venerdì 30 maggio 2008

8 giugno mobilitazione per i diritti dei rom

[di Massimo Iacobelli]

Nelle ultime settimane, si è scatenata una vera e propria caccia allo “zingaro” con un numero crescente di episodi di violenza a danno di uomini, donne e bambini rom.
Un pericoloso silenzio si è creato intorno questi episodi e pochissimi esponenti della cultura e della politica si sono pronunciati su queste incresciose circostanze.
Per questo motivo Thèm Romanó Onlus ha organizzato domenica 8 giugno a Roma una mobilitazione in favore del rispetto dei diritti del popolo rom e sinto. Una protesta civile contro il razzismo e per il rispetto delle convenzioni internazionali dei diritti dei popoli.
Per aderire all’iniziativa e per conoscere orari e percorso della manifestazione: associazionethemromano.

Alex Santino Spinelli, Presidente Nazionale dell’Associazione Nazionale Thèm Romanò Onlus, elenca alcuni punti per migliorare la situazione dei Rom in Italia e per combattere l’ondata di razzismo che si è abbattuta sul nostro paese. Eccone alcuni:

Sicurezza e la legalità vanno garantite per tutti, rom e sinti compresi. In contrasto con gli articoli della Costituzione Italiana, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con le normative europee ed internazionali, il popolo rom in Italia è costretto a vivere in condizioni disumane.

Oggi un una popolazione intera viene criminalizzata ma a sbagliare sono le singole persone e sono loro che vanno punite, non la nazione o il popolo di appartenenza. Impegnamoci per favorire l’integrazione di coloro che dimostrano una chiara volontà di partecipazione sociale evitando di porre sullo stesso piano chi merita e chi delinque.

E’ necessario smantellare i campi nomadi, vere e proprie pattumiere, luoghi degradati, centri di segregazione razziale permanente ed emblema della discriminazione.

Rom e sinti non sono nomadi per cultura. Chi oggi vive nei campi nomadi, ieri aveva una casa in Romania o nell’ex-Jugoslavia. La mobilità è sempre coatta e non è mai una scelta. Nel nostro Paese il 70% della popolazione romanì ha cittadinanza italiana e vive in delle case (l’arrivo dei romanì risale al XV secolo).

Bisogna facilitare l’accesso alle case popolari oppure sviluppare insediamenti urbanistici non ghettizzanti. E’ necessario favorire il più possibile la scolarizzazione, l’accesso all’assistenza sanitaria e l’entrata nel mondo del lavoro delle famiglie di rom e sinti più disagiate.

Promuovendo la conoscenza della storia, della cultura, dell’arte e della lingua dei rom e sinti si possono combattere gli stereotipi negativi e favorire l’integrazione. Oggi i rom sono al centro dell’attenzione mediatica esclusivamente per i fatti di cronaca che coinvolgono alcuni di loro, mentre non viene riservato spazio per gli eventi culturali che pur si organizzano sull’intero territorio nazionale (Festivals, concerti, mostre, esposizioni, convegni, rassegne cinematografiche, concorsi letterari, etc). Tutto questo genera un’immagine sbagliata di un’intera popolazione.

Dobbiamo prendere atto del palese fallimento delle forme di assistenzialismo che le associazioni di volontariato hanno portato avanti fino a questo momento. Ogni anno si sperperano centinaia di migliaia di euro per progetti di scarso o di nessun valore.

Si pone l’urgenza di creare in Italia una consulta composta da intellettuali Rom e Sinti che abbiano una esperienza internazionale sulla realtà delle comunità romanès che possa favorire la mediazione nella risoluzione dei problemi sociali e politici.

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mercoledì 28 maggio 2008

Elogio del suv

Oggi siamo in guerra, e io sono tenuto a proteggere me stesso e la mia famiglia. Perché in guerra si vince o si perde. E a vincere è chi si arma in modo da diventare più forte degli altri. In guerra si vive o si muore. Non mi chiedete di rassegnarmi a una probabile morte. Voi dite che così costituisco pericolo per chi non gira in SUV? E perché dovrei espormi io ai danni che mi possono provocare quelli che girano in SUV? Voi dite che così inquino e spreco? E perché dovrei preoccuparmi di difendere io l’ambiente? Il mio dovere è proteggere innanzitutto la mia famiglia. Forse che la mia morte in un incidente serve alla salvaguardia dell’ambiente? Voi dite che non c’è spazio, che io ne occupo troppo – in strada, nei centri città, nei parcheggi. Il punto non è questo, il punto è che io non voglio andare a occupare anticipatamente lo spazio di una bara. Perché, se non l’avete ancora capito, qui è in corso una guerra di tutti contro tutti, non l’ho voluta io, io sono costretto a combatterla, ma la voglio combattere con qualche possibilità di vincerla e sopravvivere. Voi dite che non sono socialmente responsabile. E di chi devo esserlo, se non innanzitutto di me e dei miei famigliari? Quando sarò morto, non mi consolerà il fatto di essere stato un ambientalista corretto, un altruista perfetto. Credete a me, chi ancora non si è comprato il SUV, è perché non ha i soldi per comprarselo, o perché non si è ancora reso bene conto del pericolo che corre. Se c’è sempre più gente che gira armata – di SUV o di pistola – io non so cosa farci, ma non posso neppure fare finta che non sia così. Se qualche male intenzionato capisce che io sono armato, vedrete che mi girerà alla larga. Perché, se non l’avete ancora capito, chi si fa pecora il lupo se la mangia. Io non sono nato lupo, ma perché dovrei accettare di morire come una pecora? Lasciatevi consigliare da me, fatevi un bel giro di prova su un SUV. Vedrete come vi sentirete in alto, fuori della mischia, al sicuro da tutti gli sfigati, gli sciocchi e i malintenzionati. Se poi qualche morto di sonno finisce per sbattervi contro, tranquilli, c’è l’assicurazione che paga, e un buon avvocato si trova sempre. Siamo in guerra, e in guerra si vince o si perde, si vive o si muore. Lasciamo le belle ciance agli idealisti..

