Le belle vacanze
Al Villaggio Forte, o Forte Village Resort, entrate oltrepassando l’arco che all’ingresso vi dà il benvenuto. Siete a mezz’ora di macchina dall’aeroporto di Cagliari, 39 km dal capoluogo regionale sardo, a metà strada tra Pula e Teulada. Il calendario segna il 25 aprile, giorno che festeggia la Liberazione dell’Italia dal fascismo. Il clima è buono, il sole caldo e l’aria leggera. Siamo di venerdì, così sarà il tempo anche l’indomani e la domenica. Il soggiorno al Villaggio si preannuncia sotto il segno dei migliori auspici.
Sul vialetto che conduce al ricevimento vi attendono in parata una decina di modelli di vetture nuove fiammanti da mandare in sollucchero gli amanti delle macchine sportive di lusso. Eleganti, aerodinamiche, luccicanti di alluminio e odorose di cuoio, esigerebbero a cantarle un D’Annunzio redivivo. Non all’altezza di tanta bellezza, rispettoso mi inchino e frettoloso passo oltre. Vengo poi a sapere che la celebre Casa automobilistica ha concordato con la direzione del Villaggio due mesi di sponsorizzazione degli eventi ospitati. In cambio, chiunque dei partecipanti lo desideri può sperimentare, senza costi né obblighi, l’ebbrezza della guida di così portentose vetture. Quando si dice: aiutiamoci l’un l’altro e gli affari di ciascuno miglioreranno!
Esaurita questa breve e para commerciale nota introduttiva, proviamo ora a descrivere le caratteristiche del luogo che ci ospita. Intanto, e innanzitutto, a balzare agli occhi è una straordinaria natura tropical-mediterranea. Questo non è soltanto albergo e villaggio turistico: questo è un bosco, una foresta, una rigogliosa macchia mediterranea, una esuberante riserva floro-vivaistica, passeggiando dentro la quale, ben inserita e mimetizzata, capita di incontrare una considerevole varietà di eleganti edifici.
Il Villaggio Forte è, quindi e innanzitutto, una cornucopia di alberi e fiori di tutti i tipi. A essere più precisi, all’interno dei 25 ettari su cui il Villaggio di estende vivono oltre 60.000 piante curate da 80 giardinieri. Ci si sente letteralmente dentro un abbraccio di verde profumato. Chi ha costruito le strutture recettive del Villaggio sembra avere accolto, nella realizzazione degli edifici, la sfida posta da una natura eccelsa.
La storia del Villaggio è andata, in necessaria sintesi, così. Nato all’inizio degli anni Settanta grazie a un gruppo di imprenditori sardi (Saia, società del gruppo Bastogi), e rilevato da Charles Forte, italiano emigrato a Londra dalla Ciociaria, per cominciare furono costruiti i primi due piani degli attuale quattro dell’Hotel Il Castello. Poi, nel volgere degli anni, la mano tenace e amorosa del proprietario, diventato nel frattempo tra i primi al mondo nell’ambito del turismo alberghiero di lusso, ha sviluppato l’insediamento iniziale aggiungendo pezzi e parti, villaggi e borghi, fino alla dimensione attuale. Se vi serve qualche essenziale cifra, dentro la cinta dei 25 ettari il Villaggio oggi si compone di sette alberghi a 4 e 5 stelle; 700 camere e 20 suites; 14 bar e 21 ristoranti; 11campi da tennis e uno di golf, 10 piscine, un campo di calcio regolamentare, una palestra super attrezzata, un centro di talassoterapia con 6 vasche di acqua di mare a diversa temperatura. E’ anche disponibile un centro Congressi fornito di 18 sale di tutte le capienze e dimensioni.
