di vista. Questo è stato un segnale costruttivo di quello che si può intendere come “sfera pubblica digitale”. Tra noi vi sono appassionate affinità, chiare divergenze e tante zone intermedie nel modo di intendere una università che sia in grado di penetrare le complesse sfide che la contemporaneità offre alla comunicazione.

Sulle procedure, più volte ho espresso il rammarico per il mio limite di non essere stato presente alle riunioni di settore che hanno elaborato i nuovi corsi di laurea. A mia parziale scusa, devo dire che avevo questa illusione: che la questione dell’AC non fosse di “proprietà” di chi insegna tale materia. E che la forza euristica, compositiva, sperimentale del metodo etnografico applicato alla comunicazione e alla cultura fosse un patrimonio di tutti.

Non è stato così.

Per questo, appena il nuovo quadro didattico si è chiuso, ho sentito il dovere di aprirlo. Da tale scelta è iniziata questa nostra straordinaria esperienza partita da quella lettera pubblica, che poi ha attraversato quotidiani, molti altri blog, video-interviste su youtube, tante discussioni personalizzate. Un esempio emozionalmente cognitivo sul come fare comunicazione.

Vorrei sottolineare come la scelta di rendere pubblica la mia lettera sia stata eccentrica rispetto a quello che è lo stile implicito della gestione accademica. Da qui le critiche basate su “questo non si fa” … “non è questo il modo di dire le cose” … “i problemi si affrontano in altre sedi” ecc ecc..

Eppure a me sembra che il problema sollevato dalla lettera e da tutti noi è enorme: non è solo connesso all’Antropologia Culturale sì o no; il problema di fondo investe il senso della politica culturale della nostra facoltà di SdC. Se la comunicazione si debba restringere tra media e giornalismo o se si debba aprire a tutto quello che da tempo si sperimenta nella comunicazione specie digitale: dove linguaggi, culture, sensorialità si intrecciano secondo modalità transitive che coinvolgono il ricercatore.
Non solo. Da tale problema emerge anche il tipo di rettore adeguato al nostro ateneo, dopo la clamorosa incapacità dimostrata dal rettore uscente in generale e in particolare nella sua clamorosa subordinazione al vaticano, all’interno della quale è riuscito ad anticipare le sconfitte politiche di Veltroni e Mussi. E infine si arriva alle nuove scelte legate all’università in cui il peggiore dei governi possibili sta gettando irreversibilmente il nostro paese. Su questi temi la nostra facoltà non può non avere un interesse enorme per come collocare il proprio posizionamento scientifico: che si fa direttamente politico e su cui è auspicabile aprire la discussione.

In parzialissima conclusione, aspettiamo che le trattative iniziate costruttivamente arrivino a una soluzione operativa nel prossimo consiglio di facoltà. E fin d’ora vorrei abbracciare tutti - nessuno escluso – coloro che hanno scelto di partecipare a tale discussione nelle autonomie soggettive di ciascuno. Altro che eterodirezioni incanalate…

E la Meltemi.

Questa piccola/grande casa editrice, nella persona di Luisa Capelli (oltre che di tutte le collaboratrici e collaboratori), ha dato una lezione magistrale di come si possa coniugare impegno editoriale, scelte politiche e culturali scomode, collocazioni testuali fuori-corrente, pubblicazioni post-coloniali, di genere, urbanistiche, antropologiche che dovrebbero essere alimentazione quotidiana per una facoltà come la nostra. E per chiunque voglia praticare comunicazione e politica.
E allora che l’antropologia possa continuare a essere irrequieta, dislocante, anticipatrice, viaggiatrice, desiderante, appassionante.
massimo canevacci

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salve Prof.,
anche io volevo esprimere la mia indignazione per questa scelta di eliminare l'antropologia dalla facoltà di scienze della comunicazione. Ho già sostenuto con lei quest'esame, anzi, è stato il primo esame che ho sostenuto entrando all'università, e mi aveva colpito talmente tanto che ricordo di averle detto: Prof. Canevacci, posso fare la tesi con lei? Lei ovviamente mi disse che ancora c'era tempo, ma per quanto ero rimasta affascinata da questo studio, son stata anche tra i ragazzi che hanno proposto quella splendida esperienza in Brasile, anche se poi per problemi dell'ultimo momento non son più potuta venire. Credo che sia veramente grave eliminare un'insegnamento come l'antropologia proprio nel 2008, proprio quando tale studio, soprattutto nell'ambito della comunicazione e soprattutto per chi, come me, ha intrapreso questa facoltà senza esser sicura di volersi buttare esclusivamente nel rigido mondo del giornalismo, diviene qualcosa di fondamentale, qualcosa da cui davvero non si dovrebbe prescindere.
Abolendo l’antropologia culturale dalla nostra Facoltà, si da prova di chiusura mentale, e di rigidità culturale, proprio in una città come Roma, in cui sono sempre più visibili i fenomeni globalizzazione, ma soprattutto glocalizzazione: credo che l'antropologia nell'università sia una delle poche discipline in grado di spiegarci questi fenomeni in quanto incontro con l'altro, in quanto rispetto sia per i popoli ormai inseriti nella nostra cultura, ma anche per i soggetti diasporici, che pur non assumendo la nostra tradizione ci portano le loro esperienze. E' inaudito, per quanto mi riguarda, eliminare l'unico insegnamento che meglio ci rende l'importanza di questi processi di ibridizzazione, importanza che proprio nella nostra epoca non dovremmo sottovalutare.
Spero di cuore che questa vicenda si concluda nel migliore dei modi, spero che all'interno della facoltà vengano considerate tutte queste riflessione che emergono spontaneamente da noi studenti. Io, le dico onestamente, sarò ingenua, ma ancora ci credo!
La ringrazio per l'attenzione, e la ammiro profondamente.

Luciana

Anonimo

Bene. Ora che Canevacci ritiene conclusa la sua negoziazione (spero solo che – andando lui in pensione tra un anno – tutto questo non abbia altro risultato di dare spazio a una antropologia che non piace a lui quanto non piace a me), forse è arrivato il momento di potere fare una discussione seria.

Per spiegarmi: sono molto deluso della sostanza del dibattito, tranne che per pochi interventi tra i quali Valeriani, Speroni, e la stessa Luisa Capelli. Mi sarei aspettato che Canevacci funzionasse da detonatore non per un caso singolo ma per le questioni che affliggono l’università italiana in generale e ciascuno dei suoi atenei. Strabiliante che tutti siano invece intervenuti solo per la pur meritevole intenzione di essere solidali con un docente per loro brillante e affascinante.

A questo proposito, siamo di fronte addirittura a un vero e proprio ‘case study’ relativamente alla natura dei blog, i quali a meno che non godano del “botto” dei grandi media, restano una conversazione tra affiliati. Ci sarebbe da discutere sulle magnifiche sorti della rete.

In secondo luogo, nell’insieme, questo dibattito mi ha convinto della pericolosità di docenze avulse da qualsiasi reale contesto istituzionale. Detto fuori dai denti, ci sono due modi di insegnare e stare all’università: uno è quello di preoccuparsi della “bontà” del sapere, e fregarsene sostanzialmente del futuro degli studenti (tanto più quando questi abbiano qualche speranza di entrare a insegnare e a fare ricerca nell’Università); l’altro, al contrario, è quello di rendere i contenuti del proprio insegnamento adeguati al sistema in cui ci si è assunti la responsabilità di svolgere una professione. Avevo accennato a un tema costante di polemica intellettuale con Massimo, che di fatto ha a vedere con quanto sto dicendo: il tipo di trasgressività sociale da lui affidato ai linguaggi della creatività metropolitana (o post-metropolitana o anti-metropolitana che sia) è già tutto risolto e consumato negli anni Trenta del Novecento. Questa è la dura realtà. Se poi ci sono istituzioni che per impianto e visione della didattica e delle discipline non sono andate oltre l’Ottocento, questo è un altro problema. E grave.

Veniamo dunque al versante serio che la discussione potrebbe avere. Propongo uno spunto: qualsiasi attuale azione fatta con buone o cattive intenzioni dalle istituzioni universitarie ha in questi anni la scusante (vera o presunta, forse più vera che presunta) della restrizione di mezzi economici, l’umiliante realtà di una Università abbandonata a se stessa. Mi colpisce la qualità dello scontro – anche questo non sempre limpido – tra chi rivendica la centralità della formazione e della ricerca per le sorti di un sistema civile (e produttivo) e chi si mostra insensibile ma allo stesso tempo in grado di dimostrare l’effettiva carenza di mezzi (naturalmente ci sarebbe da discutere sul perché di questa carenza, sul perché di sprechi all’esterno e non solo all’interno dell’università, di quali sono le responsabilità e quali i reali motivi). Possibile che a nessuno – sia ai governi precedenti, sia agli atenei di ieri e di oggi, con tutte le loro organizzazioni verticali e orizzontali – venga in mente di inchiodare la discussione non su come e perché pretendere 100 lire da chi te ne offre solo 10, ma su come impiegare quelle 10 lire in modo totalmente diverso? Mentre stiamo da anni litigando sui soldi, nessuno pensa a che cosa bisogna inventarsi per mandare all’aria l’attuale sistema universitario, il quale non funziona da anni e sulle sue attuali basi non potrà mai comunque funzionare quali siano i soldi che gli venissero elemosinati (vedi anche il dibattito sorto intorno al libro “L’università di fronte al cambiamento” a cura di Roberto Moscati e Massimiliano Vaira).

Credete che basti per riaprire la discussione?
Alberto Abruzzese

Anonimo

Mi sembra che Alberto Abruzzese non si renda fino in fondo della portata di ciò che giustamente scrive. Se infatti ci sono "istituzioni che per impianto e visione della didattica e delle discipline non sono andate oltre l'Ottocento" questo non è un ALTRO problema, ma IL problema, ovvero la posta in gioco. L'innovazione più importante di Canevacci non consiste in un "tipo di trasgressività sociale da lui affidata ai linguaggi della cretività metropolitana" e come tale "già tutto risolto e consumato negli anni Trenta del Novecento", ma, come ho osservato in un intervento percedente, l'assunzione di una metodologia sperimentale che fa tesoro del portato delle arti sperimentali, secondo un tracciato che ha i suoi precursori in Gregory Bateson e Walter Benjamin e la sua eredità ad esempio, ma non solo, in quel filone di antropologia critica caro a Canevacci. Oggi le istituzioni possono pur tollerare qualsiasi contenuto, anche "trasgressivo", ma non quelle rotture e innovazioni sul piano metodologico che un rapporto fra antropologia e comunicazione all'altezza dei tempi può dare.

Anonimo

"Mentre stiamo da anni litigando sui soldi, nessuno pensa a che cosa bisogna inventarsi per mandare all’aria l’attuale sistema universitario..."

mi permetto di farle notare semplicemente che mandare all'aria l'attuale sistema universiatrio Italiano, vista la sua stretta natura politica, implica mandare all'aria il sistema polico.

Per il resto lascio ad altri la risposta, sottoscrivo la parte relativa ai blog ed aggiungo solo che nell'adeguarsi, per quanto possa essere una necessità pratica, si nasconde di per sé una parziale rinuncia ad un ruolo "critico" dell'università che mi sembra elemento fondamentale da cui partire.

nemo

Anonimo

Il post di Abruzzese sposta già di per sé l’ambito del dibattito su un livello di maggiore consapevolezza politica. Tuttavia, quando l’ho letto ero in procinto di postare questo mio, e anche se sviluppi di maggiore complessità potrebbero adesso farlo apparire ormai inutile, invio comunque al dibattito queste mie riflessioni, come abbraccio verso Maxx.

