Il corpo di Zizek
[di Giancarlo Marchesini]
Già il primo contatto con l’immagine di Slavoj Zizek è piuttosto forte. Figura brevilinea e massiccia, barba irsuta, aureola di capelli disordinati e lunghi a incorniciare fronte e tempie, il nostro, in attesa che Giacomo Marramao concluda la sua piuttosto lunga presentazione, gli siede accanto con le maniche rimboccate a rileggere e correggere il testo base della sua lezione. In effetti, con voce didattica e impostata da allenato a lezioni in aula, Marramao la tira così per le lunghe – avrebbe voluto essere lui il relatore ufficiale? – che qualcuno tra il pubblico rumoreggia. Zizek, al suo fianco, espressione severa e penna impugnata a tirare sfreghi sui fogli, attende il turno. E, a ripagare con gli interessi l’esagerato spazio sottratto, appena avuto il microfono così letteralmente se ne esce. “Giacomo, mi hai dedicato un ritratto di profilo così elevato, che ogni tanto mi veniva l’impulso di guardarmi dietro per scoprire se non fosse per caso lì il tuo interlocutore vero. In psicoanalisi noi diciamo che l’elogio troppo sperticato di una persona equivale a un suo neanche tanto nascosto tentativo di castrazione…”. Il che, riconoscerete, è un ben fulminante e rivelatore biglietto da visita.
E poi Zizek è partito alla grande per i suoi tre quarti d’ora di conferenza. Ma prima ancora di commentare qualcuno dei suoi contenuti, credo valga la pena indugiare sulla descrizione dell’uomo e del personaggio. Qualche spunto sul suo aspetto fisico già l’ho dato. Il tono e le sonorità della voce meritano qualche ulteriore cenno. La sua è una voce particolarissima. Intanto Zizek parla in un inglese che si sente risultato dell’attraversamento di una lingua materna diversa (Zizek, filosofo e psicoanalista che ha amato Kant e Hegel, Marx e Heidegger rivisitandoli criticamente attraverso Lacan, è infatti sloveno). Il risultato è un impasto ibrido che tiene dentro durezza e sinuosità, scioltezza fluida e spigolosità aspra, il tutto caricato di una energia che rende le parole di Zizek un flusso di lava che si direbbe sgorgare da profonde scaturigini sulfuree. E queste sonorità vocali sue proprie sono il risultato, o sono comunque in evidente stretta relazione, dei concetti e pensieri di cui quella voce è veicolo, e di una passione veemente e a volte anche provocatoria con cui Zizek li vive e pronuncia.
Zizek non dice ciò che dice - attraverso il ricorso a materiali e linguaggi i più disparati, dal cinema alla letteratura, dalla politica all’aneddoto divertente e alla vera e propria barzelletta - soltanto per comunicare bene con il pubblico. Zizek è dentro le sue parole non solo con la sua strumentazione professionale, ma le sue parole sprofondano e riemergono da tutto se stesso. E porgendole – o scagliandole – trasmette non solo il suo pensiero, ma le emozioni e le passioni che lo abitano.
Zizek fa pensare a un fiume in piena, a una tempesta di energie, a un turbine che porta con sé una quantità molto larga ed eterogenea di spunti, esperienze, manufatti. Si percepisce che è posseduto e incalzato dal suo pensiero, che plasma ma ne è anche plasmato, in una battaglia che viene combattuta al punto da costituire spettacolo ancora prima di avere dipanato e fatto propria l’abbondanza di senso e significati di cui è vettore.
Un cenno particolare meritano i tic con cui Zizek accompagna l’esposizione del suo pensiero. Lo meritano, se non altro, perché così ripetuti ed evidenti da – in omaggio alla libertà critica di cui è propugnatore Zizek stesso - non poterne tacere. Innanzitutto, a cadenze regolari, le mani di Zizek scattano a sistemare l’irsutaggine dei capelli in caduta libera sulle tempie. Il gesto non è affatto funzionale a ciò che dovrebbe: i capelli continuano imperterriti a stare nella loro sparpagliata confusione. Il senso reale dell’operazione a me è piuttosto sembrato quello di un pericolo da Zizek temuto, e cioè che l’eccesso e l’urgenza di quello che dentro gli preme irrompa e lo travolga. Insomma, sistemare ogni poco alle tempie i capelli per lui significa assicurarsi che le pareti della testa siano sempre lì solide, malgrado la forza che da dentro spinge.
L’altro tic da cui Zizek è affetto è quello di portare d’impulso le dita di una mano a sfregare la punta del naso. Ed è gesto così insistito che la punta del naso ne ricava un’ impronta evidente di arrossamento irritato. Non serve essere grandi conoscitori del pensiero freudiano per capire che senso e radice di quel gesto compulsivo sono di natura sessuale. Infatti, la più che probabile chiave di lettura è quella di una corporeità coinvolta a tal punto e così interamente nella parola, da reclamare spazio e cittadinanza. Zizek cioè abita così a fondo il suo pensiero, lo vive così intensamente, da esserne coinvolto anche sessualmente. Dipendesse da lui, nel concorso e nel concerto di parti e funzioni, renderebbe esplicito ciò che profondamente sente e pensa: sesso in erezione incluso.
