martedì 14 ottobre 2008

Post memoria

[di Massimo Ilardi]

Questo rinnovato conflitto esploso dentro le istituzioni tra fascismo e antifascismo non é entusiasmante. Anzi, deprime come ogni forma di conformismo. E’ una battaglia di retroguardia che si muove nel folto dei tempi lontani incapace di rispondere alle dure repliche del presente. La crisi culturale e politica della nostra classe dirigente trova qui, nell’asservimento a un tempo lineare e continuo, la manifestazione più eclatante della sua gravità e della sua visibilità. Lo stesso pensiero critico di sinistra che in altre occasioni ha dato prove di lucidità e creatività, messo di fronte a una questione sepolta ormai da quasi settant’anni, non può fare di meglio che perdersi in una pletora di luoghi comuni e dentro posizioni lontane da qualsiasi riscontro con una realtà sociale a dir poco ‘marziana’ rispetto a quei luoghi storici che si vogliono disseppellire. D’altra parte, quando torna a imperversare lo Spirito della storia come presenza eterna che vuole racchiudere in sé passato e avvenire incombe sempre minaccioso il rischio dell’accumulo di eventi ritenuti sacri, in quanto incarnano quello Spirito stesso, ma che di fatto non hanno più alcun significato per la vita di uomini e donne.