L’ intervento di Canevacci postato ieri sera “in parzialissima conclusione” mi sollecita a scrivere di nuovo, dopo che il tono tumultuoso della marea di interventi (studenteschi e non solo) aveva di fatto relegato ai margini il mio punto di vista sulla vicenda.
Approfitto invece della prospettiva verso una qualche soluzione “operativa”, come Maxx lascia intravedere, e interpreto il suo post come chiusura di una fase e, possibilmente, apertura di una discussione meno passionale e più orientata all’analisi politica del problema.
Questo potrebbe forse comportare la fine di una unanimità plebiscitaria e l’inizio di un dialogo tra voci anche dissonanti, per far chiarezza insieme su temi di estrema importanza.
Quando ho scritto, a caldo e quasi per prima, che il pensionamento di Maxx mi sembrava più grave di una eventuale azione contrastiva nei suoi confronti, toccavo un item di responsabilità politica di cui nessuno – o quasi - è sembrato accorgersi. Intendevo dire che, specialmente se si leggono le cronache politiche in termini di necessità di resistenza a ogni tentativo restaurativo “del potere” (magari implicitamente assimilando la situazione italiana, e non solo dell’università, a quella di paesi sudamericani), la cosa più grave è mollare. Il pensionamento potrebbe non entrarci, come tutti sembrano pensare, se esso fosse una cosa ineluttabile, oggettiva, irrimediabile. Ma tutti sappiamo che così non è. Tutti sappiamo, e Luisa Capelli nel suo secondo intervento lo accennava – sia pure rilanciando la possibile decisione agli organi di governo della Facoltà – che è possibile avere dei contratti di docenza oltre i limiti d’età, a pensionamento avvenuto. Ma la decisione di Maxx di abbandonare il campo purtroppo sembra precedere di molto l’ostacolo della pensione; anzi, da come si è svolto il dibattito, da quanto lui stesso ha scritto per precisare le dinamiche intercorse tra lui e la Facoltà nella fase antecedente alla sua lettera aperta, si evince che quella del pensionamento è una copertura “istituzionale” per un abbandono che appare anzitutto interiore e politico.
Nessuno dubita infatti che lui continuerà a scrivere, ad insegnare, a stimolare tutti con la sua impareggiabile creatività scientifica e didattica. Il guaio è che non sembra avere intenzione di continuare a farlo a Scienze della Comunicazione. E questo sì, che è grave. Il fatto che, nel corso dei due anni in cui si è elaborata la riforma del corso di laurea, lui non abbia partecipato alle riunioni, a mio avviso nasconde un non-detto, che lascia perplesso chiunque conosca un po’ Maxx, la sua vitalità, il suo modo di fare ricerca, le sue capacità ibridative su diversi terreni. Nel post se ne scusa, ma il dubbio resta. Chi lascia ad altri la gestione senza intervenire con i mezzi a sua disposizione per modificare eventuali rapporti di forza avversi, chi non combatte politicamente, spesso finisce con l’avere torto. Se quanto si stava ventilando nelle commissioni ad hoc era contrario alla sua visione del problema, Maxx avrebbe dovuto sollevare la questione, sentire la voce dei colleghi del suo ambito disciplinare, eventualmente cercare di bloccare ogni velleità di segno contrario. Se non lo ha fatto, se non ha interloquito con nessuno dei suoi colleghi perché prendessero a cuore la riforma, è forse perché in quei colleghi antropologi (e affini) non aveva magari reali interlocutori … come la loro assenza dal blog sembra confermare. Se anche gli antropologi di Scienze della Comunicazione parlano un’altra lingua dalla sua, se i colleghi in genere parlano lingue diverse – tranne i pacati tentativi di mediazione di Mazzara, tutti tacciono, e magari qualcuno attacca - forse in cuor suo Maxx si stava già auto-pensionando. E questo mi sembra più grave, lo ripeto, di ogni eventuale, o ventilata, guerra ai danni dell’AC. Grave, come è stato grave che Abruzzese si trasferisse a Milano; grave per gli studenti, per la Facoltà, per il fare politica culturale in genere. In questo senso sì, il pensionamento pare anche a me pretestuoso …
Insisto su questo punto, perché mi sembra che aiuti a spostare il discorso da un piano ideologico, dove purtroppo si è rintanato, ad un piano politico. Invece di arroccarsi sull’ideologia dell’importanza di AC, è il piano politico che occorre privilegiare. E giustamente lì lo pone Abruzzese nei suoi due interventi, e Capelli riproponeva, citando il blog sulla NIM di qualche tempo fa.
La mia posizione di docente a contratto mi pone in condizioni di estraneità istituzionale; il mio punto di vista non ha alcun peso. Però posso manifestare solidarietà, come ho fatto sul blog per prima (e unica, con Speroni, tra i proff. a contratto di SdC), senza timore di espormi a logiche di potere: noto tuttavia che sono lontani i tempi in cui il desiderio riusciva a muovere le cose, e che tutti abbiamo imparato quanto sia vero che il potere logora chi non ce l’ha. Tuttavia il punto centrale, a mio avviso, non è stato toccato dal dibattito di questo blog, se non da Abruzzese e Capelli, e andrebbe invece affrontato. Infatti, secondo me non si tratta di difendere una disciplina rispetto ad altre, ma di interrogarsi sui modi del reclutamento delle docenze, sul sistema dei concorsi, degli affidamenti, dei contratti, sul legame tra progetti culturali di Facoltà o di Dipartimento e persone fisiche che quei progetti possono realizzare. Nessuno pensa soggettivamente che la propria materia sia poco importante, credo … L’importanza oggettiva è data però dalla posizione negli ordinamenti; ma quegli ordinamenti, se prevedono AC al primo anno, non specificano se e come e da chi debba essere insegnata… Le norme sono generali, indicano l’area, non se al primo anno è necessario conoscere il doppio vincolo di Bateson o le tarantolate di De Martino, se a insegnare debba essere il prof. X o il prof. Y. E naturalmente le norme partono dal presupposto che tutte le materie siano strumenti di allargamento della mente, apertura all’Altro, ecc.
Mi sembra che la difesa a oltranza di AC diventi un falso problema. Mi sembra che lamentare che AC venga tolta dal primo anno di corso eluda un problema squisitamente tecnico (?) di poteri tra le diverse cattedre, di poteri tra diverse aree, di difesa dei propri spazi e delle proprie poltrone, su cui non mi stupisco che intervenga adesso il responsabile nazionale dell’Associazione Antropologi: associazione di studiosi/baroni che non hanno mosso un dito per promuovere il prof. Canevacci da ricercatore a docente, quando cioè avrebbero dovuto fare spazio al loro interno a qualcuno scomodo, mentre ovviamente partono lancia in resta se quello stesso qualcuno offre la sponda per rilanciare il proprio ruolo, che equivale a potere in termini di posti, cattedre, fondi … Gli Antropologi, tutti, non hanno mosso un dito per la carriera di Canevacci! Come si fa a difendere una disciplina che non si riconosce nel prof. Canevacci al punto da escluderlo dai propri ranghi ufficiali? Come si fa a difendere una disciplina i cui rappresentanti in Facoltà non si sentono minimamente solidali con lui? Cos’è in Italia l’AC, Canevacci o gli studiosi di santi e madonne? Forse che gli studenti che hanno fatto l’apologia di AC nel blog avrebbero fatto lo stesso se invece che di metropoli comunicazionale al loro primo anno avessero sentito parlare di tarantolate? Non la disciplina in sé, ma la novità assoluta costituita in quel panorama (italiano, certo!) da Canevacci, ha ammaliato gli studenti! Perché Canevacci la interpreta nel senso della cosiddetta Nuova Antropologia, quella legata agli attraversamenti dei nuovi media, quella dei Clifford, dei Bateson, dei Bhabha, dei Rosaldo… Una Antropologia che si interroga come etnografie, al plurale. Quell’oltre che gli studenti colgono, e che dovrebbe essere parte del loro diritto allo studio, non è affatto oggettivo, costitutivamente inerente alla materia, e se lo si afferma lo si fa ideologicamente, vale a dire senza confrontarsi con la dura realtà. E la realtà è che l’Antropologia di Canevacci è pressoché un unicum in Italia; è deviante, irrequieta e dislocante, soprattutto rispetto al mainstream dei suoi baroni. Dunque nessuna norma può garantire allo studente quell’oltre. L’oltre può forse balenare dietro i myselves di Canevacci … Ma cosa accadrà quando lo studente del primo anno, andato in pensione lui, si ritroverà un’AC interpretata da chiunque i meccanismi di potere accademico dovranno o potranno trovare, al posto di Canevacci?
Una Antropologia che continui a occuparsi di santi e madonne, di tarantole e tradizioni popolari può ben stare in un percorso di nicchia, al terzo anno … Ma come si può stabilire, a livello ufficiale, che “quella” antropologia, e non un’altra, venga insegnata al primo anno, se a decidere sono i profili accademici, le carriere, i ruoli, e questi sono assegnati da un sistema di potere sul quale i desideri degli utenti contano zero? Dovrebbe valere la priorità istituzionale fascia A, fascia b, fascia c? Tutti sappiamo che si tratta di un criterio che non garantisce un bel nulla, ma chi nel blog ha parlato di questo?! Se valesse alla lettera, forse Maxx non avrebbe neppure insegnato tanti anni, nonostante la sua passione autentica, e il suo posizionamento all’interno del panorama scientifico accanto ai grandi centri di ricerca mondiali. Ma questo è un problema che non riguarda solo SdC! Riguarda l’Università nel suo complesso, e per questo il problema è politico!
Come si fa a trincerarsi dietro la difesa ideologica ad oltranza di una disciplina, quando addirittura, nonostante i tanti anni di “militanza” di Maxx al suo interno, nessuno dei baroni antropologi si è sentito mai in dovere di spendere un concorso per riconoscergli i meriti accademici che tutti i suoi studenti, i suoi ammiratori non-antropologi, i suoi colleghi ESTERI, gli riconoscono all’unanimità?
Dà garanzie di attenzione all’Altro, apertura all’osservazione delle culture, capacità di superamento delle identità, una disciplina che di per sé difende a spada tratta i suoi santi e le sue madonne, i suoi riti popolari, e non si sente neanche “toccata” dalle ricerche di un Canevacci, non gli dedica attenzione neanche dopo vent’anni di lavoro?
Dovremmo cercare di fare chiarezza, anche con gli studenti, perché prendano bene la mira nelle loro rivendicazioni. Non sto denigrando AC, sia chiaro: una materia vale l’altra, una denominazione può valere l’altra. E’innegabile la necessità di riaccorpare le aree di studio, perché l’attuale ordinamento è troppo dispersivo e favorisce l’appiattimento sull’esistente: dunque, meglio grandi generiche denominazioni (che lasciano al docente libertà interpretative) piuttosto che parcellizzazioni di corto respiro. Però il problema non è AC sì o no, è Canevacci al primo anno sì. Anche dopo il pensionamento, nonostante il pensionamento. Il problema è che uno studioso scomodo (e perciò sommamente necessario) come Canevacci vada in pensione perché, non essendo ordinario, ha più bassi limiti del pensionamento. E che uno studioso come Canevacci non sia ordinario, è o no un problema politico? Che le strutture di potere accademiche siano tali che, pur avendo a disposizione un Canevacci, non possano continuare a fregiarsi del suo contributo, perché ufficialmente non può forse diventare “emerito” … questo non è politico? Riflettiamo: è l’AC in sé che contrasta le rivendicazioni identitarie, o non piuttosto i sé fluttuanti proposti da Canevacci, i myselves, i bodyscapes, la stupita fatticità, le performance mix-media che rendono esperienze indimenticabili le sue lezioni? Allora problema politico è rivendicare, opporsi ad un sistema perverso di potere che nega a Canevacci identità accademica di antropologo (l’area di riferimento di Maxx, come docente, non è la tanto difesa DEA, ma l’SPS08 …) e lo manda in pensione perché non è ordinario; politico è che Canevacci non rallenti la tensione della lotta contro ogni riforma politico-culturale di retroguardia, per abbandono di campo prima del fischio dell’arbitro.
Ricordo bellissime riunioni di redazione, ai tempi di Avatar, in cui si discuteva sui titoli dei fascicoli, e sulla definizione dei campi di indagine … Antropologia da sola non funzionava, era più chiaro il campo se si parlava di “dislocazioni tra antropologia e comunicazione”. Ricordo come si accentuava la differenza tra ciò che è logos, e ciò che è grafos, come si preferiva etnografie (al plurale) rispetto al sistemico Antropologia. Bei tempi! L’AC sta stretta a Canevacci almeno quanto lui è “alieno” all’Antropologia di casa nostra…
Luisa Valeriani