A completare il quadro, serve qualche altra cifre. La recettività massima nei periodi di alta stagione (luglio e agosto) è di 1.800 persone per complessivi 250.000 clienti l’anno. I prezzi variano dalla mezza pensione in bassa stagione a 400 euro, fino agli 800/1200 in alta stagione. A persona. Ma una suite costa tra i 10.000 e i 15.000 euro a settimana. E la suite di lusso, o Royal Suite (quella dove hanno alloggiato star del calcio come David Beckam e Ronaldo) costa 7000 euro a notte. (Ohibò, trattasi di ben 180 metri quadri calpestabili circondati da terrazze con annessa piscina privata!).
Ma torniamo un istante a Charles Forte, originario della Ciociaria e fatto Lord dalla regina d’Inghilterra per meriti speciali. La proprietà del Villaggio gli è stata a un certo punto sottratta dalla scalata di un Fondo di investimento internazionale, Granada, ed è poi ripetutamente passata di mano in mano fino a che, l’anno scorso, è tornata in quelle italiane della Fimit di Capitalia e data in gestione al gruppo Marcegaglia, famiglia di Emma attuale presidente di Confindustria. Il caso vuole che proprio l’anno scorso Charles Forte se ne sia andato alla bella età di 98 anni. Quando si dice che un ciclo attinge al suo compimento…
Il valore attuale del Villaggio? Si parla di 300 milioni di euro. A farlo funzionare sono impegnati, nei periodi di alta stagione, 900 addetti ai compiti più vari: dal ricevimento all’amministrazione, dall’approvvigionamento alla preparazione dei cibi in cucina alla loro imbandigione a tavola, dalle pulizie al mantenimento in perfetta efficienza di tutte le parti di questa oasi naturale, di questo giardino mediterraneo tropicale, di questa macchina poderosa, eppure discreta e leggera, al servizio del benessere di chi sceglie di affidarsi alle sue cure.
A coordinare, sorvegliare e sovrintendere il tutto, da oltre 14 anni c’è Lorenzo Giannuzzi, il direttore generale insignito due anni fa di laurea honoris causa dall’Accademia del turismo internazionale russo. Ma, se è per questo, è il nono anno che al Villaggio Forte è assegnato il primo premio tra i migliori alberghi al mondo. Per connotare meglio la qualità del direttore è il caso di ricordare la sua scelta di premiare ogni anno il libro di uno scrittore: con un assegno di 5000 euro e mille copie acquistate e distribuite agli ospiti. Il che, in questi tempi di scarse letture e molte veline e troni televisivi, non è niente male. L’altr’anno è stato premiato il siciliano Pierangelo Buttafuoco, l’anno scorso la sarda Milena Agus.
Passeggiando per viottoli e viali - rigorosamente a piedi o in bicicletta -, curiosando tra impianti sportivi e spazi giochi, perlustrando angoli, anfratti e piazzette o piscine e spiagge attrezzate, ciò che colpisce è l’ordine, la pulizia, il decoro. Senza citare qui situazioni limite quali quella dei rifiuti campani, limitandosi a ricordare la normale trascuratezza e degrado delle nostre città, ciò che al Villaggio si sperimenta è l’esatto contrario. L’immagine della pulizia ed efficienza dell’insieme appaiono perfino maniacali – così come, d’altra parte l’arredo degli interni. Non occorre essere grandi esperti per cogliere fin da subito l’effetto della mano di persone che si direbbero innamorate del proprio lavoro. Tutto si avverte studiato e risolto per mettere l’ospite a proprio agio: spazi abbondanti, colori benissimo scelti, arredo funzionale e di ottimo gusto. Qui non c’è segno di avarizia o pacchianeria, di sfarzo inutile o di taccagneria. Il buon vivere, il buon abitare, il ben essere si rincorrono e si rinforzano a vicenda. Gli addetti ai vari compiti che si incontrano durante la giornata sono abbigliati in modo appropriato, vi salutano e sorridono senza interrompere quello che stanno facendo. Il messaggio che trasmettono è che il loro fare gli sta bene: il che, per trovarsi in un luogo dove chi lavora è al servizio di gente benestante, qui per riposare e divertirsi, suona un po’ miracoloso.