Queste osservazioni sono così fondate che, a riprova, il pubblico che gremisce la sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma, le persone a me vicine e a portata di sguardo, manifestano evidenti gli effetti che l’oratoria di Zizek produce. E’ raro infatti poter osservare espressioni tanto intensamente interessate, sguardi così eccitati, visi così accesi, sorrisi di complicità e risate liberatorie così esplicite. La parola forte, il pensiero esercitato e profondo, una verità proposta come corpo nudo perché sottratto a infingimenti e ipocrisie, liberano in chi ascolta un flusso palpabile di energia. Così come d’altra parte succede per l’ascolto di una sinfonia, per l’immersione in un mare cristallino e puro, per il piacere del sesso goduto con la persona amata.
Il pensiero di Zizek, espresso attraverso il corpo di Zizek medesimo, ha le proprietà di un potente antiossidante, di un acido che scioglie la mente da incrostazioni e ruggini, di un afrodisiaco dell’anima.
Veniamo ora a qualcuno dei contenuti ascoltati.
Noi viviamo in uno stato di contraddizione continua, di doppiezza e di menzogna. Ci raccontiamo di noi, come da tempo ha capito la psicoanalisi, un sacco di belle storie che non corrispondono per nulla alla verità. Noi non siamo quello che diciamo di essere, ma quello che facciamo. Zizek corrobora le sue affermazioni con il racconto di alcune storie. Ecco, ad esempio, lo scienziato Niels Bohr che all’ingresso della casa nuova fa appendere un ferro di cavallo. E agli amici che gli fanno notare stupiti che quella era una superstizione del tutto infondata e indegna di un grande scienziato, risponde: io so bene che è così come dite voi, ma qualcuno mi ha fatto notare che il ferro di cavallo potrebbe portare fortuna a prescindere da ciò che io credo o meno. A quel punto, nel dubbio, mi sono detto: perché non esporlo alla mia porta? Tanto a me non costa nulla…
E Zizek racconta ancora: un uomo era stato internato in un manicomio perché sosteneva di essere un chicco di grano: a rischio quindi, camminando per strada, di essere mangiato da qualche pollo di passaggio. Dopo un lungo trattamento da parte dei medici all’ospedale, l’uomo si era finalmente convinto di non essere più un chicco di grano. I medici, soddisfatti, a quel punto lo dimisero. Ma dopo qualche giorno, l’uomo tornò e chiese di essere riaccolto. I medici stupiti gli chiesero il perché. Perché – l’uomo rispose – io oramai so di non essere più un chicco di grano. Ma al pollo, qualcuno l’ha spiegato?
Il problema – spiega Zizek – non siamo solo noi, ma la nostra percezione, frutto di una lunga memoria ed esperienza storica, di sottostare a una condizione di minaccia permanente: da parte di qualcuno – il pollo della barzelletta – al quale conviene che in quella condizione noi continuiamo a vivere. Ognuno, anche se consapevole di non essere un chicco di grano, sa e sperimenta di avere a che fare con qualche pollo che lo vorrebbe mangiare. E’ la paura a tenerci legati a una serie di comportamenti e scelte, non il nostro reale bisogno e interesse. Senza condizionamento e manipolazione della minaccia e della paura, noi saremmo liberi, o quantomeno nella condizione di chiederci cosa vogliamo fare realmente di noi. Il problema è anche che molti, al solo pensiero di trovarsi a dover affrontare questo passaggio, preferiscono sottostare al pollo che gli garantisce almeno, paradossalmente, un qualche briciolo di certezza ontologica. Televisione e informazione dei media servono esattamente a questa funzione di indottrinamento anestetico, che rende alla fine tutti più docili, incapaci di mettere in discussione lo stato di cose esistente.
Zizek ha a lungo parlato di feticismo e censura, di tolleranza ipocrita che è il contrario di una vera libertà. E anche qui ha esposto il suo pensiero attraverso alcuni esempi. La sessualità, ad esempio, e di come essa è oggi terreno di discorsi e pratiche tra di loro opposte e contraddittorie. In fatto di sessualità oggi tutto è, apparentemente, lecito: orge, scambio di coppie, ricerca di piaceri e prestazioni stimolate da mille additivi. Tutto si può fare con tutti: gay, trans, travestiti, ecc. A una condizione: che si continui a fingere che il bambino è un essere asessuato. La sessualità del bambino è l’ultimo grande tabù in un mondo tollerante, spregiudicato, apparentemente liberato. Del pensiero di Freud è stato accolto e accettato tutto, meno il suo discorso sul fatto che il bambino è così sessuato da esserlo a 360° gradi, in forma perversa e polimorfa. Il 68 si era in qualche modo reso conto del problema, tanto che Cohn Bendit, che aveva fatto a Berlino esperienza di insegnante in una scuola materna, aveva dato conto del tipo di situazioni che si creano tra adulti e bambini in una situazione in cui viene lasciato spazio alla libera e spontanea manifestazione degli stimoli, dei bisogni e del linguaggio proprio della sfera sessuale. Non è curioso – annota Zizek - che sia stata la figlia di Ulrike Meinhof, fondatrice dell’omonima formazione delle brigate rosse tedesche, a denunciare oggi di apologia e istigazione alla pedofilia Cohn Bendit? Non è come se la figlia volesse dissociarsi e prendere le distanze, punire in modo traslato i suoi genitori, e riscattarsi in questo modo, agli occhi del mondo antisessantottino, del cognome che porta?