luisa capelli

“Spostare il dibattito su un piano di maggiore consapevolezza politica”: l’avvio del commento postato questa mattina da Luisa Valeriani (e anticipato da quello di Alberto Abruzzese di ieri) muove da alcune valutazioni che non condivido.
Tali valutazioni sono, più o meno, sintetizzabili in questi punti (e scusami, Luisa, se la sintesi farà perdere l’interessante articolazione del tuo ragionamento, per me preziosa):
1. La marea di interventi degli studenti ha “difeso” un docente, e la materia che insegna, confondendo i due piani, in modo passionale e ideologico.
2. Tale difesa ha perso di vista il vero obiettivo “politico” che è il rinnovamento dell’università.
3. Il rinnovamento dell’università deve avvenire dall’interno, utilizzando le forme e i luoghi deputati (consigli di facoltà e/o incontri tra docenti, interventi su media “legittimati”, ecc.).
4. Utilizzare luoghi e forme diversi, linguaggi anomali e soprattutto esercitare un’energia comunicativa altra, ottiene sì attenzione, ma su istanze sbagliate o laterali.
5. Canevacci, non avendo partecipato come avrebbe dovuto ai momenti deliberativi preposti alla definizione delle scelte per attuare le modifiche all’ordinamento, si è automaticamente collocato nel torto, o quantomeno la sua posizione solleva un dubbio.
6. Il sottrarsi di Canevacci a quei momenti deliberativi rappresenta in qualche modo l’anticamera del suo pensionamento, fotografia di un disagio che ha portato altri ad andarsene prima di lui.
Proverò a esprimere in maniera altrettanto sintetica il mio pensiero, proponendo, punto per punto (ma in ordine inverso), le riflessioni che mi hanno condotto a condividere la posizione espressa nella lettera aperta di Massimo e quanto ne è seguito in termini di relazioni sviluppate con lui e con tanti suoi studenti presenti e passati.
6. E’ certo che Canevacci, come altri, viva profondamente il disagio derivante da un sistema universitario nel quale gli spazi di esercizio critico si riducono progressivamente; è altrettanto certa, e nota, la sua “idiosincrasia” per quei momenti di discussione in cui molti di noi si sentono totalmente (sottolineo il totalmente) privi di un effettivo potere di intervento e modificazione delle scelte; piuttosto che contestare a lui le assenze (che siano o meno motivate dalle sue attività di ricerca conta fino a un certo punto) a quelle discussioni, sarebbe opportuno ragionare sulla loro effettiva utilità (nell’università che ha stipulato un contratto di insegnamento con me, per esempio, per sciogliere alcune riserve riguardanti i requisiti minimi dei corsi, si è dovuti ricorrere a procedure ed accordi del tutto estranei alle riflessioni sulla coerenza dell’offerta didattica); da ciò consegue il mio continuare a considerare il pensionamento di Massimo un evento laterale: volendo, come in altri casi, si possono trovare soluzioni per evitare che lasci la Facoltà.
5. La mancata partecipazione di Canevacci a quelle istanze deliberative dovrebbe sollevare un dubbio sulla loro reale capacità di svolgere una funzione democratica, piuttosto che collocare automaticamente chi si sottrae a esse nel versante del torto (o del dubbio sulle sue intenzioni); ma qui forse il problema è costituito dal fatto che chi si sottrae pretenderebbe per sé una “purezza” cui invece gli altri hanno voluto o dovuto rinunciare poiché, come si dice, il sistema è questo e non puoi starci dentro a metà…
4. Rivendicare un’eccentricità rispetto alle istanze deputate, utilizzare insoliti canali comunicativi, agire un rapporto diverso con i media, implica rischi personali e politici enormi, non ha rappresentato (chi conosce Massimo di ciò non può dubitare) un’ansia di protagonismo né tanto meno l’affermazione di una “purezza” inesistente; ha cercato, piuttosto, di sollevare un “caso” perché si potesse avviare una discussione di politica culturale, e lo ha fatto a partire da sé, da uno scacco subito sulla propria pelle piuttosto che “buttarla sul generale” rischiando per l’ennesima volta di restare inascoltato (così come inascoltate rimangono le voci critiche che periodicamente si levano sul nostro mondo accademico); è un percorso inconsueto, non penso si tratti di un percorso sbagliato: i risultati che può ancora produrre vanno secondo me esplorati.
3. Sono convinta che forme e luoghi “deputati” per l’esercizio della democrazia (nell’università come nelle altre istituzioni nel nostro Paese) siano drammaticamente inadeguati a rendere conto delle posizioni, più o meno critiche, non omogenee o non interne a quegli stessi luoghi; la difesa di quelli, come unici luoghi praticabili, è anacronistica e cieca rispetto a una realtà che quotidianamente ci insegna altro (non penso sia necessario ricordare la solita tv, ma quanto conti quell’egemonia lo stiamo pagando, e caro, da un pezzo…).
2. Come si rinnova l’università? Certo il problema non è solo come spendere le risicate risorse a disposizione (e Abruzzese ha posto ben altro ordine di questioni nella lettera che citavo in un mio commento precedente); certo non la si rinnova solo modificando le leggi esplicite che la regolano, come dimostrano gli effetti delle riforme con le quali ci misuriamo da qualche anno; temo non si possa rinnovare neppure mettendo in piedi nuovi comitati di saggi illuminati; penso che se non si spezza quel sistema perverso cui abbiamo fatto riferimento in molti, in questo blog e altrove, qualsivoglia ipotesi di cambiamento non potrà che restare lettera morta; ma quel sistema non si riesce a disfare dall’interno: va svelato e denunciato utilizzando le risorse che abbiamo a disposizione, teste e cuori di persone che non temono di mettersi in gioco, luoghi e circostanze che mutino in consapevolezza e battaglia collettiva umiliazioni e costrizioni individuali (iniziamo, cercando e costruendo consenso attorno a questa ipotesi, smettendo di lamentarcene in “separata sede”? smettiamo di fare il gioco di questo perverso sistema, rifiutando laicamente il vincolo per cui “solo chi è senza colpa può gettare la prima pietra”?); ma l’università si rinnova anche e soprattutto restituendo valore alle sue funzioni primarie: formazione, ricerca, produzione della conoscenza…
1. Queste funzioni Canevacci ha sempre esercitato con passione e autorevolezza, gli studenti lo riconoscono e sono disposti a battersi per difendere l’antropologia che attraverso Massimo hanno appreso ad amare; la solidarietà straordinaria che si è sviluppata non è inconsapevole delle implicazioni politiche più generali, non è irrazionalmente affascinata dal prof irrequieto e dislocante, vuole proprio esprimere la difesa di quella antropologia, quella insegnata da quel prof, e che dovrebbe essere insegnata anche altrove; la difesa di quell’insegnamento, con quel nome, non ignora il principio di realtà, cerca di spostarlo altrove, ne fa il simbolo di un sapere libero e vicino; guardate il blog e il gruppo di facebook nati in una settimana ( http://antropologiaculturale.wordpress.com/ http://www.facebook.com/group.php?gid=31701162568&ref=mf ) per comprendere quali energie straordinarie si siano liberate attorno a tale obiettivo; chiamare ideologica questa posizione non vede quanto essa sia invece legata a una pratica condivisa, a relazioni ricche di senso, a passioni attraversate con sincerità e generosità; se non le vediamo, e chiediamo a questi giovani di uniformarsi a linguaggi e percorrere luoghi a loro estranei perderemmo tutti un’altra buona occasione.
luisa capelli

PS: Su quanto Massimo ha scritto nel suo ultimo commento a proposito della Meltemi non posso che ringraziarlo, con un grande sorriso...

Anonimo

Condivido pienamente l’intervento di Luisa Capelli. Volevo esprimere alcune considerazioni circa l’intervento dei professori Abruzzese e Valeriani. Lo faccio posizionandomi da studente “autoincanalato” nei flussi universitari di scienze della comunicazione a Roma. Sono, mio malgrado, un veterano della facoltà. E faccio parte della “marea emotiva” di studenti sedotti dall’antropologia culturale di Massimo Canevacci.
Non ritengo che la nostra emotività possa essere liquidata come deludente abbassamento del livello del dibattito. Al contrario, credo che sia un nodo centrale della questione. Afferma la possibilità di un rapporto orizzontale e profondo tra docenti e studenti. Conferma la rivoluzione didattica e relazionale realizzata dalla cattedra di antropologia culturale. Evidenzia la pluralità straordinaria di frames glocali e soggettivi fioriti dal metodo e nella disciplina che Massimo Canevacci insegna – con passione – da più di venti anni.
L’ esprimere emotivamente e non solo a freddo i nostri pensieri è , per me, un valore aggiunto carico di potenziale umano. Non viviamo l’antropologia culturale e il rapporto con Massimo con distacco. Lo viviamo intensamente, perché intensa è la rivoluzione che metodo e disciplina hanno portato nelle nostre ottiche, vite, posizioni personali e al contempo politiche. La nostra solidarietà alla persona e alla causa è libera e convinta. Nessuno di noi è stato iniziato a una religione messianica o accecato da forme antropomorfe di divismo. Dai nostri commenti addolorati, stupiti, ironici, militanti, alcuni spunti, mi pare, emergono con chiarezza:

1-La ferma convinzione che antropologia culturale debba rimanere bagaglio indispensabile degli studenti del primo anno, e non solo, dei corsi di laurea in scienze della comunicazione.
Antropologia culturale - intesa come apertura ad ogni alterità possibile, dentro e fuori dall’io – è nella realtà contemporanea indispensabile. Fornisce un approccio critico alla verità immobile degli stereotipi, fondamentale vista la qualità della nostra informazione . Spinge alla conoscenza diretta degli altri, imprescindibile in un clima di surriscaldamento globale in cui c’è chi parla di scontro di civiltà – esprimendo un condensato di razzismo e essenzialismo culturale spaventosi. E’ una chiave di lettura efficace per afferrare gli scapes attuali che si muovono fluidamente attraverso identità molteplici, nuove forme comunicazionali, transiti digitali. Apre spazi concreti d’approfondimento, di dialogo e ricerca su temi che spesso restano costretti tra silenzio delle auto rappresentazioni e ferocia di etero rappresentazioni stereotipe e sterili.
In un paese dove il Presidente del Consiglio, del Milan e di Mediaset ( tralasciando il settore editoriale), sottoscrive una legge aspramente xenofoba per etichettare le impronte digitali di bimbi rom e la Ministra alle pari opportunità, Mara Carfagna, ha affermato che gli omosessuali italiani non sono discriminati c’è un disperato bisogno di antropologia culturale.