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venerdì 23 maggio 2008

Rifiuti di stato

Si è mai visto al mondo che per mantenere pulita e in ordine la propria casa si debba essere costretti dall’intervento di una forza militare? Si è mai visto trasformare una antica e universale questione di igiene in fonte di speculazione e lucro, in minaccia collettiva e drammatica emergenza sanitaria? E si è mai visto al mondo che per riportare un minimo di ordine e di civile decoro, e ottenere il rispetto delle regole elementari di convivenza, siano nominati giusto coloro che hanno massimamente contribuito al loro dissesto e scardinamento? Oggi si direbbe essere la capacità dimostrata nel saper ricorrere senza remore né scrupoli all’uso della forza, a legittimare chi si candida alla guida. Cosicché, dopo avere fatto del proprio meglio per discreditare l’idoneità del cane del pastore, è il lupo a essere plebiscitariamente investito del compito. Il patto tacito è che, in cambio della protezione, potrà banchettare a piacere con le carni delle pecore più saporite e tenere. E’ come se una famiglia, come condizione estrema per la propria sopravvivenza, accettasse di sacrificare alle brame del protettore le sue migliori creature. Là dove non si capisce più dove stia il confine tra furbizia cinica, disperazione ottusa e follia suicida. A questo punto è la notte

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lunedì 19 maggio 2008

Gomorra. Alcune riflessioni dovute al film

Scampia, Napoli e buona parte della Campania sono realisticamente raffigurabili sotto forma di tumore. E questo tumore è il risultato di una parte e di un ruolo che Napoli, e buona parte della Campania, svolgono in sintonia con un sistema economico-malavitoso di carattere più generale – sicuramente nazionale, ma anche oltre. Sistema camorristico napoletan/campano, e sistema economico illegale nazionale, interagiscono e si tengono proficuamente insieme.

A comandare è la caccia frenetica e compulsiva alla conquista di grandi quantità di danaro attraverso il traffico di droga e le attività illecite capaci di produrne in abbondanza. Al comando di questo meccanismo di potere e ricchezza può aspirare soltanto chi si fa rispettare e temere, dimostrandosi rapido e disinibito nell’ infliggere anche la pena di morte.

(Può sembrare divagazione impertinente, ma forse non lo è. La notizia di questi giorni che rinviati a giudizio per la strage di Piazza della Loggia a Brescia sono alcuni caporioni fascisti come Rauti in qualità di esecutori, agenti dei servizi segreti come depistatori e occultatori in combutta con il generale Delfino, allora capitano de carabinieri incaricato delle indagini, richiama una logica nella sostanza non dissimile.
Forse anche ricordare che Alemanno ha sposato la figlia di Rauti, e Berlusconi era iscritto alla P2, può suonare impertinente, ma forse non lo è. D’altra parte, è stata la difesa del potere e della “roba” di una classe borghese spaventata dalla crescita minacciosa del movimento operaio e comunista, a portare negli anni Settanta e Ottanta, a partire dalla strage di Piazza Fontana a Milano, alla scelta di azioni di morte – la strategia della tensione e delle stragi – che costituiscono forma coerente ed estrema della lotta tra le classi adottata dalla borghesia per difendere i suoi privilegi. E la stessa cosa succedeva in quegli anni, e in forme ben più cruente, in Grecia, Cile, Argentina, dove venivano torturati ed eliminati, con la benedizione delle gerarchie della chiesa cattolica, decine di migliaia di oppositori. E non era già comunque successo in Italia agli inizi degli anni Venti, dopo il “biennio rosso” e gli scioperi operai, che capitalisti e agrari abbiano pensato bene di rispondere e reagire finanziando e armando le ronde – pardon! le squadracce fasciste?)