Voi dite che la mia descrizione può suonare viziata da un eccesso di entusiasmo? Dipende dal tipo di esperienza che questo luogo in tre giorni mi ha consentito. Voi girate per un reticolo di viali e vialetti - in bicicletta, il che è già di per sé piacevole -, in mezzo alla cornucopia di verde cui accennavo. All’improvviso sbucate in uno slargo allietato da un laghetto su cui si pavoneggia un gruppo di fenicotteri rosa. Ti osservano silenziosi con l’occhio un po’ sornione di chi nella vita ha visto ben altro. E tu, allontanandoti in bici, non puoi non portarti appresso un’ombra di inquietudine. Chi è lì provvisorio ed effimero, chi invece il solido e naturale protagonista?
Volete la prova dello stato di qualità e salute di cui gode il Villaggio? Osservate come al suo interno si muovono, cosa esprimono gli ospiti bambini. Vengono dal chiuso di case cittadine, dal traffico caotico e rumoroso, dalla puzza dell’inquinamento. Qui scorazzano liberi tra campi sportivi e campi giochi, piscine a loro misura e spiagge sabbiose e pulite. Non ci sono auto in circolazione, gli addetti ai vari servizi si muovono su piccole automobili elettriche silenziose e relativamente lente, il massimo del pericolo può venire da chi fa jogging o si muove in bicicletta. I bambini stanno raggruppati per loro conto, tranquilli ed eccitati per gli spazi liberi, appagati e rilassati. Al Villaggio riacquistano velocemente la salute che è loro congeniale. E noi adulti scopriamo quanto i bambini siano di per sé stessi, a loro diversissimo modo, tutti belli, e di quanto lo stile di vita cui sono costretti in città li faccia invece smorti e brutti. A osservarli per un po’, viene voglia di mescolarsi a loro anonimi e disarmati, gli scarponi chiodati lasciati fuori dalla porta, smemorati e persino un po’ più puri. Certo, sarebbe straordinario se tutti i bambini del mondo godessero di condizioni simili. Il poterlo concretamente osservare al Villaggio aiuta a capire quanto invece nella normalità diffusa i bambini ne siano lontani.
E ora è il caso, dopo l’infanzia, di spezzare una lancia anche a favore della prima giovinezza. E’ capitato che nei giorni di ospitalità goduti al Villaggio, ad accudirci durante i pasti sia stato un gruppo di giovani di una scuola alberghiera di Brescia prestati per un mese di stage al Forte. E’ successo che tra di loro – tutti di un livello di efficienza, serietà e professionalità irreprensibili - ce ne fossero alcuni particolarmente dotati in immagine e stile nello svolgimento del servizio. A me è venuto da pensare a certe descrizioni che al proposito si leggono nei romanzi di Thomas Mann e Robert Musil, o in certi film - uno in particolare, La vecchia signora di Ermanno Olmi. E non vi scandalizzate se all’improvviso mi è passata per la testa l’idea che a meritare di essere serviti fossero più loro che alcuni tra i commensali: per evidenti ragioni di eleganza e grazia - per classe, oserei perfino dire. Poi, la sera, sul tardi, nelle vicinanze del bowling dove si è giocato con un gruppo di amici, mi è capitato di scoprire che lì accanto a giocare a pallone su di un campetto ci fossero giusto i ragazzi della scuola alberghiera. Gli irreprensibili e professionali arcangeli del giorno si erano trasformati in satanassi impegnati a picchiare duro sul pallone, ma con una rabbia tale da far intuire cosa significhi, in termini di sacrificio e costrizione, il mestiere di servire a tavola persone molto più fortunate e ricche di te.
Nei miei ripetuti, felici ma anche un po’ infantilmente regressivi vagabondaggi in bici per vialetti e vicoli, a un certo punto ho involontariamente infilato un varco laterale che mi ha fatto irrompere in un cortiletto sul retro di un edificio che sembrava non avere alcuna evidente funzione. Poteva essere un deposito, un dormitorio per il personale, un magazzino. Negli angoli erano ammonticchiati sacchi e scatoloni, ai lati parcheggiate diverse delle piccole auto elettriche che percorrono in continuazione i vialetti del Village come blatte nelle tubature idrauliche o globuli nelle arterie. Nel centro del cortiletto, un gruppo di persone, uomini e donne, bivaccava senza livree né divise, totalmente privi della tensione sollecita e sorridente loro abitualmente propria. Chi ciondolava, chi fumava, nessuno proferiva parola. Nell’aria ristagnava sospeso un senso di sconforto e di abbandono, come l’attesa rassegnata di un inesorabile danno.