2- Il dolore e la rabbia per l’imminente uscita di scena di Massimo.
Ci iscriviamo all’università per mille ragioni diverse, ognuno con i propri sogni, le proprie speranze, le proprie incertezze. Spesso nel corso di studi scopriamo che la realtà è intrisa di poteri e di forme di dominio. Ci sono correnti e alleanze, simpatie e antipatie, rivalità, frustrazione. Scopriamo ad esempio che in Italia è difficile diventare giornalisti senza raccomandazione. E’ difficile ottenere dottorati senza raccomandazione. E’ difficile fare carriera senza l’appoggio giusto. Senza la giusta corrente. Massimo è scomodo. E’ scomodo perché è un outsider del sistema. Lo critica liberamente e lucidamente. Dentro e fuori. Massimo è pericoloso. Pericoloso per le reti plurali e polifoniche create con colleghi e studenti. Il nuovo metodo d’insegnamento potrebbe diffondersi e sradicare le vecchie mappe del dominio, ibridandole con nuove prospettive. Per questo forse la facoltà preferisce perdere un suo fiore all’occhiello conosciuto e ammirato in tutto il mondo. E per evitare che altri proseguano su quella strada, si chiude anche la cattedra i cui collaboratori dovranno migrare altrove. Nessuno di loro, ormai “orfano”, potrà diventare ricercatore senza l’appoggio di un altro padrino. Peccato.

3- Quanto ai luoghi opportuni, alle sedi corrette,etc., trovo almeno singolare che la decisione di eliminare a.c. sia stata assunta, in una fatale riunione, nel momento in cui Massimo si trovava in Giappone con alcuni studenti a rappresentare, presso università estere, la stessa istituzione che, con buona pace di tutti, lo stava di fatto liquidando!
Dinamiche di potere. Dinamiche ideologiche o politiche? Io trovo che l’ideologia, nel senso etimologico del termine, sia alla base di qualsiasi concreta progettualità politica. E anzi mi spaventa il vuoto ideologico attuale. L’ideologia, come visione trasparente e dichiarata, è un bene perché esprime l’ottica di uno sguardo, un punto di vista. La temo se si cela e si fa obliqua, nascondendosi, ad esempio, dietro burocrazie che qualcuno definiva gabbie d’acciaio.
E’ il futuro la nostra posta in gioco come giovani e come studenti. Il futuro della nostra formazione, della nostra capacità critica, delle nostre possibilità di scegliere. Il ripensamento del sistema universitario non può e non deve prescindere dagli studenti. Siamo noi che viviamo l’università, che la sovvenzioniamo generosamente. Abbiamo fatto da cavie per il 3+2 e vorremmo esprimere il nostro parere quando si ridisegnano i nostri percorsi di studio. Le nostre voci parlano, provate ad ascoltarci.
Con trasparenza ideologica e emotività politica, Stefano Firrincieli.

Anonimo

Leggo con interesse i post di Abruzzese e Valeriani. Prima di tutto dico che la discussione portata avanti finora non è da ritenersi poco importante: il posizionamento politico culturale di studenti e studiosi concretizza la vera forza dell’antropologia culturale , non gli articoli sui giornali o i gesti politici di personalità influenti (che tra l'altro sono venuti a mancare in un mutismo generalizzato). Nessuna manifestazione, nessuna raccolta di firme, nessun attacco violento a chi ha preso le decisioni. Semplice posizionamento . E questo va già oltre le logiche dei consigli di facoltà a Sdc e in generale di quell'Università che critichiamo come inadeguata e conservatrice. Le scalfisce dall'interno e implicitamente le mette in discussione.
Perché l'assenza e l'ostentato disinteresse (falsissimo) degli altri docenti in questa discussione é parte di un atteggiamento più generale (quoto Abruzzese “preoccuparsi della “bontà” del sapere, e fregarsene sostanzialmente del futuro degli studenti”) che ha come conseguenza diretta la formazione di studenti sostieni-esami, colleziona-crediti, ma a volte anche solo comodamente compra-libri. E in questo blog, questi studenti, non ci sono stati; c'è stato qualcosa di diverso. Sono sicuro che ci sono docenti che vorrebbero anche scrivere qui per confrontarsi in un dialogo aperto con studenti e intellettuali (perché è questa la vera potenzialità di questo blog) ma non lo fanno per tacito consenso obbligato al mainstream di facoltà che sostiene che questo non è il luogo adatto dove discutere. Lo sono i consigli di facoltà dove il consenso è corale e l'accesso è via via ristretto a chi ha piú potere (tutti , associati e ordinari, solo ordinari). Lo sono gli incontri tra docenti dove si vanno a ribadire le relazioni di potere che si diffondono capillarmente attraverso assistenti, dottorandi, studenti. Non esporsi in pubblico sebbene chi scriva qui sia molto interessato al confronto, è un esplicito gesto politico.
Come spendere quindi quelle “10 lire” in modo totalmente diverso? Il problema non è immediatamente economico. La mia sensazione è che ancorare gli studenti ad corso di studi vincolante da una parte produce eccessiva libertà di comportamento per le cattedre e i docenti (sicuri della loro posizione, possono permettersi posizionamenti subalterni, corsi incolore, chiusura al dialogo) dall'altra relega gli studenti a semplici utenti della facoltà (e permette loro di lamentarsi continuamente di esami farsa e corsi malfunzionanti accettandoli con indolenza). Perché non dare agli studenti la responsabilità di scegliersi un piano di studi non totalmente vincolato dalle cattedre presenti in facoltà? Perché assicurare il numero fisso di frequentanti a cattedre piatte che rimangono frequentate solo a causa dei crediti che hanno il potere di elargire? Perché accettare la definizione di “scienze della comunicazione” imposta di volta in volta dal corso di studi caratterizzante di turno? I modi in cui intendere la comunicazione sono molteplici, e solo uno studente può conoscere quello particolare che puó diventare la vera cifra del suo corso di studi. Sono uno studente triennale sdc e mi sono trovato a seguire corsi ad architettura, antropologia e al conservatorio per portare avanti la mia idea di comunicazione. Questi corsi non hanno riconoscimento nel mio piano di studi, così nel frattempo sono costretto a “prendere crediti” in materie che a volte trovo per me inutili. E così la mia laurea in sdc sarà il titolo solo di una parte (che a volte sento come minoritaria) del mio corso di studi. Ma l'università non vuole lo studente responsabile e posizionato criticamente perché significherebbe mettersi in profondamente in discussione a partire dai rapporti politici e di potere tra le cattedre. Impedire agli studenti il posizionamento è alla base del potere di prendere decisioni irresponsabili come quella di eliminare il corso di Massimo Canevacci, sicuri che chi arriva al primo anno a Settembre non può fare altro che seguire il corso di studi imposto. E allora torvarci Leschiutta, Sarnelli o Fabietti in persona non fa alcuna differenza.
Mi sembra chiaro a questo punto che il fatto che questa discussione nasca dalla antropologia critica ha un significato politico-culturale . E l'assenza qui di molti docenti che pure ho stimato in questi anni ha un senso politico. E il posizionamento di tutti gli studenti qui nel blog ha un fortissimo senso politico .
Giuseppe

Anonimo

Il commento del Prof. Abruzzese e' spunto per riflessioni davvero di largo respiro. Una possibile domanda di partenza potrebbe essere quale e' il ruolo dell'universita' nell'epoca della conoscenza? Perche' questo e' il punto, credo che un ragionamento sul senso e la funzione dell'universita' non possa prescindere da una riflessione su come sta cambiando la societa'. E a cambiare qui e' la societa'di massa, l'uomo medio (di fatto esistente solo nelle menti dei policy makers) da cui era costituita non esiste piu', ora si parla di una societa' sviluppata sul modello della coda lunga: un numero consistente di persone che ancora si situa sui picchi dei vari grafici dei consumi e delle abitudini, ma una quantita' sempre maggiore di persone che si "spalma" sull'asse delle ascisse, allungandone la coda e che testimonia lo svilupparsi di nuove abitudini al consumo, di nuovi gusti, di nuove idee, di nuove sensibilita'. Il picco si sta via via abbassando fino a giungere ad un numero di abitudini al consumo che potrebbe idealmente essere uguale al numero dei consumatori. Per ora tale societa' e' sostanzialmente costituita da gruppi di persone che condividono un certo tipo di abitudini, un certo numero di pratiche, certi gusti. Siccome tali membri (questa e' la cosa interessante) stanno prendendo consapevalezza di cio' e cominciano a comunicare tra di loro, potremmo per semplicita' definire questi gruppi: "communities". Si tratta di communities fluide, beninteso, i cui membri possono partecipare a piu' d'una al contempo, oppure andarsene o crearne di nuove.
Le societa' di massa avevano bisogno di strutture per funzionare, e su questo va detto che tali strutture in altri paesi europei o nordamericani sono piu' sviluppate che in Italia ed e' forse questa la ragione per cui una universita' di massa in questi paesi ancora regge anche se le cose stanno cambiando in fretta. In Italia, forse tale crisi e' piu' acuta, perche' il sistema, l'insieme di strutture su cui la societa' di massa si reggeva e di cui l'universita' era un importante tassello, ha sempre mostrato una serie di problemi e difficolta direi croniche. Il punto e' che l'universita' cosi' come e' strutturata non riesce a creare sapere spendibile nelle communities di cui la societa' e' fatta. Al momento mentre lavoro, sono iscritto ad un master a distanza presso la Australian National University e devo dire che il funzionamento di questo master a distanza e' molto interessante! Si tratta sostanzialemtne non di dimostrare il sapere che si e' acquisito nel corso degli studi, quanto piuttosto di partecipare alle lezioni, alle discussioni, ai fora online. Insomma sostanzialmente il valore attribuito dal diploma di master (se mai lo otterro') non sara' tanto detrminato dal sapere che ho dimostrato di aver acquisito, quanto piuttosto dal mio grado di partecipazione a questa community, il cui valore puo' essere riconosciuto all'interno della comunity stessa, ma anche all'interno di altre communities, come quelle delle imprese a cui inviero' il mio CV. Di fronte ad una societa' che da societa' di massa strutturata sulle gerarchie e dall'impiego della metafora della verticalita'(media verticali che tempestano il target di messaggi, partiti che si fanno interpreti delle posizioni della base, ecc.)la societa' sta prendendo la via dell'orizzontalita', della rete, delle communities e forse l'Universita' deve farsi community essa stessa. Dovrebbe ristrutturarsi pensando non tanto al passaggio del sapere, quanto piuttosto alla produzione e allo scambio del sapere. Insomma una bella differenza rispetto all'impostazione cattedratica e alle lezioni nelle stanze del cinema. In questo Canevacci ha tentato di essere diverso e senza'altro innovativo e aperto, non tanto a passare il sapere quanto a produrlo e a scambiarlo.