Rispetto al proliferare del tumore, di cui si ha referto cinematografico perfetto in Gomorra, la sinistra al governo si è dimostrata molle e inetta. Forse, piuttosto che intignarsi nel risanamento del bilancio, o preoccuparsi della fame in Africa, dei pellegrinaggi ad Auschwiz o delle notti bianche a Roma, era il caso di varare una legge sul conflitto di interessi… Ma la attuale destra non può risolvere alcunché: può anzi soltanto aggravare, perché è parte costitutiva e origine del problema. I peggiori rifiuti tossici interrati dalla camorra vengono dalle industrie venete e lombarde ferventi tremontiane, leghiste e forzaitaliote, così come tra i maggiori fruitori di droghe sono quei ricchi mercati, così come i proventi delle organizzazioni malavitose vengono reinvestiti nell’edilizia e nel commercio di Parma, Milano, Torino – Berlino, Madrid, New York…
Gomorra, il bel film di Garrone, non mette in scena il bene contro il male, il giusto e il diritto contro lo storto, la resistenza contro la resa. Ma il fatto che ci sono mille modi più o meno evidenti, più o meno espliciti, di assumere e interpretare il male. Qui siamo alla guerra di tutti contro tutti, alla corsa di torme di topi impazziti a chi uccide prima l’altro. Ai più deboli, a chi vorrebbe tirarsi da parte (il ragazzetto che consegna la spesa a domicilio, il ragioniere che smista le quote di denaro destinate dai capi clan alle famiglie con un membro affiliato in carcere, il sarto dal talento straordinario punito perché non totalmente disponibile agli ordini), viene brutalmente posta l’unica alternativa possibile: o con noi, e allora esegui ciò che noi ti ordiniamo, o con i nostri avversari, e allora aspettati un colpo di pistola alla testa.
Gomorra si presenta come una pietra tombale sopra una certa napoletanità folclorica artificiosamente per troppo tempo coltivata. Nel film il kitch sentimentale melenso delle canzonette è colonna sonora perfidamente perfetta della ferocia di cui sono impastate le storie messe in scena. Siamo in presenza di una somatizzazione del male evidente nelle fisionomie delle facce stravolte, delle voci rauche e stridule, dei corpi deformi. A interpretare le vicende della guerra che li sta distruggendo sono i protagonisti reali, quelli quotidianamente alle prese con le vicende raccontate. E coloro si prestano con uno zelo così evidente nel fare bene, con una partecipazione eccitata e quasi euforica: quasi in posa per una foto collettiva. Vedete - sembrano vantarsi - come noi sappiamo scannarci bene… Perché questo non è un solo un film, in realtà è uno psicodramma collettivo sotto forma di tragedia girata dal vivo e in diretta, con la adesione entusiastica dei carnefici che sono, anche e insieme, di sé stessi le vittime. Si direbbe che un intero popolo sia stato costretto, per sopravvivere, a una torsione maligna, a una condizione collettiva di sabba sado-maso. Vengono in mente i kapò dei campi di concentramento nazisti che spesso erano scelti, in cambio della sopravvivenza, tra gli stessi ebrei internati.
Allo stato dell’arte, e da quel che nel suo specifico racconta anche il film, si conferma che qui a vincere a mani basse sono Berlusconi e Montezemolo, papa Ratzinger e padre Pio. Il male trionfa? Hanno vinto manipolazione mediatica, superstizione e ignoranza, terrore di fronte all’esercizio arrogante ed esplicito della violenza? Non resta che affidarsi ai santi protettori, ai magnacci benefattori. Tanto ci sono sempre i rom che stanno peggio di noi e con cui siamo autorizzati a prendercela.
Le élites miliardarie e malavitose al potere sono oggi così forti che possono permettersi tutto: invocare piamente l’aiuto di Dio e inviare l’esercito a risolvere il problema dei rifiuti - non senza prima essersene riccamente serviti, e avere graziosamente offerto all’opposizione un incontro a colazione.
In preda a scoramento e disperazione, alla fine le masse oppresse hanno ritenuto necessario inginocchiarsi ai piedi dei carnefici, dichiarandosi pronte a tutto.
Gomorra conferma che questo è un Paese così avvilito e disperato da essere ridotto a chiedere protezione giusto ai monatti che hanno propagato il virus.
Toccherà, insieme al prode Bassolino, e come ultima chance per non affondare,
tifare per Berlusconi? E non è questo l’ultimo approdo ripugnante e osceno?

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giovedì 15 maggio 2008

Brutta storia

Brutta storia, questa di D’Avanzo.

Secondo lui, i Travaglio, i Grillo, i Di Pietro, i Santoro (ma anche i Woodcock, i De Magistris, le Forleo – ma anche, alla fin fine, i Falcone, i Borsellino e tutti quei giornalisti e giudici che sono stati ammazzati soltanto perché facevano bene il loro lavoro), apparterrebbero a un’unica, tenace, fastidiosa e petulante Agenzia del Risentimento. A decretarlo è l’Agenzia del Buon Sentimento, l’unica legittimata a operare – quella appunto di D’Avanzo. La prima può essere tollerata quando si fa docilmente utilizzare. Ma se rivendica autonomia e libertà d’azione, se pretende di giocare in proprio, se si mette di traverso e produce interferenza e disturbo, va screditata, disarticolata, distrutta.

Ricorda la vecchia scuola del PCI: se non ti accontenti del ruolo ornamentale di fiore all’occhiello, se non fai il docile “indipendente di sinistra”, se pretendi di operare non allineato e subalterno, allora io ti distruggo. Perché nessuno può permettersi di agire indisturbato alla mia sinistra.

Se la linea oggi decisa è quella moderata, soft e ultralight, se si abbozza e ci si acconcia alla cordiale intesa, alla difesa dei rispettivi campi di interesse, saltando a pié pari il macigno del loro conflitto con la sfera politico-istituzionale, chiunque non si adatti e aderisca si pone come oggettivo elemento di disturbo.

E così, D’Avanzo, tra i massimi esperti nella conoscenza dei fatti e misfatti del Bel Paese e da sempre propugnatore della libera, aperta – necessaria! – loro circolazione, affronta Travaglio all’arma bianca, reclamando la propria superiorità e l’altrui insipienza e malafede. Qualcuno, proprio della parte non sospetta, ha deciso che Schifani è sempre stato un galantuomo, o quantomeno è tornato a esserlo. E che la guerra è finita – o che almeno va dichiarato l’armistizio. E che chi non lo rispetta è un pericoloso disfattista. E’ come se, avendo concordato una tregua con i generali dell’esercito nemico, le truppe specializzate nell’assalto bianca all’improvviso non servissero più. Anzi, con le loro incursioni tra le file avversarie, quella tregua rischiano di affossarla… Ecco allora scendere in campo il campione tra i guastatori e gli arditi, e all’irriducibile Travaglio soavemente dice: vedi, caro, tu sbagli a usare come metodo la pugnalata alle spalle. E per dimostrarti quanto essa sia dolorosa, a scopo didattico/terapeutico te ne sferro una. Così magari capisci prima e impari subito. Poi si scopre che la storia raccontata è del tutto inventata/infondata? Pazienza. Non è esattamente questo il metodo usato da Travaglio? Di che si lamenta ora?

Brutta storia, questa di D’Avanzo. Di un cinismo manipolatorio da restarne disgustati.

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martedì 13 maggio 2008

A volte succede

A volte succede – purtroppo sempre più di rado – che la lettura di un romanzo coinvolga e catturi a tal punto che interromperla per qualche non rinviabile incombenza suona quasi iattura. E’ la prima osservazione che mi viene a proposito de La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Questo almeno è successo a me, e mi proverò a spiegare il perché.