Mi sono sentito sottratto al cerchio magico, passato all’improvviso oltre lo specchio. Mi ha preso alla gola una sensazione di allarme come a un bambino cui viene interrotta la melodia prediletta, sottratto il giocattolo. Ho rinculato con la gola arsa, l’imbarazzo in testa di chi ha involontariamente compiuto qualcosa di sconveniente.
Mi sono reimmerso nel flusso abituale, tra immagini di facce felici e verde smagliante d’alberi, avvolto da colori allegri e ondate di profumi intensi. Ma irrefrenabili mi sono arrivate in testa domande a fiotti. Questo Villaggio non è, in buona sostanza, una sia pur splendida quinta teatrale dove viene messa in scena una recita? Non è abile e raffinato gioco di prestigio? Nella sua tensione alla armoniosa perfezione asettica, nel tentativo di creare un piccolo mondo ideale e fittizio, non si vuole in realtà eliminare dallo sguardo la presenza del disordine, evitare l’irrompere di qualsiasi segnale di conflitto, corruzione e degrado?
Questo Villaggio, al di là della dimensione concreta della vacanza bene organizzata, è anche la materializzazione di un mondo fuori del mondo, il sogno di un intatto e incontaminato eden primitivo. Per i ricchi che possono permetterselo è stato creato un angolo di protezione e riparo, un paradiso dove, pagando l’adeguato prezzo, il miele e il latte della felicità scorrono su comando. Là fuori si agitano spettri e fantasmi, scoppiano grida di rabbia e violenza, si tendono agguati ed esplodono bombe. Là fuori scorre il sangue e si muore di fame, sbarcano a frotte derelitti e miserabili, pullulano in transumanza moltitudini di dannati, l’aria è acre del fetore di cadaveri. Qui le tavole dei ristoranti rigurgitano di artisticamente modellate cascate di cibi prelibati, i bagni delle suites sono grandi quanto lo spazio dove in altre parti del mondo dormono intere famiglie. Bisognerebbe che anche i bambini di Gaza, o di qualcuna delle migliaia di favelas del mondo, potessero scoprire e apprezzare le agiate raffinatezze di questo nirvana sontuoso.
A contatto di tante e pregiate delizie, vengono in mente le parole finali del recente libretto di Giorgio Ruffolo, là dove il mondo attuale viene raffigurato come un appartamento composto di due stanze: in una si spreca e nell’altra si crepa.
Le cose vive, le cose vere, hanno alti e bassi, ombre e luci, pieni e vuoti. Le pelli più lisce hanno cicatrici a segnalare contusioni e ferite. A essere messo in scena qui è un livello tra i più avanzati di recita della felicità terrena. Tutto sembra illimitato e illimitatamente regalato, dalla scena è stata meticolosamente espunta l’idea stessa di sforzo, fatica. Qui tutto è dovuto, niente è rifiutato, ogni desiderio è prontamente appagato. Qui non si sentono odori cattivi, gli sguardi sono pieni di buoni sentimenti. E’ una esperienza inebriante di sospensione dei limiti angusti, delle regole strette, degli ostacoli insuperabili.
Poi, alla fine, prima dell’uscita e del ritorno alla realtà, si passa dal varco dove, forniti di carta di credito, si è rigorosamente attesi. Mentre si appone in calce la propria firma, si fa il pieno finale di complimenti e sorrisi. E, saliti sul pulman che porta all’aeroporto, dopo qualche chilometro si attraversa la selva irta di ferraglie, di torri fiammeggianti e di panciute cisterne del deposito carburanti della Saras di Moratti. Tutto è tornato ferruginoso e livido, massiccio e minaccioso.