Ecco questo e' uno spunto, ci tengo a ripeterlo solo uno spunto su cose su cui si potrebbe continuare a ragionare. Ringrazio Abruzzese per aver portato questo dibattito su di un blog, aperto a tuttie disposto ad ascoltare tutti, siccome non c'ho riflettuto molto su questa questione sono molto interessato a sentire cosa ne pensano anche gli altri.

Anonimo

Sottoscrivo in pieno quanto detto da Giuseppe. Il punto qui è che SdC è una facoltà che mio malgrado ho scoperto essere prevalentemente fiacca, compiaciuta, immobile, perfettamente italiana. Se non ci fossero stati corsi come AC, Storia Contemporanea, Istituzioni di Sociologia della Comunicazione tenuto da Romana Andò e Vecchioni, probabilmente avrei cambiato facoltà già dal primo anno. E adesso mi ritrovo ad accumulare stancamente crediti come fosse una raccolta punti senza sapere più bene neanche il perchè. Comincio seriamente a chiedermi cosa saprò e cosa saprò fare alla fine di questi 3 anni. Ottima idea, a questo punto, quella di frequentare corsi presso altre facoltà. Purtroppo nel mondo del lavoro contano i titoli e le conoscenze che non puoi attestare non interessano a nessuno. Ormai ci sono e devo arrivare fino in fondo, sperando che i corsi del terzo anno siano più stimolanti. E con la riserva di pensarci due volte prima di scegliere la specialistica ad SdC. Forse meglio scappare a Lettere come fanno ormai in molti. Aldilà della mia delusione personale per quanto riguarda l'offerta formativa poco informata e retrograda e dell'applicazione tiepida e modesta che ne fa gran parte dei docenti, delusione che però è largamente condivisa, qui è importante notare come la situazione stia scivolando ulteriormente verso il basso. Adesso come se non bastasse vogliono estirpare quell'unico filo d'erba che ha permesso a tanti studenti di respirare un'aria nuova, diversa, universitaria nel senso più puro del termine. Una colata di cemento per zittire quell'unica materia che è davvero in grado, anche e soprattutto grazie a Canevacci a Roma, di rispecchiare e di agire sulla contemporaneità nel suo divenire. Le varie teorie e tecniche sono già morte, ci insegnano il vecchio senza insegnarci a creare il nuovo. Tutto ciò è oltremodo desolante e mi ritengo fortunato ad essere nato giusto un paio d'anni prima. Ricordo il giorno in cui arrivai per la prima volta in Via Salaria 113. C'era una targa all'entrata con su scritto "Questa facoltà ripudia ogni forma di fascismo". Allora sorrisi e pensai di essere a casa. Adesso, più che mai, non lo penso più.

Anonimo

straordinario intervento di Panzeri (poco riflettuto? non mi pare)
per me siamo così imbrigliati in strutture rigide e verticali fuori e dentro l'uni che un docente come Canevacci che sperimenta una didattica innovativa è certamente la punta più avanzata, ma troppo avanzata ….
la via dell'orizzontalita', della rete, delle communities fluide e diffuse, anticipata da Maxx in aula e negli spazi on line della sua cattedra, purtroppo sono solo una promessa e una speranza o se vogliamo la realtà del qui e ora su questo blog e altri ancora

Anonimo

Caro Professore,

sono un suo ex-studente, laureatosi nel 2004 in Scienze della
Comunicazione, sfuggito appena in tempo alla (contro)riforma europea
che ha introdotto debiti e crediti nell'Università, trasformando i
nuovi studenti in scribacchini, simili a giornalisti "ragionieri" alla
Sostiene Pereira, "schiacciati sull'esistente" appunto.

Volevo esprimerle la mia piena solidarietà riguardo ai recenti
avvenimenti, ovvero la soppressione di Antropologia culturale come
insegnamento principale e la sua riproposizione-ridenominazione nel
corso di "cooperazione e sviluppo" (sic!). Visto il titolo del corso,
non mi stupisce la creazione di discipline dai nomi aberranti come
cooperazione interculturale e etno-antropologia delle culture
contemporanee: ma lorsignori lo sanno che i Bororo sono a noi
contemporanei o hanno visto troppe puntate di Alberto Angela?!
Quella decisione altro non è se non una foglia di fico, della serie
"quando non puoi eliminare una cosa, dividila, marginalizzala e
assegnala ad altri".
Spero che i piccoli Pereira che (sovr)affollano la nostra Facoltà si
sveglino come il protagonista del racconto di Tabucchi e prendano
coscienza di quello che sta avvenendo in Italia, in campo culturale e
non. Per il nostro e il loro bene.

Un abbraccio polifonico

p.s. l'idea di accostare il nome di sua moglie al suo la trovo
geniale! Penso che la adotterò, tra l'altro anch'io namoro con una
lusofona.
Massimiliano Rossi Cardoso...come suona bene!

Anonimo

Sono un corpo pieno di occhi, ciò che guardo assorbo. Oggi e da settimane assorbo depressione. Io non posso rimanere qui, essere oggetto della dittatura comunicazionale. Io voglio poter esprimere liberamente le mie idee e voglio che un mio eventuale figlio possa crescere senza la paura dell'altro.
Io non mi riconosco più in nulla, sono perso in un me stesso che non c'è mai stato...sempre contradditorio, sempre in bilico. Sempre da mille occhi sono stato accompagnato, ed ora si vuole che io ne usi solo due, anzi forse addirittua uno.
Sarò pure depresso, ma almeno non ho occhi foderati da tv, giornali e morali varie ed eventuali. E per questo dovrei ringraziare un sacco di persone...molte che non ho mai conosciuto, ma che hanno fatto si che la mia mente si aprisse. Poche sono quelle che ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere: lei, professore, fa parte di questa ristretta combriccola di guru a cui voglio molto bene.

Grazie.

Francesco A. aka Branzino
www.myspace.com/frano_spaceinutero

Unknown

Focault:

"Perhaps, too, we should abandon a whole tradition that allows us to imagine that knowledge can exist only where power relations are suspended and that knowledge can develop only outside its injunctions, its demands and its interests. Perhaps we should abandon the belief that power makes mad and that, by the same token, the renunciation of power is one of the conditions of knowledge. We should admit rather that power produces knowledge . . .that power and knowledge directly imply one another; that there is no power relation without the correlative constitution of a field of knowledge, nor any knowledge that does not presuppose and constitute at the same time power relations"

Anonimo

Caro Prof. Canevacci,

Sono un ex studente, ormai laureato della facoltà di scienze della
comunicazione. Ho appreso solo oggi che il suo corso verrà cancellato.
Volevo associarmi ai messaggi di affetto e stima nei suoi confronti.

Lei non ci crederà ma il suo è stato il primo esame che ho sostenuto
all'università, mi interrogò lei in persona. 30 e lode prof mi ha
dato.

A distanza di anni è quello che ancora ricordo con più piacere. E'
stato l'esame che mi ha motivato più di tutti a completare i miei
studi. L'esame che mi ha fatto aprire gli occhi e guardare il mondo
in un'altra prospettiva.

Prof sono veramente rammaricato...

La ringrazio per tutto.

Marco

Anonimo

Focault non ha mai conosciuto la moltiplicazione e la disseminazione, le democrazia dei saperi nelle reti della conoscenza, se fosse ancora qui sarebbe un blogger molto assiduo :-)

giovanni oliva

caro Massimo,
uso il tuo nome perchè la vicinanza e l'intimità che ho ricevuto e spero di aver dato durante le tue lezioni fanno di te il maestro che permette ai discenti di diventare uomini prima che laureati. sono addolorato dal comportamento e dalle scelte che l'università ha fatto nei confronti di una materia che permette di avere una visione del mondo meno parziale e settaria. continuo a leggere i tuoi elaborati i quali mi sono molto utili per la stesura della tesi. ti abbraccio e per quanto serve sono solidale con quanto hai scritto nella lettera aperta. la miseria intellettuale e umana nella quale stiamo spofondanto è raggelante e per questo spero tu vorrai continuare a scrivere e farci conoscere le tue idee sul mondo e metterci a conoscenza del tuo punto di vista.
con affetto
giovanni oliva

Unknown

caro anonimo,

attenzione a quel che si dice, perchè sennò dei concetti molto belli rischiano di diventare solo degli slogan:

[ is Google making us stupid? ]

[ a vernacular web II ]

[ The attention economy ]

(e dozzine di altri.. naturalmente.. mi son venuti al volo in mente questi..)

e, oltretutto, la parte interessante della citazione di Focault era la seconda.

Che presuppone che sì, gli strumenti tecnici/tecnologici e le dimensioni percettive esistono, ma, prima di diventare abilitanti, devono essere essi stessi abilitati. E questo è un problema culturale. In vista di una cultura che possa creare potere. Con la parola "Potere" che, come tutto il resto, necessita di una profonda revisione in significato.

Che, mi sembra, sia un concetto che si applica anche a quello di cui stiamo parlando su questo blog e da altre parti.

Un problema culturale, naturalmente, che deve "litigare" con quanto di "materialista" ci affligge ancor oggi, nonostante la multividualità e l'immaterialità che conosciamo tanto bene.

Con l'ovvio esempio dellle problematiche che riguardano il controllo dei media classici, o, anche, la semplice scansione del tempo "subita" dalla maggioranza della popolazione: per un europeo "multividuale medio" si parla, per esempio, di "dalle 9 alle 18", "30 anni di mutuo", "il week-end", "le ferie". Non è quella una forma di potere? Eccetera eccetera.

Quindi, in qualche modo, in cui c'entra anche la tecnologia digitale, e anche questo blog, tra milioni di altri, il problema è di tipo più radicale. E non affrontabile ideologicamente o, tantomeno, con approcci universalistici o costruiti attorno a degli slogan.

E dico questo, naturalmente, nella piena consapevolezza che le questioni di cui stiamo parlando rappresentano una pesante evidenza di un pericoloso processo in corso, che va a minare proprio cultura e capacità critica.

Focault un blogger? Beh, forse anche no.

Così come Derrida, Baurdillard, eccetera. O forse sì, ma con finalità un po' differenti.

Interessante, a questo proposito, quanto sosteneva Baudrillard sulla perdita di contatto con il "dolore".

O quanto sostenevano, per esempio, Mieke Bal o Rosalind Krauss sulla costruzione dei significati.

Con solidarietà, e in piena attività (con metodologie e obiettivi miei, naturalmente) per affrontare la contemporaneità,
xDxD

Anonimo

1.La dolcezza dello stile. Penso profondamente e leggermente che la nostra forza - cioè la forza di questo blog tra auto-incanalati (secondo la migliore sdefinizione possibile di stefano) - sta nel mix di tranquillità e fermezza, di passionalità e razionalità, di soggettività sparpagliate e interconnessioni spontanee. Ora vorrei precisare alcuni “misteri” del sistema accademico con osservazioni sulla politica culturale: temi sollevati dalla svolta impressa dagli ultimi interventi iniziati da abruzzese, proseguiti da due grandi luise (valeriani e capelli), culminate con il trittico stefano-giuseppe-daniele.