Intanto, e innanzitutto, perché le vicende raccontate riguardano stagioni della vita – infanzia, adolescenza, prima giovinezza dentro la famiglia, la scuola e i gruppi di amicizia - che costituiscono esperienza universale. Il libro appartiene infatti al novero dei romanzi di formazione, perché mette in scena cosa succede a un individuo che, senza averlo chiesto né essere stato preventivamente consultato, approda a quel nucleo famigliare, in quel particolare contesto sociale; come reagisce e interagisce – si adatta e/o si oppone - con gli individui, i ruoli, le attese; come affronta e supera, o meno, i gradini – a volte molto impegnativi - di un percorso e di un destino già in larga misura definiti.

Obblighi e responsabilità, regole tacite o esplicite, avversioni e complicità, amicizie e inimicizie, solitudini e inadeguatezze, esclusioni e crudeltà, senso di appartenenza o di irriducibile estraneità, tutto costituisce trama e tessitura di un percorso da tutti sperimentato, fatto di impennate ripide e curve tortuose, improvvise e riposanti discese, di ostacoli e piazzole di sosta - fino a quella finale e definitiva.

Questo non costituisce in letteratura particolare novità: cimento, piuttosto, per ogni romanziere che si rispetti. In che cosa Giordano, alla sua opera prima e all’età di 26 anni, esce benissimo dalla prova? Nel fatto che si coglie fin dalle prime pagine che la sua voce, la sua scrittura, sono animate da una autenticità vera. Le vicende e le vite dei protagonisti sprigionano un carattere di necessità che si percepisce forte innanzitutto nell’autore stesso: prerequisito, questo, perché esse possano suonare vive e persuasive per chi legge, e non frutto di artificio studiato a tavolino. Pur non raccontando di sé in prima persona, si sente che l’autore è pienamente partecipe e coinvolto nei fatti che racconta, essendo però anche capace di porre tra sé e la materia incandescente, in qualche modo sicuramente sperimentata, il distacco che gli consente di dominarla fino a farle raggiungere la forma necessaria.

Lo stato di grazia cui attinge il racconto si trasmette alchemicamente a noi che leggiamo, consentendoci di cogliere il dato di verità delle figure protagoniste, di riconoscerci nella peculiarità unica e irripetibile delle loro storie.

Il 26enne Paolo Giordano ha capito, e nel libro perfettamente reso, che vivere è fare i conti con l’ambivalenza irriducibile dei sentimenti, con l’enigmaticità di incontri a volte felici, più spesso infelici, che attenuano una condizione di solitudine costitutiva, o la sigillano definitivamente.

Un’altra delle componenti che l’autore mette in luce è la casualità che determina gran parte dei nostri percorsi. Meglio ancora: quanto sia confuso e sottile il confine, e instabile l’equilibrio, nel gioco dell’incontro e scontro tra volontà soggettive. E quanto basti a volte un sospiro inavvertitamente emesso, un sorriso mancato, uno sguardo non controllato, una parola di troppo - o proprio quella necessaria scioccamente omessa - a determinare conseguenze irreparabili.

Noi – suggerisce “La solitudine dei numeri primi” - siamo in balia di pulsioni e forze che scarsamente conosciamo, comunque non controlliamo, o ci illudiamo di riuscire a dominare. Ci culliamo nell’illusione che bastino le belle intenzioni, i buoni consigli, i piccoli rituali rassicuranti per uscirne indenni. Ci troviamo, inaspettatamente e all’improvviso, ad affrontare drammi determinati da una catena di interazioni che viltà e debolezza, impreparazione, superficialità e impotenza il più delle volte ci impediscono di capire e affrontare in tempo.

Il libro di Giordano non è, beninteso, a tesi, non pretende di dimostrare o per forza convincere. È un libro non ribollente di effettacci e luci o gridato, è anzi soffuso di un pathos malinconico e discreto – e per questo particolarmente efficace. La luce spiovente e laterale che lo illumina è quella della comprensione e compassione per le vite e le storie che mette in scena. E’ anche duro e crudele, nel senso che non è furbescamente consolatorio, non finge né abbellisce per fare meno pensare e soffrire. Guardate che la vita è questa qui, dicono le pagine del racconto. E’ una fiaba che improvvisamente si spezza e vi può anche spezzare, un sogno che può all’improvviso tramutarsi in un incubo.

Nella vita delle buone famiglie e della migliore società drammi e tragedie arrivano di soppiatto, quasi imprevisti e a seguito di scelte e comportamenti animati dalle migliori intenzioni. Ed è dura, specialmente per bambini e ragazzini, riuscire a raccapezzarsi e sopravvivere con il cumulo di disamore e rancore pregresso in cui si imbattono. E là dove per fortuna e in qualche modo ce la fanno, lo strascico di traumi, fratture e ferite è terribile e doloroso.

Nel libro, Paolo Giordano ha infuso - facendone partecipe in qualche misura, quasi per magia e incantesimo, il lettore - la sua capacità di sguardo profondo, dandoci così in regalo i benefici di cui può essere capace il miracolo della scrittura. Che questo venga dall’opera prima di un autore così giovane aggiunge ammirazione e fiducia per quello di cui si sa dimostrarsi capace la vita.

Questo è un libro che a me ha fatto ricordare la capacità di empatia e l’afflato creaturale della Morante, il teatro della crudeltà di Artaud, la cronaca intensa, esatta e desolata delle prime esperienze omosessuali clandestine di Edmund White, lo stupore nel raccontare il mondo, colto così com’ è, dallo sguardo crudele e divertito del giovane Holden.