Usciti dal mondo bucolico e sublime del Villaggio, si è tornati in quello vero dove si agitano intrecciati i simulacri della vita vera, e l’altrettanto reale presentimento di distruzione, inquinamento e morte.
Sul vialetto che conduce al ricevimento vi attendono in parata una decina di modelli di vetture nuove fiammanti da mandare in sollucchero gli amanti delle macchine sportive di lusso. Eleganti, aerodinamiche, luccicanti di alluminio e odorose di cuoio, esigerebbero a cantarle un D’Annunzio redivivo. Non all’altezza di tanta bellezza, rispettoso mi inchino e frettoloso passo oltre. Vengo poi a sapere che la celebre Casa automobilistica ha concordato con la direzione del Villaggio due mesi di sponsorizzazione degli eventi ospitati. In cambio, chiunque dei partecipanti lo desideri può sperimentare, senza costi né obblighi, l’ebbrezza della guida di così portentose vetture. Quando si dice: aiutiamoci l’un l’altro e gli affari di ciascuno miglioreranno!
Esaurita questa breve e para commerciale nota introduttiva, proviamo ora a descrivere le caratteristiche del luogo che ci ospita. Intanto, e innanzitutto, a balzare agli occhi è una straordinaria natura tropical-mediterranea. Questo non è soltanto albergo e villaggio turistico: questo è un bosco, una foresta, una rigogliosa macchia mediterranea, una esuberante riserva floro-vivaistica, passeggiando dentro la quale, ben inserita e mimetizzata, capita di incontrare una considerevole varietà di eleganti edifici.
Il Villaggio Forte è, quindi e innanzitutto, una cornucopia di alberi e fiori di tutti i tipi. A essere più precisi, all’interno dei 25 ettari su cui il Villaggio di estende vivono oltre 60.000 piante curate da 80 giardinieri. Ci si sente letteralmente dentro un abbraccio di verde profumato. Chi ha costruito le strutture recettive del Villaggio sembra avere accolto, nella realizzazione degli edifici, la sfida posta da una natura eccelsa.
La storia del Villaggio è andata, in necessaria sintesi, così. Nato all’inizio degli anni Settanta grazie a un gruppo di imprenditori sardi (Saia, società del gruppo Bastogi), e rilevato da Charles Forte, italiano emigrato a Londra dalla Ciociaria, per cominciare furono costruiti i primi due piani degli attuale quattro dell’Hotel Il Castello. Poi, nel volgere degli anni, la mano tenace e amorosa del proprietario, diventato nel frattempo tra i primi al mondo nell’ambito del turismo alberghiero di lusso, ha sviluppato l’insediamento iniziale aggiungendo pezzi e parti, villaggi e borghi, fino alla dimensione attuale. Se vi serve qualche essenziale cifra, dentro la cinta dei 25 ettari il Villaggio oggi si compone di sette alberghi a 4 e 5 stelle; 700 camere e 20 suites; 14 bar e 21 ristoranti; 11campi da tennis e uno di golf, 10 piscine, un campo di calcio regolamentare, una palestra super attrezzata, un centro di talassoterapia con 6 vasche di acqua di mare a diversa temperatura. E’ anche disponibile un centro Congressi fornito di 18 sale di tutte le capienze e dimensioni.
A completare il quadro, serve qualche altra cifre. La recettività massima nei periodi di alta stagione (luglio e agosto) è di 1.800 persone per complessivi 250.000 clienti l’anno. I prezzi variano dalla mezza pensione in bassa stagione a 400 euro, fino agli 800/1200 in alta stagione. A persona. Ma una suite costa tra i 10.000 e i 15.000 euro a settimana. E la suite di lusso, o Royal Suite (quella dove hanno alloggiato star del calcio come David Beckam e Ronaldo) costa 7000 euro a notte. (Ohibò, trattasi di ben 180 metri quadri calpestabili circondati da terrazze con annessa piscina privata!).