Le stratiticazioni di potere istituzionale (e non) che sono state perforate da questa inusuale iniziativa sono tante e non tutte chiare. Penetrare dentro queste stanze misteriche è come chiedere di entrare nel castello. Si rischia di rimanere fuori per sempre, nonostante che proprio quello indicato dal guardiano (l’ordine degli studi) sia l’unico ingresso per noi previsto.

2. Premessa-aperitivo. Ricordo un esempio della “mia” antropologia. Più volte introducevo cenni storici della disciplina e poi affrontavo geertz, la cui svolta interpretativa era osteggiata da tanti “nostri” antropologi. Lo analizzavo nel dettaglio attraveso parole chiave prese dalla sua parte teorica (antropologica) e da quella empirica a bali (etnografica). A me piace geertz e scrive benissimo, per cui appassionatamente presentavo questo autore. Finita questa spiegazione, iniziavo a svolgere le critiche che gli sono state mosse sia dalla nuova generazione di antropologi (quasi tutti suoi alunni) e sia mie personali. A poco a poco percepivo uno sconcerto da parte degli studenti. Gli appunti si bloccavano. Gli sguardi si meravigliavano. Le domande galleggiavano. Alla seconda lezione qualche studente comunciava a muoversi e alla fine mi fa “la” domanda più o meno così: “Ma prof, lei prima ci fa appassionare a geertz e poi ce lo smonta così? Ma allora cosa e a chi dobbiamo credere?”

Questo è sempre stato un po’ il mio metodo…cercare di far emergere una inquietudine dislocante che dovrebbe essere affrontata e risolta da ogni singolo studente, che in tal modo non deve ripetere il testo di esami o delle lezioni, ma lo può rielaborare.

Questo transito dal dover ripetere al poter rielaborare è la mia didattica.


3. Intermezzo accademico. Dal 75 insegno AC come assistente incaricato supplente. Nell’ 82, il giorno prima della legge di riforma universitaria, un deputato elimina il “supplente” per diventare prof associato ope legis da assistente. Per cui “decado” a ricercatore di AC. Ottimo. Tento due concorsi per diventare associato e vengo bocciato. Il sistema universitario italiano è tale che si può vincere questo tipo di concorsi se si elabora una strategia politica complessa che è difficile riassumere: parte dalla elezione dei membri della commissione con l’obiettivo di avere un ordinario influente di riferimento e deve avere una facoltà disposta ad accettarlo. Vi assicuro che è complesso. In genere questa scienza della politica si basa sullo scambio. In tal modo tutti sono legati a tutti. Si deve solo aspettare il turno e accettare le regole. Per motivi che non vi sto a raccontare, mi sono sempre posizionato fuori da scambi, turni, regole. Pensavo che l’università fosse diversa. E avevo ragione. Cioè l’università è anche diversa se si ha la fortuna di incontrare le poche persone libere da questi intrighi. Alberto Abruzzese è una di queste rare persone. Come altri colleghi, pensava fossi già ordinario o almeno associato. Quando l’ha saputo (e nonostante appartenessi a una “ordine” diverso dal suo, m-dea: discipline demo-etno-antropologiche, che è processi culturali) si è impegnato personalmente a farmi uscire da tale situazione, d’accordo con l’attuale preside. Ed è stata una cosa proprio bella. E come si vede anche da questa blog-esperienza, noi non abbiamo vincoli di “fedeltà”, bensì legami di parziali verità da affrontare con le reciproche autonomie. Insomma con alberto si sperimenta quella che dovrebbe essere l’università. Così come con le due luise: l’una sottilinea maggiormente la dimensione individuale del problema; l’altra anche quella disciplinare.

4. dove è il politico. Allora quello che a me piace sottolineare, forse a differenza di alberto abruzzese, è una cosa semplice: che le mail che si sono susseguite (e si susseguono) nel blog così folte e diversificate affrontano proprio quello che si intende per “politica”. Anzi sono la più avanzata manifestazione del politico. Lo motivo in questo modo: che la politica sia concentrata e quasi sequestrata solo tra le mura gestionali delle istituzioni, questo è una parzialità che riflette un passato che persiste e che non mi ha mai convinto. L’autonomia del politico. Accanto e spesso contro tale autonomia vi sono torrenti espositive emozionali, stilistiche, plurilogiche dense di piaceri, condizioni esistenzziali che diffondono passioni, meglio, mix di passioni e razionalità che sussultano oltre gli schemi tradizionali. E in tal modo possono liberare i transiti in cui ciascuno partecipa alla propria autonoma (questa sì) costruzione di itinerari dell’ “apprendere ad apprendere”. Per questo sbagliano quelli che vedono nelle lettere solo la gioia o il rimpianto o un cristallo emotivo. No. Non è tanto questo. Sia tra che dentro le righe vi è una affermazione rigorosa verso il desiderio di un sapere non replicato né replicabile. Questa politica emozionata sospinge verso la modifica degli stantii ritorni de “Il Metodo” e cerca con insistenza e empatia qualcosa di altro.
Il mio problema nasce qui: come bagnare le istituzioni – così spesso impermeabili, anzi acquarepellenti – di questi nuovi saperi, inumidirle dei tanti liquidi possibili e farle finalmente sorridere perché hanno finalmente capito che devono mutare e mutarsi.

E allora è chiaro che il mio compito non è stato di “lavorare” le istituzioni universitarie dal di dentro. Altri lo fanno. Il compito mio e, immagino, dei tanti che hanno qui elaboraro le loro esperienze razional-emotive (tuttaltro che nostalgiche ) è stato ed è di inumidirle compenetrandole e forandole. E in tal modo metamorfizzandole…forse…

È parziale? Sì, certo… Rivendico questa parzialità e questa mia difficoltà a stare dentro la gestione di quelle che alberto chiama condizioni materiali. Per me qui inizia la politica, la cui negoziazione non è conclusa ancora. Forse è indirizzata per il verso giusto. Lo spero. E forse potrebbe essere la premessa per allargare la discussione: ad es. sul come si scelgono gli itinerari formativi dei corsi di laurea. E se è inevitabile presentare binari monodirezionali dentro i quali far camminare lo studente. E se non è tempo di dare possibilità più aperte agli studenti, con un tutor che li segue passo passo, per incrociare diversificate discipline che la rigida monorotaia dei corsi impedisce loro.

Insomma a me pare evidente che si è scoperchiato il pentolone, che l’AC è stato un grimaldello che ha aperto (forato) questa scassata università, non certo per mettersi contro questo o quello, a me non è mai interessata questa miseria; e nemmeno per ubbidire e “cammellarsi” dentro ordini-del-giorno che difendono non si sa bene chi, forse le “procedure”…


5. Tesi di abruzzese. Che i linguaggi metropolitani abbiano consumato la trasgressività negli anni 30: è cosa su cui discutere. Per me sono cambiati linguaggi, metropoli, trasgressività (oltre che le soggettività) secondo moduli non paragonabili a quelli modernisti. La ricerca deve quindi penetrare e farsi riflessiva tra queste porosità muanti. Tentare di comunicare la nuova metropoli: questa è la mia ossessione con l’etnografia micrologico-riflessiva e attraverso composizioni linguistiche inedite. È probabile che le trasgressività siano morte da tempo: eppure per me è evidente che stanno emergendo nuovi panorami metropolitani e che il digitale compenetra tutto questo. E che la comunicazione succede alla sociatà. E che se questo è vero è un terremlotio disciplinare e linguistico. E allora congelare la nostra facoltà tra giornalismi ipotetici e mass-media-che-fanno-bene-ai-bambini è un errore clamoroso. E conservatore. E continuare a dare una laurea in cooperazione e sviluppo è neo-colonialismo sciatto. Eliminare l’AC un assurdo. Ci sono alcune lettere di ex-studenti chiarissime. Stefano, giuseppe, daniele hanno buttato giù l’introduzione a un manifesto per la gestione nuova dell’università. Questo è quello che penso.

Bene, mi andrebbe di scrivere molto di più, ma non è questo il senso del blog. Finisco per domandarmi: sarà un caso che - subito dopo il “casino” sollevato dalle mie critiche irregolari - sta montando una ben altra onda critica verso una università palesemente bloccata a gestire le 10 o 9 lire? Penso che ci sia una relazione tra questo semplice fatto: che tanti atenei e gruppi e collettivi o singoli abbiano di nuovo ripreso umide transizioni critiche verso le condizioni non tanto gestionali della nostra università, quanto verso quei sistemi di valore e visioni del mondo (insomma le politiche culturali e comunicazionali) che un disastroso governo emana e che le stesse istituzioni universitarie rifiutano. E ricordo come mussi non sia stato migliore, anzi, che il suo disastro politico sia iniziato dall’aver rivendicato all’attuale papa il diritto di parlare al nostro ateneo per difendere la libertà di pensiero….. povero mussi… che fine hai fatto fare al nostro maestro adorno…

Se questo è vero, caro alberto, qui, in questo blog, abbiamo solo anticipato una tendenza.

Abraços
massimo canevacci

MaxnoMax

Massimo Furiani, un antropologo, altrimenti, altrove


Dalla parte di Caliban
Per quanto la “complessità” dell’intreccio disegnato da Massimo formi un groviglio in cui si incrociano, in modo incestuoso, i livelli più disparati, quasi tutti riconducibili a quello politico, in senso lato, ma anche in senso più ristretto, pensando all’Università come a una cittadella asseragliata nella difesa del “deserto dei tartari” dei propri privilegi. Un’aristocrazia nera che detesta le città polifoniche, che deprime e comprime gli sguardi obliqui.
Sono passato attraverso il filtro del Dottorato di Ricerca, in Antropogia Culturale delle Società complesse, una specie di mantra salvifico nella sua denominazione così apperentemente “innovativa”. Una etichetta che sembrava così nuova, ma che risultò essere essenzialmente vuota, perché appicicata ad un vaso di fiori secchi. Dal 1993 al 1996 sono stato sottoposto a molteplici processi di “normalizzazione” da parte della “Commisione” del dottorato, una sorta di “Politburo”, interessata più alla “coazione a ripetere” della tradizione antropologica che al flusso polifonico della ricerca nel suo farsi Antropologia critica e transdisciplinare.
Non c’è nostalgia, né risentimento per quel periodo iniziatico così prolungato. Non avendo superato i riti di passaggio imposti dall’ottusità accademica, sono stato escluso dal novero dei “sacerdoti” coattivi. Sì, proprio, così, l’apprendimento, e soprattutto il deuteroapprendimento, venivano miscoscionuti e bollati come non “riconoscibili dal sapere consolidato della “Grande Antropologia”, preferendo il catechismo al “pensiero criticamente autonomo”.
E da allora ho scelto di stare dalla parte di Caliban; mi sono preso bastonate dai tanti Prospero che ho incontrato sulla mia strada. Ho sempre rifiutato il suo pseudo scientismo alchemico, la sua vanagloria di potenza nel dominare gli elementi. Per questo non so, e tantomeno voglio, stare dalla parte dei tanti, troppi Venerdì, quelli colonizzati dai vari Robinson Crusoe di turno. Non accetto la normalizzazione e neppure la civilizzazione. A tutte le voci impenitenti che si sono diffuse come un coro nella “tragedia” di questa, purtroppo, esemplare vicenda lancio un monito ed una sfida che spero si diffonda in eco: “il capro non sarà sacrificato”.

