martedì 6 maggio 2008

Dove

Questo di Andrea Di Consoli (La curva della notte – Rizzoli 2008) è un libro funereo, viscerale e disperato.
Dove il protagonista, al volante della sua macchina, viene colpito da un infarto raccontato in dodici stazioni che attraversano e cuciono insieme la storia di una vita.
Dove le donne sono corpi agognati e disprezzati, da spogliare, aprire e riempire come sotto frenesia predatoria generata da horror vacui.
Dove gli esseri umani sono famigliarmente chiamati cani.
Dove per avvalorare la tesi che nella realtà odierna si ha a che fare con “cani senza ragione”, si ricorre al conforto – in exergo – di un frammento degli antichissimi Oracoli caldaici.
Dove l’amico di infanzia viene scoperto a letto con la madre mentre - lei famelica e consenziente - la umilia e schiavizza.
Dove la domanda con cui vent’anni dopo tormentare l’amico scoperto a letto con la madre è: ma lei, te l’ha preso in bocca?
Dove la giovane moglie dell’amico d’infanzia, quello scoperto a letto con la madre e indotto a un incidente d’auto che è in realtà un neanche tanto camuffato omicidio, è trofeo da portare immediatamente a letto.
Dove un amico più recente, giovane e bello, è buono soltanto come trastullo erotico, silente come statua dagli occhi senza iridi.
Dove corpi e ricordi delle persone care (madre, padre, mogli, amici) servono come materiali per la composizione violenta di intrecci incestuosi.
Dove i figli sono ingombri rifiutati e quindi, a loro volta, intossicati da rancori.
Dove gravita sospesa una atmosfera plumbea, da “quanto era bello l’antico sogno, e quanto è tutto inesorabilmente andato a male.”
Dove il protagonista non fa che bere e fumare e bere, in un parossismo autodistruttivo accompagnato da presentimenti di tumore ai polmoni, sbocchi di sangue, gambe paralizzate e altre allucinazioni tetre.
Dove la condizione umana viene rappresentata e descritta – con persuasiva efficacia - come una condizione di sputo, spurgo e stupro.
Dove i materiali di una vecchia fabbrica abbandonata, le luci di una discoteca, i trascorsi rivoluzionari sessantottini e i ricordi di un mesto mestiere da ferroviere (siamo lungo la costa di una più che probabile Calabria), fanno da quinta alla messa in scena di una nerissima tragedia.
Dove il protagonista si chiama Teseo. (Teseo: ma non era colui che, grazie al filo di Arianna, uccideva nel Labirinto il Minotauro e ne usciva salvando con sé i giovinetti destinati a vittime sacrificali?)
Dove anche un mitologico episodio di salvezza si trasforma in mimesi derisoria.
Dove non c’è un briciolo di speranza, la morte la fa da protagonista e la bellezza del mare e delle donne è luce livida che serve a meglio illuminarla.
Dove si sprigiona comunque una sotterranea e tenebrosa forza tellurica che, disturbando, cattura e intriga.
Che altro dire? Forse, che in una società e in una cultura dove la vita viene stupidamente siliconata, e la morte caparbiamente rimossa, anche la magistrale descrizione di una agonia dolorosamente prolungata costringe a guardare negli occhi gli aspetti cruciali di una realtà esplicitamente intera.

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Meltemi Editore 2009