Ma torniamo un istante a Charles Forte, originario della Ciociaria e fatto Lord dalla regina d’Inghilterra per meriti speciali. La proprietà del Villaggio gli è stata a un certo punto sottratta dalla scalata di un Fondo di investimento internazionale, Granada, ed è poi ripetutamente passata di mano in mano fino a che, l’anno scorso, è tornata in quelle italiane della Fimit di Capitalia e data in gestione al gruppo Marcegaglia, famiglia di Emma attuale presidente di Confindustria. Il caso vuole che proprio l’anno scorso Charles Forte se ne sia andato alla bella età di 98 anni. Quando si dice che un ciclo attinge al suo compimento…
Il valore attuale del Villaggio? Si parla di 300 milioni di euro. A farlo funzionare sono impegnati, nei periodi di alta stagione, 900 addetti ai compiti più vari: dal ricevimento all’amministrazione, dall’approvvigionamento alla preparazione dei cibi in cucina alla loro imbandigione a tavola, dalle pulizie al mantenimento in perfetta efficienza di tutte le parti di questa oasi naturale, di questo giardino mediterraneo tropicale, di questa macchina poderosa, eppure discreta e leggera, al servizio del benessere di chi sceglie di affidarsi alle sue cure.
A coordinare, sorvegliare e sovrintendere il tutto, da oltre 14 anni c’è Lorenzo Giannuzzi, il direttore generale insignito due anni fa di laurea honoris causa dall’Accademia del turismo internazionale russo. Ma, se è per questo, è il nono anno che al Villaggio Forte è assegnato il primo premio tra i migliori alberghi al mondo. Per connotare meglio la qualità del direttore è il caso di ricordare la sua scelta di premiare ogni anno il libro di uno scrittore: con un assegno di 5000 euro e mille copie acquistate e distribuite agli ospiti. Il che, in questi tempi di scarse letture e molte veline e troni televisivi, non è niente male. L’altr’anno è stato premiato il siciliano Pierangelo Buttafuoco, l’anno scorso la sarda Milena Agus.
Passeggiando per viottoli e viali - rigorosamente a piedi o in bicicletta -, curiosando tra impianti sportivi e spazi giochi, perlustrando angoli, anfratti e piazzette o piscine e spiagge attrezzate, ciò che colpisce è l’ordine, la pulizia, il decoro. Senza citare qui situazioni limite quali quella dei rifiuti campani, limitandosi a ricordare la normale trascuratezza e degrado delle nostre città, ciò che al Villaggio si sperimenta è l’esatto contrario. L’immagine della pulizia ed efficienza dell’insieme appaiono perfino maniacali – così come, d’altra parte l’arredo degli interni. Non occorre essere grandi esperti per cogliere fin da subito l’effetto della mano di persone che si direbbero innamorate del proprio lavoro. Tutto si avverte studiato e risolto per mettere l’ospite a proprio agio: spazi abbondanti, colori benissimo scelti, arredo funzionale e di ottimo gusto. Qui non c’è segno di avarizia o pacchianeria, di sfarzo inutile o di taccagneria. Il buon vivere, il buon abitare, il ben essere si rincorrono e si rinforzano a vicenda. Gli addetti ai vari compiti che si incontrano durante la giornata sono abbigliati in modo appropriato, vi salutano e sorridono senza interrompere quello che stanno facendo. Il messaggio che trasmettono è che il loro fare gli sta bene: il che, per trovarsi in un luogo dove chi lavora è al servizio di gente benestante, qui per riposare e divertirsi, suona un po’ miracoloso.
Voi dite che la mia descrizione può suonare viziata da un eccesso di entusiasmo? Dipende dal tipo di esperienza che questo luogo in tre giorni mi ha consentito. Voi girate per un reticolo di viali e vialetti - in bicicletta, il che è già di per sé piacevole -, in mezzo alla cornucopia di verde cui accennavo. All’improvviso sbucate in uno slargo allietato da un laghetto su cui si pavoneggia un gruppo di fenicotteri rosa. Ti osservano silenziosi con l’occhio un po’ sornione di chi nella vita ha visto ben altro. E tu, allontanandoti in bici, non puoi non portarti appresso un’ombra di inquietudine. Chi è lì provvisorio ed effimero, chi invece il solido e naturale protagonista?