MaxnoMax
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Roberto Maragliano

Condivido pienamente l'analisi di Canevacci (che riprendo qui in un passaggio cruciale, almeno secondo me: "le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale ... spesso risultano incomprese, 'non controllate' o neutralizzate in 'tecniche'". Altrove si è in presenza dello stesso fenomeno. Così capita, per esempio, al corso di comunicazione di Lettere di Roma Tre. Ne sono stato tra gli ideatori, e ci ho lavorato assiduamente per un bel gruzzolo di anni(pur essendo di altra facoltà e soprattutto con la grave colpa di provenire dall'ambito educativo). In particolare, negli ultimi tre anni gli insegnamenti miei e del mio gruppo sono stati svolti sperimentalmente (e con delibera di facoltà) totalmente in rete, in modalità e-learning (e-gratis, senza alcun sostegno), fatto che ha permesso di dar vita a originali situazioni di comunità dialoganti (tra studenti e con i docenti). Per poco che sia stato, lì almeno l'informazione (cosa rara nel villaggio accademica) ha circolato. Bene. Profittando della riforma ultima (penultima a sentire la ministra) tutto questo è stato cancellato. In nome della purezza della disciplinarità comunicativa (che ognuno, a seconda dei rapporti di forza interni, inscrive dove vuole e può: alla filosofia, alla linguistica, alla sociologia). E gli studenti? Nulla sanno e nulla meritano di sapere di tutto questo. Che studino e imparino l'italiano!
Roberto Maragliano

Anonimo

La mobilitazione che ci ha coinvolti tutti in modalità passionali, certo, quanto anche ed essenzialmente calme, sicure, razionali ha trovato una soluzione. Parziale, certo, ma accettabile e forse difficilmente immaginabile all’inizio.

Il 25 c’è stato il CdF. L’atmosfera mi è parsa subito rilassata, specie nella direzione; mentre tra i colleghi era manifesto un certo nervosismo sordo. Tra certi dottorandi/e o neo-dottorate/i una tendenza sorprendente all’insulto sussurrato. Peccato. Molte le persone presenti. Un rappresentante dell’ordine dei giornalisti apre con una relazione in cui si esprime una esigenza forte della stampa di modificare un tipo di scrittura in relazione all’altro, lo straniero che, a partire da un caso avvenuto in una recente passato, era stato sparato in prima pagina e stigmatizzato come già colpevole. Il meta-riferimento è chiaramente alla antropologia e ai suoi contributi di ricerca su quello che sta diventando “il” problema dell’italia, ben diverso dagli altri paesi europei: un razzismo dichiarato, istituzionalizzato in leggi, diffuso in comportamenti “popolari” viscerali sapientemente gestiti in senso politico-elettorale.

Alcuni accenni del preside vanno verso l’importanza di una apertura. Poi prende la parola il vice-preside, bruno mazzara, con cui si erano svolti informali contatti basati sulla stima reciproca e sulla trasparenza risolutiva. Senza riprendere la storia della 270 e della specificità mdea (le materie etno-antropologiche), molto correttamente, si propongono queste soluzioni:
- Ripristinare antropologia culturale ed etnologia come materie che gli studenti del 3.o anno possono scegliere nel corso di laurea in scienze e tecnologie;
- La “nuova” dizione etno-antropologia delle culture contemporanee viene soppressa;
- Dare la possibilità in via eccezionale, e quindi solo per il prossimo anno, agli studenti del 1.o anno di poter anticipare AC, considerato il fatto che sarà il mio ultimo anno di insegnamento a SdC

Subito dopo chiede la parola la prof rita di leo per leggere la lettera firmata da 40 docenti. quando inizia a leggere, lei stessa, persona intelligente e ironica, avverte che è una lettera sfasata non solo rispetto al contesto del CdF, quanto anche rispetto agli stessi contenuti; e che molte delle cose dette (per me quasi tutte) non erano riuscite a penetrare il cuore del problema – l’eliminazione dell’antropologia – e attestavano solo una dichiarazione di condivisione delle procedure e dell’istituzione.
Per quanto possa sembrare bizzarro, queste sono state le posizioni della stragrande maggioranza dei docenti, anche di quelli più sensibili e critici. Nessuno – tranne un paio di belle eccezioni – si è posto un interrogativo sulla questione di fondo. Cosa significhi questo, forse, meriterà alcune riflessioni in futuro.

Subito dopo chiedo la parola ed esprimo con estrema tranquillità (credo) alcune cose che dovevano essere già chiare:
- Che io avevo tentato di mutare le decisioni prese quando stavo all’estero per motivi istituzionali (lezioni e performance in a tokyo), decisioni che - una volta tornato a saputa della soppressione di AC - avevo cercato di modificare. Mi è stato detto che non era più possibile e che la responsabilità era divisa tra me che stavo fuori e i colleghi mdea che avevano proposto le mutazioni

- Solo a questo punto, di fronte a una situazione senza uscita e per me politicamente sbagliata, decido di fare la cosa che in ogni sistema democratico “normale” si fa: rendere pubblico il mio dissenso

- La lettera è inviata alla facoltà, pubblicata da liberazione e da luisa capelli che decide di avviare questo straordinario blog che in pochi giorni raccoglie tante voci di persone amiche o che credevo perse di vista, di sconosciuti, di persone che avevano ed hanno a cuore l’AC e anche SdC. È un flusso incredibile che mi emoziona tantissimo e mi dà una forte e imprevedibile responsabilità. E un senso di grande calma, come se avvertissi da queste dichiarazioni che non solo io, ma in tanti avevamo ragione. Che l’AC non doveva essere soppressa. Questo dico e dico anche che ero e sono meravigliato dalla piatta reazione di tanti colleghi.

- preciso che rinuncio a svolgere in questa occasione le mie critiche all’indirizzo politico-culturale della facoltà e che lo farò in futuro nelle sedi opportune

- infine dichiaro di accettare la proposta di mazzara che ringrazio pubblicamente
si vota e solo la rappresentante degli studenti si astiene.

Sono contento. Ed è contento anche il gruppo che mi è stato vicinissimo e senza il quale non sarei mai riuscito a concludere in questo modo. Certo, ribadisco che AC dovrebbe stare al 1.o anno, quando gli studenti si affacciano all’università. Ma abbiamo svolto una battaglia politico-culturale importantissima e abbiamo modificato parzialmente una decisione che sembrava irrevocabile. Ne sono felice e ringrazio ancora bruno per la sua sensibilità. Ribadisco che, a parte un paio di amici veramente belli e a qualche altro docente fuori-riga, nessuno tra i colleghi mi ha o si è posto la domanda decisiva. Ed è nonostante loro che sono convinto che ha vinto sia l’AC e sia SdC.

Forse il preside, morcellini, avverte questo clima e dichiara che AC dovrebbe stare al 2.o anno. È solo un accenno, forse basato su un suo errore di memloria, ma credo che in tale suo accenno vi sia una apertura per futuri sviluppi.

Infine: per un caso o per necessità, nello stesso giorno mi chiama liberazione dicendomi che una certa storica che non conosco, sempre della sapienza, ha attaccato lévi-strauss sostenendo che tristi tropici è il libro più ateo che sia mai stato scritto e che sostenere la famiglia un fatto culturale sta producendo questo disastro. La cui matrice secondo ratzingher è ormai chiara: quello che lui intende per relativismo culturale. Alla difesa del quale solo gli antropologi ormai sembrano schierarsi. Quindi un esplicito attacco all’AC dal fondamentalismo neo-cattolico.

Prima di andare al CdF scrivo questo pezzo che allego in successione a questo post. Lo faccio per diversi motivi, il principale dei quali è il seguente: da tutto questo è nato un bel gruppo di persone che vogliono sviluppare un’ AC critica e sperimentale. E antonella passani ha già iniziato un’opera che potrebbe avere una forte accelerazione qui ed ora: un sito nuovo dell’AC.

E allora i compiti di tutti quelli che sono interessati e che hanno partecipato a questa avventura dentro e fuori il blog, grazie a luisa, possono rivolgere le loro e le nostre passioni etnografiche per dare vita a questo nuovo mezzo che la cultura digitale ci mette a disposizione e su cui innestare le nostre composizioni.
Questa la sfida da oggi, fine luglio, all’autunno. Spero che molti di voi mastichino questa proposta secondo le metodologie antropofagiche e che il succo sia trasformato in una nuova succulenta pietanza.

Ringrazio tutti e tutte. Tanto. Tantissimo. Ancora una volta quello strano miscuglio che qualche antropologo chiama la forza culturale delle emozioni ha trovato alcuni spiragli verso nuove logiche. Ci si apre uno scenario fantastico e potremmo attraversarlo. E, come si dice, è il camminlo che fa la strada.

Grazie e obrigado
massimo

Anonimo

Il titolo dato da liberazione è il seguente:

sotto accusa la non naturalità della famiglia e il relativismo

TUTTA COLPA DI LḖVI-STRAUSS

L’AVVENIRE SCOMUNICA L’ANTROPOLOGIA

Una oscura nube si addensa sempre più preoccupante sui destini dell’antropologia culturale e non solo: direi anche e soprattutto contro, radicalmente e fondamentalisticamente contro - le scienze sociali e umane. Una devota a Francesca Cabrini raccoglie l’invito del papa e si scaglia contro uno studioso che sta per compiere 100 anni e che è non solo amato, criticato, analizzato, quanto soprattutto non letto da fin troppi inesperti commentatori: Claude Lévi-Strauss.
Il metodo è quello ormai diffuso tra studenti svogliati: andare su wikipedia e dare una letta all’autore del caso; inquadrarlo in una cornice presupposta come religiosamente oggettiva e universale; selezionare il dogma anti-relativista come indice; spuntare tutto quello che fuoriesce da tale gabbia di ferro con le forbici inquisitive. E voilà, l’articolo è pronto …
Povero Lévi-Strauss criticato da tanti, spesso con motivo, e che ora diventa il capro espiatorio per questa moda inaugurata dal papa più intellettuale che sia succeduto a Montini. Ovunque si annidi una traccia di relativismo – dal tifo per una squadra di calcio alla preferenza per un vino o, nel mio caso, per una donna – vi è una schiera di addetti ai lavori anti-relativisti che insorge.
In realtà, spostando la cosa su un piano più serio, quello della politica culturale adeguata ai mutamenti contemporanei da tradurre in pratiche trasformative, la lucidità dell’oscurantismo neo-cattolico si scatena sugli autori “classici” a partire dall’Illuminismo per la resa-dei-conti. Per questo, le tesi così grossolane di Lucetta Scaraffia contro l’illuminista Lévi-Strauss pubblicate su L’Avvenire di ieri devono essere prese molto più sul serio di quanto esse meritino. Perché tale atmosfera è diventata parte della politica contemporanea. E quindi di un conflitto non solo teorico. Nella mia ricerca sul campo tra i Bororo, nel Mato Grosso (Brasile), proprio nello stesso villaggio dove Lévi-Strauss è stato - l’aldeia di Meruri – quello che emerge drammaticamente è la presenza dei Salesiani che, oltre a svolgere una difesa significativa delle popolazioni locali contro i tentativi di invasione di fazendeiros o politicanti, esercitano con persistente quotidianità una opera di deculturazione degli stessi Bororo. I temi sono quelli ossessivi del cattolicesimo: il peccato, per cui le nudità vanno coperte; la famiglia, allora le capanne tradizionali devono essere sostituite da case all’occidentale con stanze separate; le religioni, per cui l’unica ammessa è quella cattolica mentre le altre devono essere eliminate; i miti e i rituali, che vanno inseriti in quelli “universali” cioè cattolici (specie il grandioso funerale bororo). In una parola evangelizzazione pura.
E così arriviamo a questo grossolano fraintendimento sul cosiddetto relativismo dei valori trasformato in slogan: tale concetto fu elaborato dagli antropologi negli anni ’30 per contrastare le ideologie razziste (e nazi-fasciste!, rispetto alle quali il cattolicesimo non solo non faceva nulla ma benediceva gagliardetti), difendendo le culture “native” e le minoranze “etniche” dai pregiudizi all’epoca dominanti sulla cosiddetta loro inferiorità razzializzata. Insomma primitivi e selvaggi senza virgolette. Già durante e dopo la seconda guerra mondiale tutti i vari filoni dell’antropologia – quindi a prescindere dall’essere funzionalisti, strutturalisti o di cultura e personalità - iniziarono a articolare sempre meglio questa scelta valoriale fondamentale non solo per l’etnografia ma per ogni politica che abbia senso: e così si dichiarò esaurito quel relativismo che sembrava non prendesse posizione, un relativismo cosiddetto neutrale, per cui tutte le vacche sono grigie, sia che si pratichi la clitoridectomia o sia che si evangelizzino questi “nativi”. In realtà tale presunto “relativismo” di qualsiasi persona di buon senso collocava la scala dei valori all’interno della cultura dove ci si trovava a vivere: e non al suo esterno, magari a Roma o a Londra, per evitare che possa dare una sensazione relativa (e non relativista) al colonialismo vecchio e nuovo.
Tutti gli antropologi, affermatisi a partire dagli anni ’60, proprio nelle loro profonde diversità, prendono posizione: l’antropologo si posiziona - così come Scaraffia. Nel corso della ricerca, anziché banale neutralismo, si colloca di lato alle persone insieme alle quali svolge la ricerca (e non sulle quali), per svolgere una complessa relazione dialogica. E così al tradizionale e per tanti versi glorioso relativismo succede l’inter-soggettività, una reciproca interpretazione tra due o più soggettività che insieme cercano di dare il senso dello stare al mondo, attraverso un profondo umanesimo vissuto e partecipato contro e, meglio, oltre ogni ricorrente tentativo di restaurare anti-relativismi tardo-coloniali.
E allora anziché scagliarsi contro lo spettro di un relativismo inesistente, Lucetta Scaraffia sappia che chi sta sul campo si posiziona oltre, non contro bensì radicalmente oltre, le ondate neo-cattoliche e neo-protestanti di evangelizzare le popolazioni “native” con sottili quanto materialissimi ricatti. Proprio come quei Bororo rispetto ai quali Lévi-Strauss nel suo libro “Tristi Tropici” nutriva una disperata quanto poetica umana solidarietà, basata sulla scoperta di questa differenza culturale finalmente vista non come una gerarchia valoriale dicotomica, bensì come fonte di ogni nuova uguaglianza possibile.
Si è uguali perché differenti, non perché tutti cattolici.
E questo non è relativismo: è presa di coscienza che gli universalismi oggettivi basati sulla religione o sulla politica - sulla politica religiosa – sono una forma di dominio che si collocano – e lei cara Scaraffia si colloca forse inavvertitamente – sulla tradizione colonialista che ha costruito un certo “Occidente”. Non il mio…
In questo senso l’antropologia culturale è la scienza più politica che ci sia qui ed ora. E chi l’attacca si colloca – purtroppo non solo sul fronte neocattolico – su uno scenario di reazione scientifica e politica. Le ricerche dell’etnografia contemporanea mettono in discussione paradigmi consolidati in ogni fronte, anche a sinistra, in relazione a ciò che è il politico qui ed ora. Esse si aprono con eXtrema ricchezza intellettuale sulle differenze espresse dagli studi post-coloniali, di genere o sulle famiglie.
Possibile che ancora dobbiamo sottolineare le profonde e per tanti versi antagonistiche differenze tra il religioso e il sacro? E che il mito è non autonomo da entrambi e tantomeno dalle filosofie? Forse le seduttive pieghe delle tante mitologie non saranno mai spiegate o allineate né dalle religioni universalistiche e né dalle antropologie oggettivistiche. E allora termini come “agnostico”, “ateo” o “relativista” appartengono a un vocabolario polveroso basato su una logica insofferente e panottica: essi sono archeologie linguistiche che qualcuno vuole resuscitare per trovare facili slogan da usare per la felice alleanza politico-religiosa tra Ratzingher e Berlusconi.
Pare assurdo dover dire in questo secolo che le tesi di Lévi-Strauss sulla famiglia si basano su un tentativo di risolvere il tabù dell’incesto: che questo tabù non è naturale o divino, bensì permette in transito verso una visione culturale dell’umanità, cioè di scelte basate su secolari esperienze spesso implicite o inconsce che tentano di risolvere conflitti interi ed esterni ai gruppi familistici. Come la celebre analisi sui cugini incrociati ha dimostrato. E che vedere la cultura come nemica di una natura vista solo come divina è veramente un peccato. Ma non nel senso della Scaraffia…
Massimo canevacci

Anonimo

Consiglio di Facoltà del 25 luglio ’08
Scienze della Comunicazione
Sapienza Roma

OFFsdc Bruno Mazzara - Risoluzione nodo Canevacci Antropologia

http://it.youtube.com/watch?v=bDICIombG48

OFFICINAsdc CdF intervento prof. Mario Canevacci

http://it.youtube.com/watch?v=w1--OZFTzW4

Anonimo

X = il risultato del primo corso seguito in SdC, primo anno della riforma 3+2, inchiodata sulle poltroncine rosse (ma a volte sul pavimento) di un cinema, immersa in un'atmosfera esotica, gotica, antica e futuristica. Ho bevuto dalla vena pulsante di AC finché ho potuto... Continuo a seguirla attraverso le strade di questa rete globale: la ritrovo sempre.

Schiacciata dalla triennale, mi sono rialzata e laureata, ringrazio lei Prof. Canevacci per avermi dato l'ispirazione e l'apertura che hanno guidato sapientemente le scelte fondamentali della mia vita oggi. Mi auguro che ciò che è nato dentro di me quel lontano primo giorno di corso con lei, possa nascere dentro ognuno degli ultimi allievi del suo prossimo corso, fortunatamente sopravvissuto per questo anno.

Con affetto e una stima enorme, da una persona cambiata positivamente soprattutto dopo essere passata per l'ultima volta davanti la vecchia scarpa rossa nella bacheca.

X

Anonimo

è da qualche giorno on line il primo numero della rivista di Antropologia Medica
incollo qui il link http://www.rivistadiantropologiamedica.it , è il risultato di molti mesi di intenso e duro lavoro.
Le parole chiave di questo primo numero sono:

Corpo, salute e malattia

Incorporazione e mindful- body

Etnografia dell’esperienza, violenza strutturale e sofferenza sociale

Il secondo numero sarà centrato su "Salute e popolazioni migranti", infine, il terzo numero, centrato su "Etnopsichiatria: anoressia e bulimia", a partire dalla svolta demartiniana sulla crisi della presenza raccoglierà le più felici intuizioni in Etnopsichiatria e Antropologia Medica per sviluppare una ricerca sul campo sui disturbi dell'alimentazione.

ringrazio per la cortese attenzione

Anna Maria Di Miscio

Anonimo

sono combattuta, antropoloogia è un insegnamento splendido, che mi ha aperto la mente a conoscenze che nemmeno potevo immaginare, mi ha invitato e a riflettere su tante cose. ma dall'altra parte penso che come tanto insegnamenti a sdc, è tutta teoria che nn servira' a nulla, purtoppo, per l'0ingresso nel mondo del lavoro (spero sia quella la finalità di tanti sacrifici per ottenere una laurea), o perlomeno lo sarà per pochi fortunati eletti. Sicuramente ilproblema di sdc non si limita all'insegnamento dell'antropologia culturale, ma ora stanno un po' rivedendo tutto l'ordinamento e spero arriveranno a fare le scelte migliori er il futuro degli studenti. Mi dispiace ma.. da qualche parte si doveva iniziare per uscire da questo grande minestrone che è sdc.

Anonimo

Sono contento che finalmente lei abbia smesso di insegnare antropologia alla triennale!
Il problema non è che si è scelto un diverso indirizzo di studi, semplicemente lei non è la persona più indicata ad insegnare una tale materia. Non ha nessun tatto. Da quello che scrive dice di essere una persona aperta, in realtà è un cinico chiuso e perso nei suoi 'multi-vidui'. Difatti, esclusi i ruffiani, lei non è sopportato da nessuno: docenti e studenti.

MaxnoMax

All'ulitmo anonimo del 19 marzo, il quale si sente liberato dall'uscita di Canevacci, vorrei dire che salire sul carro dei vincitori è sempre troppo facile e soprattutto sviante. Anche perché in questo caso non ha vinto nessuno e tutti hanno perso. La normalizzazione universitaria affidata ai tanti ed alacri Torquemada di turno non lascia scampo alle voci fuori dal coro. Gli unici sconfitti in questa "battaglia" sono gli studenti. Io ho conosciuto ed amato l'antropologia culturale dall'insegnamento di Canevavcci Non smetterò mai di riconoscerlo come mio maestro. Progeseguite per la vostra strada in compagnia della politica più retriva che allegramente saluta le eccellenze rifugiandosi nella palude della normalità

carlos

Questo è un invito aperto per tutti voi a far parte della più grande organizzazione del mondo e raggiungere il massimo della tua carriera. All'inizio del programmatore di reclutamento di quest'anno e la nostra festa annuale del raccolto è quasi a portata di mano. Il Gran Maestro ci ha dato il mandato di raggiungere sempre persone come te, quindi cogli l'occasione e unisciti alla grande organizzazione degli Illuminati, unisciti alla nostra unità globale. Porta i poveri, i bisognosi e i talenti
L'importanza della fama e della ricchezza. Ottieni denaro, fama, poteri, sicurezza, ottieni.
riconosciuto nella tua attività, carriera politica, ascendi al massimo in qualunque cosa tu faccia, sii
Protetto spiritualmente e fisicamente! Tutto ciò in cui raggiungerai
un barlume di occhi

Gli Illuminati non hanno alcuna associazione con satanismo, luciferismo o altre religioni. Mentre i nostri membri individuali sono autorizzati a seguire qualunque divinità scelgano, operiamo esclusivamente per il beneficio e la protezione della specie umana.

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Anonymous

Non mancare di vedere la luce. siamo consapevoli che ci sono molte persone online che fingono di essere uno dei nostri agenti della fratellanza degli Illuminati. Fai attenzione, non tutti quelli che vedi online qui sono reali. Questa organizzazione è per PACE, WEALTH, POWER e FAME. L'organizzazione non richiede sacrifici di sangue Se interessati, cortesemente Whatsapp: +1(315)316-1521

Meltemi Editore 2009