Questo è un libro che non ha padrini né mallevadori e, nato da sé e impostosi in virtù della sua sola forza, non deve nulla ad alcuna congrega o scuola. Per questo nelle accademie e nelle piccole cricche letterarie il suo successo sta suscitando inquietudine e allarme come succede ai pipistrelli in una grotta invasa da una accecante luce improvvisa.

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mercoledì 7 maggio 2008

Lars e una ragazza tutta sua

Finito di vedere il film, viene da chiedersi: come è possibile che una comunità fatta da persone così brave e buone, così gentili e compassionevoli, così generose e altruiste, generi un asociale fragile, complessato e psichicamente ustionato come il protagonista del film? I peggiori dispetti che i componenti della comunità rappresentata arrivano a farsi sono a livello di orsacchiotti di peluche o soldatini da collezione che i colleghi in ufficio si fanno reciprocamente sparire - restituendoli e chiedendo scusa subito dopo. E tutti loro – a parte qualche mugugno iniziale – accettano il gioco che la bambola di gomma a grandezza naturale sia la reale ragazza di Lars, al punto da affezionarsi e piangere a calde lacrime quando quella – sempre nella fantasia di Lars - sta male, muore, ne viene celebrato il funerale. Tutte vicende e situazioni evidentemente al limite – e oltre! – dell’inverosimile. Qualsiasi altra famiglia e comunità avrebbero molto rapidamente provvisto all’internamento dell’interessato – o a farsi matte risate (invidiose?) sul modo escogitato per provvedere ad un altrimenti problematico appagamento erotico.
Ma tutti – a partire dalla straordinariamente brava psicologa, da augurare a chiunque avesse bisogno di quel tipo di sostegno – si rendono (quasi) subito conto della serietà del gioco in atto, tutti si adeguano e corrispondono, da indurre a pensare alla seconda parte del film “La vita è meravigliosa” di Frank Capra. Ma appunto, nel nostro film manca la prima necessaria parte. Si parla, a spiegazione dei problemi di Lars, della mamma morta di parto alla sua nascita, del papà caduto in depressione, del fratello maggiore scappato per la frustrazione a gambe levate. Ma per come paradisiacamente ora si comportano fratello e moglie e l’intera comunità nel film, perché il film fosse credibile ci sarebbe stato bisogno del dramma del conflitto, di terribili cattivi all’opera. Di ciò nel film non c’è traccia. La comunità messa in scena è una comunità di angeli felici che solo angeli felici può generare. E’ un caso che la recensione del film apparsa su Il Foglio di Ferrara chiuda i suoi sperticati elogi dichiarando che quella comunità raccolta la domenica in chiesa attorno al suo pastore fa venire voglia di andarci ad abitare e a vivere? Ma sarà poi quella realtà rappresentativa della profonda provincia americana? Che Gus Van Sant e Michael Moore si siano inventati Columbine di sana pianta? Il messaggio del film – per salvare un membro in difficoltà tutti devono fare la loro parte, la pecorella smarrita merita l’impegno totale del buon pastore, ecc. – è interessante e condivisibile, non c’è dubbio. Ma così come è proposto rimane a livello di fiaba: benissimo girata e prodigiosamente interpretata, ma sempre fiaba.
La comunità reale con cui oggi dobbiamo fare i conti è purtroppo quella del bottegaio, del farmacista, del padroncino leghista che predicano fucili – per carità, del tutto simbolici! –, pulizia contro gli zingari e ronde armate. Per poi – oplà! - trovarci in presenza di ragazzotti naziskin che si inventano il pretesto della sigaretta negata per scaricare sul primo che capita la violenza della quale - prima, dalla loro stessa comunità - sono stati caricati a molla.
L’americano Lars e una ragazza tutta sua, o i ragazzi veronesi e una vittima predestinata tutta per loro?

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martedì 6 maggio 2008

Dove

Questo di Andrea Di Consoli (La curva della notte – Rizzoli 2008) è un libro funereo, viscerale e disperato.
Dove il protagonista, al volante della sua macchina, viene colpito da un infarto raccontato in dodici stazioni che attraversano e cuciono insieme la storia di una vita.
Dove le donne sono corpi agognati e disprezzati, da spogliare, aprire e riempire come sotto frenesia predatoria generata da horror vacui.
Dove gli esseri umani sono famigliarmente chiamati cani.
Dove per avvalorare la tesi che nella realtà odierna si ha a che fare con “cani senza ragione”, si ricorre al conforto – in exergo – di un frammento degli antichissimi Oracoli caldaici.
Dove l’amico di infanzia viene scoperto a letto con la madre mentre - lei famelica e consenziente - la umilia e schiavizza.
Dove la domanda con cui vent’anni dopo tormentare l’amico scoperto a letto con la madre è: ma lei, te l’ha preso in bocca?
Dove la giovane moglie dell’amico d’infanzia, quello scoperto a letto con la madre e indotto a un incidente d’auto che è in realtà un neanche tanto camuffato omicidio, è trofeo da portare immediatamente a letto.
Dove un amico più recente, giovane e bello, è buono soltanto come trastullo erotico, silente come statua dagli occhi senza iridi.
Dove corpi e ricordi delle persone care (madre, padre, mogli, amici) servono come materiali per la composizione violenta di intrecci incestuosi.
Dove i figli sono ingombri rifiutati e quindi, a loro volta, intossicati da rancori.
Dove gravita sospesa una atmosfera plumbea, da “quanto era bello l’antico sogno, e quanto è tutto inesorabilmente andato a male.”
Dove il protagonista non fa che bere e fumare e bere, in un parossismo autodistruttivo accompagnato da presentimenti di tumore ai polmoni, sbocchi di sangue, gambe paralizzate e altre allucinazioni tetre.
Dove la condizione umana viene rappresentata e descritta – con persuasiva efficacia - come una condizione di sputo, spurgo e stupro.
Dove i materiali di una vecchia fabbrica abbandonata, le luci di una discoteca, i trascorsi rivoluzionari sessantottini e i ricordi di un mesto mestiere da ferroviere (siamo lungo la costa di una più che probabile Calabria), fanno da quinta alla messa in scena di una nerissima tragedia.
Dove il protagonista si chiama Teseo. (Teseo: ma non era colui che, grazie al filo di Arianna, uccideva nel Labirinto il Minotauro e ne usciva salvando con sé i giovinetti destinati a vittime sacrificali?)
Dove anche un mitologico episodio di salvezza si trasforma in mimesi derisoria.
Dove non c’è un briciolo di speranza, la morte la fa da protagonista e la bellezza del mare e delle donne è luce livida che serve a meglio illuminarla.
Dove si sprigiona comunque una sotterranea e tenebrosa forza tellurica che, disturbando, cattura e intriga.
Che altro dire? Forse, che in una società e in una cultura dove la vita viene stupidamente siliconata, e la morte caparbiamente rimossa, anche la magistrale descrizione di una agonia dolorosamente prolungata costringe a guardare negli occhi gli aspetti cruciali di una realtà esplicitamente intera.