Un buon punto di partenza può essere invece questo: il fascismo, come fenomeno politico, culturale e sociale, é morto nel 1945 e con esso e nello stesso anno é morto di conseguenza l’antifascismo. Punto. Ora, non c’è dubbio che rientra in un processo naturale il fatto che la generazione che ha vissuto e sofferto queste esperienze le abbia conservate nella sua memoria e tenda a trasmetterle. Non é giusto però che pretenda di perpetuarle come eredità. Perchè se ciò che é stato, afferma Walter Benjamin, “viene celebrato come una ‘eredità’ é più disastroso di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa.” E’ invece proprio come ‘eredità’ che si tenta di celebrare, da parte di istituzioni e gruppi sociali consolidati dalla tradizione, il rito di una ‘memoria collettiva’. E, d’altra parte, come sarebbe possibile, mentre viviamo nella dimensione dell’iperconsumo, dell’uso effimero e della distruzione incessante di ogni cosa e valore, mentre accettiamo che la vita di un uomo sia strettamente ridotta alla sua esistenza individuale e che le generazioni passate e future non abbiano più alcuna importanza ai suoi occhi, formare una memoria collettiva al di fuori di un’eredità artificiale? Come sarebbe possibile, di fronte all’eccesso di percezioni, al moltiplicarsi di visioni che i media distribuiscono, immaginare il passato in maniera diversa da una vasta collezione di immagini, da un immenso simulacro fotografico, in cui la storia degli stili estetici ha preso il posto della storia reale?
Se é così, allora l’eredità che si vuole trasmettere alle generazioni successive assume i colori di una identità preconfezionata, di un prontuario di regole già stabilite, di un patrimonio di sentimenti e di tonalità emotive che, non avendo più alcun radicamento nella società, si vogliono perpetuare immutabili come fattore di coesione e di ordine pur essendo scomparso il gruppo di riferimento che li teneva in vita. E’ veramente un paese di vecchi quello che usa la loro supposta e arrogante saggezza per pretendere di possedere la verità! Salvo poi farli ritrovare come il protagonista del film di Lawrence Kasdan dentro un Grand Canyon sociale, sconosciuto e nemico.
Di altra natura, infatti, sono oggi i rischi che attentano alla nostra libertà materiale e su altri universi poggiano le culture giovanili che non ricercano alcuna memoria o simbolo per fondare le loro appartenenze. Esse si muovono leggere non attraverso il tempo ma lo spazio e proprio per questo rifiutano di rinchiudersi nei recinti di cemento costruiti dalle identità, soprattutto se sprofondate nel passato. Perchè non proviamo a chiedere loro se ricordano una data o, magari, solo il nome di qualcuno che ha partecipato a quella guerra civile di settant’anni fa? Ci accorgeremmo presto che quella guerra non é dimenticata, semplicemente non é mai esistita. A questo punto nessuno scandalo, nessun ditino accusatore o noiosa cantilena ‘buonista’ potrà nascondere la verità vera, e cioè che non possediamo più gli strumenti per conoscere quello che sta accadendo nel Grand Canyon sociale. La nostra cultura viaggia ancora al di sopra dei territori, legata alle ideologie che appartengono alla coscienza del lavoro intellettuale, delle sue avanguardie, dei suoi chierici, dei suoi specialismi. E’ sul territorio invece che si dispiega la catena delle conoscenze, delle mentalità, della mobilità, dei lavori, dei desideri che si sprigionano con violenza dalle culture metropolitane. Ed é sul territorio e solo sul territorio che le figure sociali si riconoscono come ‘parte’, organizzano le differenze, individuano il nemico.
Ben altro discorso sarebbe invece quello che si interroga sul perchè i segni visibili di queste culture si rivolgono sempre a destra e non più a sinistra come invece accadeva fino a qualche decennio fa. Perchè di segni si tratta e non di simboli: segni che guardano al presente e non simboli che scavano nel limo primordiale della Storia. Sono puri segni senza uno spessore temporale e una filosofia della storia che li sostenga e che hanno il solo scopo di provocare e di innescare il conflitto. Non provengono da una cultura e da una tradizione che fondano identità ma da una visione conflittuale assoluta che assegna appartenenze, tanto lucida e consapevole da portare a ogni costo allo scontro.
Ma perchè questi segni guardano a destra? Elenco semplicemente alcuni motivi che meriterebbero però ben altro approfondimento:
-il primo trova spiegazione nel contrasto tra democrazia e libertà. La crisi della mediazione politica e l’avvento di una società del consumo hanno trasformato il territorio non in un bene comune, come predica inutilmente la sinistra, ma in una misura e in una forma che si rendono spazialmente visibili attraverso la separazione tra differenze e l’esclusione delle diversità. E’ un territorio attraversato da barriere e da un tessuto di poteri centrifughi che si riproducono contro le istituzioni e che si struttura esclusivamente in connessione ai diversi rapporti di forza che di volta in volta vi si esercitano. E’ su questo territorio che il consumo proietta direttamente i desideri degli individui ed é sempre su questo territorio che il mercato cerca di esercitare la sua azione di controllo. Cercare di contrastare questi processi proponendo utopie (“un altro mondo é possibile”, la cittadinanza) o pratiche (il “fare società”, l’anticonsumismo, il riproporre gli antichi spazi pubblici della ‘città di pietra’) che si muovono non solo in una direzione diversa, che sarebbe legittima se tenesse comunque conto delle mutazioni antropologiche avvenute, ma secondo una linea completamente opposta che ripropone la democrazia come modello sociale e culturale fondato su un inarrestabile processo ugualitario e partecipativo, diventa pura follia politica. Perchè lascia alla destra la possibilità di gestire il dissidio tra la democrazia come forma di società e la libertà come pratica dell’individuo. Una libertà che non vuole impedimenti, non chiede partecipazione, scatena conflitti, delimita luoghi, crea differenze, non cerca consensi, non produce immaginari simbolici se non concretizzandoli immediatamente e che frantuma quella supposta massa democratica in gruppi, minoranze, individui in lotta tra loro e che agiscono sul territorio;
-il secondo riguarda il ‘vizio’ storico della sinistra di considerare diabolico tutto ciò che fuoriesce dalle istituzioni stabilite. Eppure la cultura di sinistra, almeno fino alla fine degli anni Settanta, é riuscita ad avere un ruolo essenziale nella politicizzazione della società italiana, e questo mentre le strade delle città venivano attraversate da conflitti sociali violenti che traducevano immediatamente in agire politico la loro intensità e l’innovazione culturale giocava un ruolo essenziale per legittimare la radicalità delle scelte di campo. Quando però la ‘ragion di Stato’ che é nel codice genetico dei partiti della sinistra ha di nuovo prevalso fino a criminalizzare una intera generazione, il distacco tra culture sociali antagoniste e politica statalista e legalitaria della sinistra istituzionale non poteva che consumarsi;
-il terzo, infine, si riferisce alla cultura di destra che, non riconoscendosi nell’arco democratico e costituzionale che ha fondato la Repubblica, é stata dal dopoguerra in poi una cultura antistituzionale, fortemente eversiva e destabilizzante rispetto al sistema dei partiti e alle sue regole. Questa carica che si é mantenuta nel tempo, nonostante svolte e svoltine, si ritrova oggi più adatta a rappresentare una microconflittualità che più di ieri é irrorata da una rabbia sociale e antistituzionale.

[da Carta, 22.10.2008]

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