Anche sul tema della tolleranza razziale Zizek ha un punto di vista particolare e controcorrente. Martin Luther King non combatteva perché i bianchi “tollerassero” i neri. Ne reclamava la sostanziale uguaglianza. Le donne, d’altronde, non combattono per essere “tollerate” dall’uomo. Reclamano pari dignità, diritti, uguaglianza. La tolleranza è quindi un imbroglio e un inganno paternalistico di chi non vuole che le cose cambino, perché perderebbe i suoi privilegi.
Zizek affronta allo stesso modo anche i temi e le posizioni della multiculturalità. Noi non siamo omologhi e intercambiabili. Noi siamo uguali ma anche diversi e irriducibili uno all’altro. Bisogna schierarsi per la verità, che non è e non coincide con la tolleranza razziale e il rispetto della diversità e della multiculturalità. Per i musulmani deve valere il principio della libertà del loro culto e di costruire le loro moschee. Ma devono anche accettare che in quelle moschee possa liberamente entrare chiunque, per esprimere il suo pensiero anche critico e in dissenso, senza temere per queste, sentenze, condanne, fatwa. Bisogna battersi perché la Turchia entri nell’Unione europea, ma a condizione che accetti che, così come a Berlino e a Parigi oggi c’è un sindaco omosessuale, anche a Istanbul e a Ankara sia consentito a un omosessuale di diventare sindaco. Così come il Papa e il Vaticano devono accettare che un omosessuale possa diventare sindaco di Roma.
Zizek si è infine dichiarato fermamente comunista e anticapitalista, ma non nel loro senso storico e ideologico risaputo. Le forme storiche del comunismo realizzato non sono state altro che capitalismo di stato al servizio di una nomenclatura di privilegiati. Per Zizek oggi è necessario dichiarasi comunisti e anticapitalisti nel senso che oggi il capitalismo, nella sua fase matura di globalizzazione onnivora, sta privatizzando e mercificando i beni comuni fondamentali: acqua, aria, natura e territorio, la cui integrità biologica e il libero accesso a tutti sono indispensabili alla sopravvivenza dell’umanità e del pianeta.
Zizek ritiene necessario un percorso anche doloroso di conquista di libertà e verità, contro menzogna e ipocrisia di cui siamo prigionieri e che sono funzionali al dominio di pochi. La verità - potrebbe essere il suo motto – rende dolorosamente ma necessariamente liberi. Zizek sostiene necessario affrontare e smascherare imbrogli su temi delicati e scabrosi come la sessualità e la pedofilia, il potere politico, economico e religioso, i suoi meccanismi e dispositivi nascosti e castranti. Ritiene necessarie ripresa e rivalutazione di “certo” Marx e di “certo” Lenin. Zizek è comunista e anticapitalista nel senso e nella direzione che mi sono provato a riassumere. Uno Zizek ruvido, mai gratuitamente provocatore, capace di vigorose strigliate contropelo. Uno Zizek salutare e necessario.
In fine, un paio di cose dette sul ‘68 da Zizek vanno ricordate. La prima: il gioco utile e interessante non è quello di ricordare come eravamo, o di giudicare con gli occhi di oggi cosa è stato il ’68. E’ invece necessario guardarci e giudicarci, assumendo lo sguardo del ’68, cosa siamo diventati oggi, dove abbiamo sbagliato o tradito. Il ’68 è stato il punto più alto di messa in discussione dei rapporti di potere in famiglia (tra donne e uomini, tra adulti e bambini) e nella società (nella scuola, nelle istituzioni, nelle corporazioni professionali, nella magistratura, nell’esercito, nella stampa, ecc.).
E’ da quella vetta di spinta alla trasformazione democratica e alla liberazione individuale che bisogna guardare e giudicare il mondo d’oggi. E’ quel testimone che va ripreso e riportato avanti. Ricordando che l’estremismo altro non è che il nuovo rimasto imprigionato nel passato che reclama di essere riattivato e riproposto - come ha ricordato il critico cinematografico Edoardo Bruno in un suo intervento all’Auditorium del giorno prima.
Lo slogan tra i tanti del ‘68 che secondo Zizek meriterebbe di essere rilanciato? Siate realisti, chiedete l’impossibile.
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