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lunedì 5 maggio 2008

Le belle vacanze

Al Villaggio Forte, o Forte Village Resort, entrate oltrepassando l’arco che all’ingresso vi dà il benvenuto. Siete a mezz’ora di macchina dall’aeroporto di Cagliari, 39 km dal capoluogo regionale sardo, a metà strada tra Pula e Teulada. Il calendario segna il 25 aprile, giorno che festeggia la Liberazione dell’Italia dal fascismo. Il clima è buono, il sole caldo e l’aria leggera. Siamo di venerdì, così sarà il tempo anche l’indomani e la domenica. Il soggiorno al Villaggio si preannuncia sotto il segno dei migliori auspici.

Sul vialetto che conduce al ricevimento vi attendono in parata una decina di modelli di vetture nuove fiammanti da mandare in sollucchero gli amanti delle macchine sportive di lusso. Eleganti, aerodinamiche, luccicanti di alluminio e odorose di cuoio, esigerebbero a cantarle un D’Annunzio redivivo. Non all’altezza di tanta bellezza, rispettoso mi inchino e frettoloso passo oltre. Vengo poi a sapere che la celebre Casa automobilistica ha concordato con la direzione del Villaggio due mesi di sponsorizzazione degli eventi ospitati. In cambio, chiunque dei partecipanti lo desideri può sperimentare, senza costi né obblighi, l’ebbrezza della guida di così portentose vetture. Quando si dice: aiutiamoci l’un l’altro e gli affari di ciascuno miglioreranno!

Esaurita questa breve e para commerciale nota introduttiva, proviamo ora a descrivere le caratteristiche del luogo che ci ospita. Intanto, e innanzitutto, a balzare agli occhi è una straordinaria natura tropical-mediterranea. Questo non è soltanto albergo e villaggio turistico: questo è un bosco, una foresta, una rigogliosa macchia mediterranea, una esuberante riserva floro-vivaistica, passeggiando dentro la quale, ben inserita e mimetizzata, capita di incontrare una considerevole varietà di eleganti edifici.

Il Villaggio Forte è, quindi e innanzitutto, una cornucopia di alberi e fiori di tutti i tipi. A essere più precisi, all’interno dei 25 ettari su cui il Villaggio di estende vivono oltre 60.000 piante curate da 80 giardinieri. Ci si sente letteralmente dentro un abbraccio di verde profumato. Chi ha costruito le strutture recettive del Villaggio sembra avere accolto, nella realizzazione degli edifici, la sfida posta da una natura eccelsa.

La storia del Villaggio è andata, in necessaria sintesi, così. Nato all’inizio degli anni Settanta grazie a un gruppo di imprenditori sardi (Saia, società del gruppo Bastogi), e rilevato da Charles Forte, italiano emigrato a Londra dalla Ciociaria, per cominciare furono costruiti i primi due piani degli attuale quattro dell’Hotel Il Castello. Poi, nel volgere degli anni, la mano tenace e amorosa del proprietario, diventato nel frattempo tra i primi al mondo nell’ambito del turismo alberghiero di lusso, ha sviluppato l’insediamento iniziale aggiungendo pezzi e parti, villaggi e borghi, fino alla dimensione attuale. Se vi serve qualche essenziale cifra, dentro la cinta dei 25 ettari il Villaggio oggi si compone di sette alberghi a 4 e 5 stelle; 700 camere e 20 suites; 14 bar e 21 ristoranti; 11campi da tennis e uno di golf, 10 piscine, un campo di calcio regolamentare, una palestra super attrezzata, un centro di talassoterapia con 6 vasche di acqua di mare a diversa temperatura. E’ anche disponibile un centro Congressi fornito di 18 sale di tutte le capienze e dimensioni.

A completare il quadro, serve qualche altra cifre. La recettività massima nei periodi di alta stagione (luglio e agosto) è di 1.800 persone per complessivi 250.000 clienti l’anno. I prezzi variano dalla mezza pensione in bassa stagione a 400 euro, fino agli 800/1200 in alta stagione. A persona. Ma una suite costa tra i 10.000 e i 15.000 euro a settimana. E la suite di lusso, o Royal Suite (quella dove hanno alloggiato star del calcio come David Beckam e Ronaldo) costa 7000 euro a notte. (Ohibò, trattasi di ben 180 metri quadri calpestabili circondati da terrazze con annessa piscina privata!).