Volete la prova dello stato di qualità e salute di cui gode il Villaggio? Osservate come al suo interno si muovono, cosa esprimono gli ospiti bambini. Vengono dal chiuso di case cittadine, dal traffico caotico e rumoroso, dalla puzza dell’inquinamento. Qui scorazzano liberi tra campi sportivi e campi giochi, piscine a loro misura e spiagge sabbiose e pulite. Non ci sono auto in circolazione, gli addetti ai vari servizi si muovono su piccole automobili elettriche silenziose e relativamente lente, il massimo del pericolo può venire da chi fa jogging o si muove in bicicletta. I bambini stanno raggruppati per loro conto, tranquilli ed eccitati per gli spazi liberi, appagati e rilassati. Al Villaggio riacquistano velocemente la salute che è loro congeniale. E noi adulti scopriamo quanto i bambini siano di per sé stessi, a loro diversissimo modo, tutti belli, e di quanto lo stile di vita cui sono costretti in città li faccia invece smorti e brutti. A osservarli per un po’, viene voglia di mescolarsi a loro anonimi e disarmati, gli scarponi chiodati lasciati fuori dalla porta, smemorati e persino un po’ più puri. Certo, sarebbe straordinario se tutti i bambini del mondo godessero di condizioni simili. Il poterlo concretamente osservare al Villaggio aiuta a capire quanto invece nella normalità diffusa i bambini ne siano lontani.
E ora è il caso, dopo l’infanzia, di spezzare una lancia anche a favore della prima giovinezza. E’ capitato che nei giorni di ospitalità goduti al Villaggio, ad accudirci durante i pasti sia stato un gruppo di giovani di una scuola alberghiera di Brescia prestati per un mese di stage al Forte. E’ successo che tra di loro – tutti di un livello di efficienza, serietà e professionalità irreprensibili - ce ne fossero alcuni particolarmente dotati in immagine e stile nello svolgimento del servizio. A me è venuto da pensare a certe descrizioni che al proposito si leggono nei romanzi di Thomas Mann e Robert Musil, o in certi film - uno in particolare, La vecchia signora di Ermanno Olmi. E non vi scandalizzate se all’improvviso mi è passata per la testa l’idea che a meritare di essere serviti fossero più loro che alcuni tra i commensali: per evidenti ragioni di eleganza e grazia - per classe, oserei perfino dire. Poi, la sera, sul tardi, nelle vicinanze del bowling dove si è giocato con un gruppo di amici, mi è capitato di scoprire che lì accanto a giocare a pallone su di un campetto ci fossero giusto i ragazzi della scuola alberghiera. Gli irreprensibili e professionali arcangeli del giorno si erano trasformati in satanassi impegnati a picchiare duro sul pallone, ma con una rabbia tale da far intuire cosa significhi, in termini di sacrificio e costrizione, il mestiere di servire a tavola persone molto più fortunate e ricche di te.
Nei miei ripetuti, felici ma anche un po’ infantilmente regressivi vagabondaggi in bici per vialetti e vicoli, a un certo punto ho involontariamente infilato un varco laterale che mi ha fatto irrompere in un cortiletto sul retro di un edificio che sembrava non avere alcuna evidente funzione. Poteva essere un deposito, un dormitorio per il personale, un magazzino. Negli angoli erano ammonticchiati sacchi e scatoloni, ai lati parcheggiate diverse delle piccole auto elettriche che percorrono in continuazione i vialetti del Village come blatte nelle tubature idrauliche o globuli nelle arterie. Nel centro del cortiletto, un gruppo di persone, uomini e donne, bivaccava senza livree né divise, totalmente privi della tensione sollecita e sorridente loro abitualmente propria. Chi ciondolava, chi fumava, nessuno proferiva parola. Nell’aria ristagnava sospeso un senso di sconforto e di abbandono, come l’attesa rassegnata di un inesorabile danno.