Ma torniamo un istante a Charles Forte, originario della Ciociaria e fatto Lord dalla regina d’Inghilterra per meriti speciali. La proprietà del Villaggio gli è stata a un certo punto sottratta dalla scalata di un Fondo di investimento internazionale, Granada, ed è poi ripetutamente passata di mano in mano fino a che, l’anno scorso, è tornata in quelle italiane della Fimit di Capitalia e data in gestione al gruppo Marcegaglia, famiglia di Emma attuale presidente di Confindustria. Il caso vuole che proprio l’anno scorso Charles Forte se ne sia andato alla bella età di 98 anni. Quando si dice che un ciclo attinge al suo compimento…

Il valore attuale del Villaggio? Si parla di 300 milioni di euro. A farlo funzionare sono impegnati, nei periodi di alta stagione, 900 addetti ai compiti più vari: dal ricevimento all’amministrazione, dall’approvvigionamento alla preparazione dei cibi in cucina alla loro imbandigione a tavola, dalle pulizie al mantenimento in perfetta efficienza di tutte le parti di questa oasi naturale, di questo giardino mediterraneo tropicale, di questa macchina poderosa, eppure discreta e leggera, al servizio del benessere di chi sceglie di affidarsi alle sue cure.

A coordinare, sorvegliare e sovrintendere il tutto, da oltre 14 anni c’è Lorenzo Giannuzzi, il direttore generale insignito due anni fa di laurea honoris causa dall’Accademia del turismo internazionale russo. Ma, se è per questo, è il nono anno che al Villaggio Forte è assegnato il primo premio tra i migliori alberghi al mondo. Per connotare meglio la qualità del direttore è il caso di ricordare la sua scelta di premiare ogni anno il libro di uno scrittore: con un assegno di 5000 euro e mille copie acquistate e distribuite agli ospiti. Il che, in questi tempi di scarse letture e molte veline e troni televisivi, non è niente male. L’altr’anno è stato premiato il siciliano Pierangelo Buttafuoco, l’anno scorso la sarda Milena Agus.

Passeggiando per viottoli e viali - rigorosamente a piedi o in bicicletta -, curiosando tra impianti sportivi e spazi giochi, perlustrando angoli, anfratti e piazzette o piscine e spiagge attrezzate, ciò che colpisce è l’ordine, la pulizia, il decoro. Senza citare qui situazioni limite quali quella dei rifiuti campani, limitandosi a ricordare la normale trascuratezza e degrado delle nostre città, ciò che al Villaggio si sperimenta è l’esatto contrario. L’immagine della pulizia ed efficienza dell’insieme appaiono perfino maniacali – così come, d’altra parte l’arredo degli interni. Non occorre essere grandi esperti per cogliere fin da subito l’effetto della mano di persone che si direbbero innamorate del proprio lavoro. Tutto si avverte studiato e risolto per mettere l’ospite a proprio agio: spazi abbondanti, colori benissimo scelti, arredo funzionale e di ottimo gusto. Qui non c’è segno di avarizia o pacchianeria, di sfarzo inutile o di taccagneria. Il buon vivere, il buon abitare, il ben essere si rincorrono e si rinforzano a vicenda. Gli addetti ai vari compiti che si incontrano durante la giornata sono abbigliati in modo appropriato, vi salutano e sorridono senza interrompere quello che stanno facendo. Il messaggio che trasmettono è che il loro fare gli sta bene: il che, per trovarsi in un luogo dove chi lavora è al servizio di gente benestante, qui per riposare e divertirsi, suona un po’ miracoloso.

Voi dite che la mia descrizione può suonare viziata da un eccesso di entusiasmo? Dipende dal tipo di esperienza che questo luogo in tre giorni mi ha consentito. Voi girate per un reticolo di viali e vialetti - in bicicletta, il che è già di per sé piacevole -, in mezzo alla cornucopia di verde cui accennavo. All’improvviso sbucate in uno slargo allietato da un laghetto su cui si pavoneggia un gruppo di fenicotteri rosa. Ti osservano silenziosi con l’occhio un po’ sornione di chi nella vita ha visto ben altro. E tu, allontanandoti in bici, non puoi non portarti appresso un’ombra di inquietudine. Chi è lì provvisorio ed effimero, chi invece il solido e naturale protagonista?

Volete la prova dello stato di qualità e salute di cui gode il Villaggio? Osservate come al suo interno si muovono, cosa esprimono gli ospiti bambini. Vengono dal chiuso di case cittadine, dal traffico caotico e rumoroso, dalla puzza dell’inquinamento. Qui scorazzano liberi tra campi sportivi e campi giochi, piscine a loro misura e spiagge sabbiose e pulite. Non ci sono auto in circolazione, gli addetti ai vari servizi si muovono su piccole automobili elettriche silenziose e relativamente lente, il massimo del pericolo può venire da chi fa jogging o si muove in bicicletta. I bambini stanno raggruppati per loro conto, tranquilli ed eccitati per gli spazi liberi, appagati e rilassati. Al Villaggio riacquistano velocemente la salute che è loro congeniale. E noi adulti scopriamo quanto i bambini siano di per sé stessi, a loro diversissimo modo, tutti belli, e di quanto lo stile di vita cui sono costretti in città li faccia invece smorti e brutti. A osservarli per un po’, viene voglia di mescolarsi a loro anonimi e disarmati, gli scarponi chiodati lasciati fuori dalla porta, smemorati e persino un po’ più puri. Certo, sarebbe straordinario se tutti i bambini del mondo godessero di condizioni simili. Il poterlo concretamente osservare al Villaggio aiuta a capire quanto invece nella normalità diffusa i bambini ne siano lontani.