Mi sono sentito sottratto al cerchio magico, passato all’improvviso oltre lo specchio. Mi ha preso alla gola una sensazione di allarme come a un bambino cui viene interrotta la melodia prediletta, sottratto il giocattolo. Ho rinculato con la gola arsa, l’imbarazzo in testa di chi ha involontariamente compiuto qualcosa di sconveniente.
Mi sono reimmerso nel flusso abituale, tra immagini di facce felici e verde smagliante d’alberi, avvolto da colori allegri e ondate di profumi intensi. Ma irrefrenabili mi sono arrivate in testa domande a fiotti. Questo Villaggio non è, in buona sostanza, una sia pur splendida quinta teatrale dove viene messa in scena una recita? Non è abile e raffinato gioco di prestigio? Nella sua tensione alla armoniosa perfezione asettica, nel tentativo di creare un piccolo mondo ideale e fittizio, non si vuole in realtà eliminare dallo sguardo la presenza del disordine, evitare l’irrompere di qualsiasi segnale di conflitto, corruzione e degrado?
Questo Villaggio, al di là della dimensione concreta della vacanza bene organizzata, è anche la materializzazione di un mondo fuori del mondo, il sogno di un intatto e incontaminato eden primitivo. Per i ricchi che possono permetterselo è stato creato un angolo di protezione e riparo, un paradiso dove, pagando l’adeguato prezzo, il miele e il latte della felicità scorrono su comando. Là fuori si agitano spettri e fantasmi, scoppiano grida di rabbia e violenza, si tendono agguati ed esplodono bombe. Là fuori scorre il sangue e si muore di fame, sbarcano a frotte derelitti e miserabili, pullulano in transumanza moltitudini di dannati, l’aria è acre del fetore di cadaveri. Qui le tavole dei ristoranti rigurgitano di artisticamente modellate cascate di cibi prelibati, i bagni delle suites sono grandi quanto lo spazio dove in altre parti del mondo dormono intere famiglie. Bisognerebbe che anche i bambini di Gaza, o di qualcuna delle migliaia di favelas del mondo, potessero scoprire e apprezzare le agiate raffinatezze di questo nirvana sontuoso.
A contatto di tante e pregiate delizie, vengono in mente le parole finali del recente libretto di Giorgio Ruffolo, là dove il mondo attuale viene raffigurato come un appartamento composto di due stanze: in una si spreca e nell’altra si crepa.
Le cose vive, le cose vere, hanno alti e bassi, ombre e luci, pieni e vuoti. Le pelli più lisce hanno cicatrici a segnalare contusioni e ferite. A essere messo in scena qui è un livello tra i più avanzati di recita della felicità terrena. Tutto sembra illimitato e illimitatamente regalato, dalla scena è stata meticolosamente espunta l’idea stessa di sforzo, fatica. Qui tutto è dovuto, niente è rifiutato, ogni desiderio è prontamente appagato. Qui non si sentono odori cattivi, gli sguardi sono pieni di buoni sentimenti. E’ una esperienza inebriante di sospensione dei limiti angusti, delle regole strette, degli ostacoli insuperabili.
Poi, alla fine, prima dell’uscita e del ritorno alla realtà, si passa dal varco dove, forniti di carta di credito, si è rigorosamente attesi. Mentre si appone in calce la propria firma, si fa il pieno finale di complimenti e sorrisi. E, saliti sul pulman che porta all’aeroporto, dopo qualche chilometro si attraversa la selva irta di ferraglie, di torri fiammeggianti e di panciute cisterne del deposito carburanti della Saras di Moratti. Tutto è tornato ferruginoso e livido, massiccio e minaccioso.
Usciti dal mondo bucolico e sublime del Villaggio, si è tornati in quello vero dove si agitano intrecciati i simulacri della vita vera, e l’altrettanto reale presentimento di distruzione, inquinamento e morte.
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