E ora è il caso, dopo l’infanzia, di spezzare una lancia anche a favore della prima giovinezza. E’ capitato che nei giorni di ospitalità goduti al Villaggio, ad accudirci durante i pasti sia stato un gruppo di giovani di una scuola alberghiera di Brescia prestati per un mese di stage al Forte. E’ successo che tra di loro – tutti di un livello di efficienza, serietà e professionalità irreprensibili - ce ne fossero alcuni particolarmente dotati in immagine e stile nello svolgimento del servizio. A me è venuto da pensare a certe descrizioni che al proposito si leggono nei romanzi di Thomas Mann e Robert Musil, o in certi film - uno in particolare, La vecchia signora di Ermanno Olmi. E non vi scandalizzate se all’improvviso mi è passata per la testa l’idea che a meritare di essere serviti fossero più loro che alcuni tra i commensali: per evidenti ragioni di eleganza e grazia - per classe, oserei perfino dire. Poi, la sera, sul tardi, nelle vicinanze del bowling dove si è giocato con un gruppo di amici, mi è capitato di scoprire che lì accanto a giocare a pallone su di un campetto ci fossero giusto i ragazzi della scuola alberghiera. Gli irreprensibili e professionali arcangeli del giorno si erano trasformati in satanassi impegnati a picchiare duro sul pallone, ma con una rabbia tale da far intuire cosa significhi, in termini di sacrificio e costrizione, il mestiere di servire a tavola persone molto più fortunate e ricche di te.

Nei miei ripetuti, felici ma anche un po’ infantilmente regressivi vagabondaggi in bici per vialetti e vicoli, a un certo punto ho involontariamente infilato un varco laterale che mi ha fatto irrompere in un cortiletto sul retro di un edificio che sembrava non avere alcuna evidente funzione. Poteva essere un deposito, un dormitorio per il personale, un magazzino. Negli angoli erano ammonticchiati sacchi e scatoloni, ai lati parcheggiate diverse delle piccole auto elettriche che percorrono in continuazione i vialetti del Village come blatte nelle tubature idrauliche o globuli nelle arterie. Nel centro del cortiletto, un gruppo di persone, uomini e donne, bivaccava senza livree né divise, totalmente privi della tensione sollecita e sorridente loro abitualmente propria. Chi ciondolava, chi fumava, nessuno proferiva parola. Nell’aria ristagnava sospeso un senso di sconforto e di abbandono, come l’attesa rassegnata di un inesorabile danno.

Mi sono sentito sottratto al cerchio magico, passato all’improvviso oltre lo specchio. Mi ha preso alla gola una sensazione di allarme come a un bambino cui viene interrotta la melodia prediletta, sottratto il giocattolo. Ho rinculato con la gola arsa, l’imbarazzo in testa di chi ha involontariamente compiuto qualcosa di sconveniente.

Mi sono reimmerso nel flusso abituale, tra immagini di facce felici e verde smagliante d’alberi, avvolto da colori allegri e ondate di profumi intensi. Ma irrefrenabili mi sono arrivate in testa domande a fiotti. Questo Villaggio non è, in buona sostanza, una sia pur splendida quinta teatrale dove viene messa in scena una recita? Non è abile e raffinato gioco di prestigio? Nella sua tensione alla armoniosa perfezione asettica, nel tentativo di creare un piccolo mondo ideale e fittizio, non si vuole in realtà eliminare dallo sguardo la presenza del disordine, evitare l’irrompere di qualsiasi segnale di conflitto, corruzione e degrado?

Questo Villaggio, al di là della dimensione concreta della vacanza bene organizzata, è anche la materializzazione di un mondo fuori del mondo, il sogno di un intatto e incontaminato eden primitivo. Per i ricchi che possono permetterselo è stato creato un angolo di protezione e riparo, un paradiso dove, pagando l’adeguato prezzo, il miele e il latte della felicità scorrono su comando. Là fuori si agitano spettri e fantasmi, scoppiano grida di rabbia e violenza, si tendono agguati ed esplodono bombe. Là fuori scorre il sangue e si muore di fame, sbarcano a frotte derelitti e miserabili, pullulano in transumanza moltitudini di dannati, l’aria è acre del fetore di cadaveri. Qui le tavole dei ristoranti rigurgitano di artisticamente modellate cascate di cibi prelibati, i bagni delle suites sono grandi quanto lo spazio dove in altre parti del mondo dormono intere famiglie. Bisognerebbe che anche i bambini di Gaza, o di qualcuna delle migliaia di favelas del mondo, potessero scoprire e apprezzare le agiate raffinatezze di questo nirvana sontuoso.

A contatto di tante e pregiate delizie, vengono in mente le parole finali del recente libretto di Giorgio Ruffolo, là dove il mondo attuale viene raffigurato come un appartamento composto di due stanze: in una si spreca e nell’altra si crepa.

Le cose vive, le cose vere, hanno alti e bassi, ombre e luci, pieni e vuoti. Le pelli più lisce hanno cicatrici a segnalare contusioni e ferite. A essere messo in scena qui è un livello tra i più avanzati di recita della felicità terrena. Tutto sembra illimitato e illimitatamente regalato, dalla scena è stata meticolosamente espunta l’idea stessa di sforzo, fatica. Qui tutto è dovuto, niente è rifiutato, ogni desiderio è prontamente appagato. Qui non si sentono odori cattivi, gli sguardi sono pieni di buoni sentimenti. E’ una esperienza inebriante di sospensione dei limiti angusti, delle regole strette, degli ostacoli insuperabili.

Poi, alla fine, prima dell’uscita e del ritorno alla realtà, si passa dal varco dove, forniti di carta di credito, si è rigorosamente attesi. Mentre si appone in calce la propria firma, si fa il pieno finale di complimenti e sorrisi. E, saliti sul pulman che porta all’aeroporto, dopo qualche chilometro si attraversa la selva irta di ferraglie, di torri fiammeggianti e di panciute cisterne del deposito carburanti della Saras di Moratti. Tutto è tornato ferruginoso e livido, massiccio e minaccioso.

Usciti dal mondo bucolico e sublime del Villaggio, si è tornati in quello vero dove si agitano intrecciati i simulacri della vita vera, e l’altrettanto reale presentimento di distruzione, inquinamento e morte.

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Meltemi Editore 2009